L’assedio di Silverton (Silverton Siege), diretto dal regista sudafricano Mandla Dube, è disponibile su Netflix. É stato pubblicato sulla piattaforma il 27 aprile, giornata dedicata al Freedom day.
È un film agevole, che racconta una storia drammatica e complessa.
Mandla Dube, con questo suo secondo lungometraggio, prova a rappresentare la rivolta contro l’apartheid, con un linguaggio immediato. L’assedio di Silverton non è certo un capolavoro e in alcuni momenti ripropone situazioni viste e riviste. Nonostante ciò, il film può divenire un prezioso strumento per avvicinare il pubblico più giovane alle questioni cruciali della Storia recente.
La trama
Sudafrica 1980. Dopo il fallimento di una missione di sabotaggio, Sachaba (Tumisho Masha), Mbali (Noxolo Dlamini) e Aldo (StefanErasmus), tre combattenti contro l’apartheid, finiscono in una difficile situazione con ostaggi in una banca. Per porre fine alle ostilità i tre chiedono alle autorità la liberazione di Nelson Mandela.
Una storia vera
L’assedio di Silverton è basato su fatti realmente accaduti. Il regista è stato ispirato dalla vicenda vissuta il 25 gennaio 1980, da Stephen Mafoko, Humphrey Makhubo e Wilfred Madela. I tre erano combattenti del MK, un movimento militare contro l’apartheid e avevano pianificato un sabotaggio in un deposito di benzina nei pressi di Mamelodi. Ma proprio come avviene nel film, qualcosa va storto, scoprono di essere pedinati dalla polizia e si rifugiano in una banca di Silverton.
Mandla Dube (Kalushi) decide di far iniziare il film con l’entrata in banca dei tre protagonisti, lo scontro inevitabile con gli ostaggi e le trattative con le autorità. A seguire un piccolo flashback, con la voce narrante di Calvin, il capo dei tre, che spiega come sono giunti fino a quel punto.
L’origine della lotta armata contro l’apartheid
I fatti realmente accaduti a Silverton hanno una genesi molto più complessa e risalgono agli anni Sessanta del Novecento. È in questo decennio, infatti, che la protesta del popolo di colore contro l’apartheid raggiunge il suo culmine. L’episodio scatenante fu il massacro di Sharpeville, quando durante una manifestazione pacifica la polizia sparò sulla folla, uccidendo settanta persone. La manifestazione era stata promossa per protestare contro un decreto emanato dal Governo, che imponeva ai cittadini neri di esibire un lasciapassare.
Il reale motivo per cui la polizia avesse sparato sui manifestanti pacifici non fu mai chiarito, ma l’avvenimento diede modo di armare la protesta del popolo contro la discriminazione razziale. Tutto ciò ne L’assedio di Silverton non c’è e il film sembra erigersi senza solide fondamenta e crollare all’insegna della banalità. Il contesto drammatico dell’apartheid viene solo accennato e un personaggio dell’importanza di Nelson Mandela sembra chiamato in causa solo per creare la giusta atmosfera.
Un film che scimmiotta la serialità televisiva
Per quanto riguarda i tre protagonisti, questi sono romanzati più del dovuto. Il loro background culturale e sociale, inoltre, viene descritto con una lunga serie di stereotipi della serialità televisiva, che poco o nulla hanno da spartire con il cinema. L’assedio di Silverton pecca anche nella ricreazione dell’ambientazione. Nel film manca ogni riferimento agli anni Ottanta; la città di Pretoria, inoltre, può essere confusa con qualsiasi città americana. La statua di Paul Kruger, leader della rivolta contro il Governo britannico e la vecchia bandiera del paese sono elementi davvero poco efficaci per collocare nel migliore dei modi la vicenda rappresentata.
Il film poi ha una fotografia e un’illuminazione eccessivamente patinane, per raccontare avvenimenti realmente accaduti che possiedono un forte messaggio sociale. Immagini più sgranate e una regia più spregiudicata avrebbero dato un valore aggiunto al film. Ma ciò è probabilmente dovuto a motivi di carattere produttivi. Con L’assedio di Silverton, Netflix riproporre gli schemi narrativi e la prassi realizzativa dei suoi cavalli da battaglia, come La casa di carta.
Un incentivo alla conoscenza
Nel film sono molti gli elementi che ricordano le vicissitudini di Tokyo, Berlino Naiorobi e il Professore. Il microcosmo che si crea all’interno della banca e le trattative con la polizia all’esterno ci ricordano troppo la serie di successo spagnola. Ma se lì tutto funzionava alla perfezione o quasi, in questo caso c’è il rischio di cadere nella banalità. L’assedio di Silverton non è una serie, ma un lungometraggio della durata di circa un’ora e mezza e in questo tempo i suoi protagonisti non riescono a trasmettere, in modo realistico, la loro tragicità. Il film, dunque, appare come un prodotto ibrido, che ha l’ambizione di fare cinema, con gli strumenti della serialità.
Sono proprio questi strumenti, però, a rivelarsi come punti di forza di un’opera mediocre. La già citata fotografia patinata, l’estrema resa romanzata dei personaggi, insieme al montaggio serrato e ai dialoghi semplici possono essere caratteriste molto utili per attirare il pubblico dei giovani. L’assedio di Silverton può offrire loro l’incentivo per approfondire la storia raccontata, perché la conoscenza è la miglior arma contro il razzismo.