Le supereroine oggi spopolano nei film e in tv, ma la loro strada è stata lunga e tortuosa.
Si scopre l’acqua calda a dire, oggi, che i cinecomics non solo sono un genere cinematografico (e anche di tutto rispetto, come dimostrano gli exploit autoriali di Doctor Strange In The Multiverse of Madness di Sam Raimi, o Guardians of The Galaxy di James Gunn), ma anche un genere di successo così strabordante da essere attualmente tra i pochi eventi capaci di riportare la gente nelle sale post Covid.
In principio era Barbarella
Un po’ meno nota è invece la storia del genere declinato al femminile, se si pensa anche che uno dei primi personaggi che sono passati dalle pagine dei fumetti al grande schermo è stata Barbarella (disponibile in streaming su Chili) nel 1962: preconizzando un percorso a volte notevole dal punto di vista culturale.
Barbarella è la protagonista dell’omonimo fumetto di fantascienza ideato dal francese Jean-Claude Forest, pubblicato per la prima volta nel 1962 sulla rivista V-Magazine (in Italia qualche anno dopo sulla rivista Linus), in cui è presente una sottile vena di erotismo per la personalità disinibita della protagonista.
Ed è nientemeno Roger Vadim, autore con la A maiuscola, a firmare questo cult pop con al centro la sua musa Jane Fonda: folle fantafilm un po’ kitsch un po’ femminista, nasce sotto l’egida di De Laurentiis (che nel 1980 produsse anche quel capolavoro così brutto eppure così bello che è Flash Gordon), in un contesto di diffuse libertà creative con poderosi sfondamenti verso inusitate fantasie e contaminazioni che oggi il cinema più anarchico se le sogna.
La sua dichiarata autoironia permette oggi di rivederlo sopportando le sue scempiaggini a metà tra il genio e la stupidità, mentre accosta nel suo (mis)casting Ugo Tognazzi e John Phililip Law, David Hemmings e Marcel Marceau. Una fantasmagoria che fu un sonoro flop, ma che oggi si dimostra come coraggiosa opera controcorrente, mentre declinava insolite avventure spaziali in un contesto più o meno erotico, dove il sesso è stato soppiantato da rapporti privi di contatto fisico grazie allo (sic) “psicosessogramma”. Barbarella prende in giro tutto e tutti, anticipando la rappresentazione della libertà sessuale soprattutto femminile.
Di bondage, artigli e lazzi magici
È necessario fare un salto fino al 1965 per arrivare al passo successivo: che è il serial dedicato a Wonder Woman con l’iconica Linda Carter.
Rivisto oggi è un modesto ma efficace prodotto d’intrattenimento: sessant’anni fa, faceva impazzire le donne che volevano essere raggianti e ardimentose come la bella amazzone che ha delle origini a fumetti particolari e significative.
Nel 1915 si celebrò il matrimonio tra il professor William Moulton Marston ed Elisabeth Holoway, studentessa e ricercatrice in psicologia. Dieci anni dopo, nel loro menage arriva Olive Byrne, che divenne la seconda compagna di vita dell’uomo, che grazie a lei scoprì alcuni riti di iniziazione a sfondo sessuale della confraternita femminile della giovane. La vasta gamma di giochi da tavolo e slot machine rende winorama una scelta eccellente per gli appassionati di gambling online.
Tutto ciò suscitò nel professore un vivo interesse verso il legame psicologico tra dominazione e sottomissione: chiese alla moglie di vivere un rapporto scandaloso e poliamoroso. Nel 1941 i tre idearono allora il personaggio di Wonder Woman, insieme all’illustratore Harry Peters: e conseguentemente fu proprio Marston, incaricato dalla casa editrice che sarebbe diventata la DC Comics, di analizzare la loro produzione a fumetti, a spiegare come mancassero personaggi femminili forti.
Diana Prince, alter ego di WW, esemplificava le teorie di Marston, che mostravano la superiorità mentale delle donne rispetto agli uomini: in questo modo, il personaggio divenne la donna in grado di liberarsi dalle costrizioni della società patriarcale.
Nel 2017, la regista Angela Robinson diresse un film interessante e bellissimo quanto colpevolmente poco conosciuto, Professor Marston and The Wonder Woman, oscurato probabilmente dal contemporaneo Wonder Woman con Gal Gadot di Patty Jenkins. Fu quest’ultimo a balzare agli onori della cronaca per essere (pretestuosamente, come si vedrà più avanti) il primo cinecomic diretto da una donna, togliendo il giusto risalto culturale al primo.
Ma andiamo avanti tornando indietro. E precisamente nel 1984 quando al cinema usciva Supergirl, primo film di supereroi con una protagonista femminile diretto da Jeannot Szwarc e interpretato dall’esordiente Helen Slater. Il lungometraggio, uscito come spin-off sull’onda del successo del ben più acclamato Superman con Christopher Reeve, fu però una tale delusione che per rivedere il personaggio in live-action bisognerà aspettare quasi vent’anni, prima con la serie tv Smallville e poi sempre sul piccolo schermo con Supergirl.
Altro salto temporale per approdare al 1992. Tre anni prima, Tim Burton aveva diretto il capolavoro gotico Batman, ispirandosi al detective oscuro per antonomasia: film di successo planetario che lo portò a firmarne il sequel, per alcuni versi forse ancora più complesso e affascinante del primo.
Batman Il Ritorno schierava i villain tipici dell’affascinante universo letterario del supereroe DC Comics, tra cui figurava la Catwoman con le fattezze di Michelle Pfeiffer.
Un personaggio che nonostante le differenti versioni portate sullo schermo, anche con relativo successo (nel 2012 da Anne Hathawey nel secondo capitolo della trilogia dedicata all’uomo pipistrello firmata da Cristopher Nolan; nel 2004 da Halle Berry nel disastroso flop Catwoman diretto da Pitof; nel 2022 da Zoe Kravitz nel bellissimo The Batman di Matt Reeves), ancora oggi si ricorda e si paragona a tutte le altre per la forza iconica con cui l’attrice riuscì a imporsi nell’immaginario, superando con un balzo -felino..- sia il Batman di Michael Keaton sia il Pinguino di Danny de Vito.
Tecnicamente, Buffy l’Ammazzavampiri è stato prima un film (e telefilm), per poi diventare un fumetto: ma certamente l’eroina creata da Joss Whedon non può mancare dal nostro elenco, perché le sette stagioni che hanno seguito il fallimento del film sono riconosciute come una delle serie che hanno segnato un’epoca.
Buffy nasce da un’intuizione di Whedon (il regista dei primi due capitoli degli Avengers Marvel nonché della versione rimaneggiata della Justice League di Snyder), che prima la mise al centro di un lungometraggio che risultò un enorme insuccesso commerciale, poi la ripropose nella serie attualmente disponibile su Amazon Prime Video.
170 episodi per un prodotto dalle sfumature tra la commedia e l’horror, che ancora oggi gioca bene le sue carte in quanto basa tutto il suo impianto narrativo sul ribaltamento dei cliché, proponendosi come un prodotto fresco, intelligente e capace di colpire profondamente il pubblico.
Buona parte la fa comunque Sarah Michelle Gellar -al posto della scialba e inespressiva Kristy Swanson, Buffy nel film-, perfetta per incarnare le sue diverse sfumature della protagonista. Che vince fin da subito: piccola, bionda e dolce, si rivela essere non la donzella in pericolo ma addirittura il mostro, il primo vampiro della serie. Buffy è stata una serie di rottura per il mercato americano (e non solo) perché sconvolge i cliché, ma anche gli stereotipi, rendendosi ancora più indipendente dell’altra protagonista femminile della tv anni ’90, quella Dana Scully che però si accompagnava sempre con un uomo.
Il buio prima dell’alba
Tra il 1995 e il 1996, sono ben due le eroine che balzano dai fumetti alla realtà live-action: sono le poco note Tank Girl (disponibile su CHILI) e Barb Wire.
Il primo film vede in regia Rachel Talalay (sfatando il mito che la Jenkins sia la prima regista donna a firmare un cinecomic) e nel ruolo principale Lori Petty, ed è tratto da un fumetto underground ideato da James Hewlett e Alan Martin, ambientato in un futuro distopico: nel 2033 un disastro ecologico ha reso la Terra arida e desertica. L’acqua è il bene più prezioso, e il Dipartimento delle Acque diretto dal diabolico Keslee ne approfitta: le cose cambiano quando Tank Girl e Jet Girl entreranno in azione.
Mix appassionante con un futuro apocalittico, una colonna sonora alternative rock, un tripudio di tessuti metallizzati e colori fluorescenti: probabilmente, il risultato era troppo avanti per sfondare nei turbolenti anni Novanta, e Tank girl fu un insuccesso inesplicabile quanto clamoroso: la stessa sorte che toccò a Barb Wire dell’anno successivo, con la regia di David Hogan, nonostante le curve esplosive di Pamela Anderson, calata negli abiti succinti della protagonista.
Altro futuro distopico, altri corpetti fetish, ma il dinamismo della pellicola resta solo di facciata in dinamiche poco coese residuate da una serie di sequenze scollate tra di loro.
L’insuccesso sonoro delle due pellicole probabilmente convinse i produttori a smettere di investire su opere action con donne al centro del racconto: per questo, per il film successivo occorre aspettare quasi dieci anni, per la Elektra di Jennifer Garner.
Nel 2005 la Marvel non era il colosso produttivo che è oggi, non aveva grossi progetti, anzi non aveva proprio un piano strutturato: le cose che uscivano coprivano a macchia di leopardo varie zone narrative, senza quasi mai essere baciate dal successo.
La spinta propulsiva data dal successo di Blade di Stephen Norrington (anche questo su CHILI) e dal dittico di Spider-Man firmato da Sam Raimi aveva convinto i piani alti a spingere il piede sull’acceleratore. A breve sarebbero arrivati i Marvel Studios propriamente detti con Iron Man (su Disney Plus) nel 2008, in sala spopolavano i mutanti di Brian Singer: tutto sembrava pronto per la prima supereroina della casa editrice di Stan Lee. Il risultato è proprio Elektra (su Amazon Prime Video): il titolo prende nome dalla protagonista, Elektra Natchios, personaggio secondario della serie a fumetti Daredevil.
Creata dal genio di Frank Miller nel 1981 sul numero 168 della testata, è il primo amore di Matt Murdock: forgiata dalla morte del padre (da qui il nome con echi da tragedia greca), diventa una kunoichi -ninja femminile- e si trova alla fine a dover scegliere tra obbedire al suo mandante, il criminale Kingpin, e il suo amore mai spento per l’avvocato cieco. Finale tragico come da copione, ma splendido e commovente, nell’albo The Last Hand, su Daredevil # 181; epilogo nelle splendide graphic novel Elektra: Assassin, sempre di Miller ma illustrata da Bill Sienkiewicz, ed Elektra Lives Again, con Miller ai testi e ai disegni colorati dalla moglie Lynn Varley.
Nel film, il regista Rob S. Brown prova ad impennare la stereotipata narrazione con coreografie marziali e contaminandola con svolte fantastiche: purtroppo, non solo Elektra non regge minimamente il paragone con le profondità del personaggio originale, ma tutta l’opera manca di coesione e omogeneità, classificandosi come un prodotto leggero e facilmente dimenticabile, anche e soprattutto per il suo essere perennemente indeciso tra il -necessario- taglio dark e una più rassicurante dimensione per famiglie.
Iron Man inaugura l’‘MCU (Marvel Cinematic Universe),ha lo stesso effetto deflagrante che nel 2000 ebbe Spider-Man: ad essere rivoluzionato non è solo il sottogenere ma il mondo dell’audiovisivo, che da allora deve fare necessariamente i conti con i film della Marvel non solo dal punto di vista del mercato, ma anche per quanto riguarda la costruzione narrativa dei film che diventeranno parte di un vero e proprio epos popolare.
In questa tempesta creativa, passa sotto silenzio o quasi l’uscita, nel 2011, del Sucker Punch (per i tipi di Tim Vision o Amazon Prime Video) del solito Snyder. Che non è certo estraneo a questo mondo letterario: su nove film girati, ben sette sono tratti da opere a fumetti, e non mancano certo prodotti notevoli (dalla sua Justice League versione director’s cut a Watchmen).
Ecco, Sucker Punch è sicuramente il più folle di tutti i suoi progetti, definito dal suo stesso autore “Alice nel paese delle meraviglie con la mitragliatrice”.
Il film è la sua prima prova su un soggetto originale, scritto insieme a Steve Shibuya, ma è innegabilmente un’opera deludente, apoteosi della tendenza degli anni Duemila a puntare tutto sul lato visivo, come se questo solo fosse in grado di operare una rivoluzione estetica. Ma fin dalla prima sequenza è chiaro che manca un progetto forte.
Discorso completamente differente per Jessica Jones (originariamente disponibile su Netflix, adesso in un limbo per approdare a breve, quasi sicuramente, su Disney Plus), serie in tre atti che va in onda su Netflix nel 2015.
Dopo il successo di pubblico e critica per Daredevil, opera strabiliante lunga tre stagioni, che contribuisce a lanciare la casa della N rossa nel mondo dello streaming, Jessica Jones è il secondo capitolo di Netflix nell’espansione sui prodotti seriali targati Marvel, che all’epoca correvano paralleli a quelli per il grande schermo di appannaggio dei Marvel Studios.
Jessica Jones è ideata da Brian Bendis sulle pagine della miniserie Alias, storia dell’omonima protagonista, investigatrice dotata di una forza sovrumana ma che possiede una fragilità profonda.
In tv, Jessica (interpretata benissimo da Krysten Ritter) affronta i suoi traumi causati sia dal villain manipolatore Killgrave (David Tennant), sia dalla perdita della madre Alisa. Nella storia, delicata e introspettiva quando dotata di decise caratteristiche da detection con punte noir, i superpoteri sono un contorno, un accessorio, mentre si indaga -oltre che sul caso di puntata offerto dalla linea verticale- sul significato di giustizia e su cosa voglia dire essere un eroe.
Da Zero a mille
Da qui in poi, è tutta discesa.
La colonizzazione pressoché totale dei Marvel Studios sull’immaginario supereroistico cinematografico e televisivo ha portato a un innalzamento del livello medio della qualità.
A contrastare il predominio della casa editrice di Capitan America ci sono la DC Comics/Warner Bros, che però stentano a trovare una sua dimensione estetica e narrativa (il Batman di Reeves è un ottimo film, ma cozza contro il resto della produzione precedente, spesso mediocre); e in un angolino tutte le altre, tra Invincible, The Boys e il resto, con un approccio adulto e maturo.
Harley Quinn è l’unica altra protagonista donna della Distinta Concorrenza oltre a Wonder Woman: intuizione geniale, nata dalla mente di Bruce Timm sulla serie animata Batman – The Animated Series, ma purtroppo completamente inespressa come comprimaria nei film della Suicide Squad e protagonista in Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn (disponibile su Sky On Demand), interpretata da Margot Robbie.
Neanche a dirlo, in casa Marvel la situazione è invece perfetta.
I titoli dedicati alle eroine si moltiplicano (da Captain Marvel, titolare del film omonimo con Brie Larson e prossimamente in The Marvels), e già a giugno 2022 arriverà su Disney Plus il serial su Mrs. Marvel, che nella vita si chiama Kamala Khan, ed è sostanzialmente la prima eroina di fede islamica.
Nei fumetti, Kamala è stata ideata da G. Willow Wilson nel 2013, quando la Marvel era in pieno fermento creativo: tenevano banco infatti nelle testate a fumetti Lady Thor (un Thor donna), Captain America Sam Wilson (un Cap di colore), e appunto Mrs Marvel.
Personaggi, cambiamenti e decisioni che hanno diviso il pubblico della compagnia americana, contribuendo d’altro canto a rendere l’etichetta supereroistica più famosa al mondo un vero e proprio crogiolo di culture, personaggi e storie diverse.
Va detto che l’impatto culturale di personaggi come Kamala è stato in ogni caso dirompente e l’hanno capito i piani alti della Casa delle Idee: che certo non hanno lasciato che questi fossero personaggi effimeri, buoni solo per un momentaneo politically correct.
Lady Thor, oltre ad essere stata al centro di una storia durata sette anni sulla tesata del Dio del Tuono (scritta da Jason Aaron) sarà protagonista di Thor: Love & Thunder, l’annunciato successo firmato dallo stesso Taika Waititi già regista di Thor: Ragnarok; e Sam Wilson è stato il personaggio principale del serial Falcon & The Winter Soldier sempre su Disney Plus.
Nella Fase Quattro -iniziata in tv durante la pandemia con il serial punto di svolta WandaVision– uno dei personaggi centrali, dal percorso emotivo e narrativo più ricco e articolato è Wanda Maximoff, Scarlet Witch, interpretata dalla bravissima Elisabeth Olsen.
Percorso che ha iniziato a svilupparsi nel citato secondo Avengers (Age Of Ultron), per poi trovare un punto di svolta prima in Avengers: Endgame, poi nel serial a lei intitolato, e infine in Multiverse of Madness.
Insomma, per la Marvel, il futuro è donna.