La prima edizione del Film Festival interamente dedicato al rock, Road to ruins, accoglie tra i vari film ed eventi della sua programmazione un gioiello da troppo tempo dimenticato: Orfeo 9, prima Opera rock italiana mai realizzata.
Si tratta di un progetto a basso costo girato in 16mm, sperimentale, provocatorio, unico: ideato, scritto, musicato e diretto da Tito Schipa junior e arrangiato da musicisti del calibro di Bill Conti (futuro vincitore dell’Oscar per la colonna sonora di Rocky), Joel Van Droogenbroeck all’organo e Tullio De Piscopo alla batteria. Siamo negli anni ’70 e un progetto del genere viene accolto con stupore e accompagnato, come tutte le imprese atipiche e audaci che si rispettino, con altrettante polemiche e ingiuste censure.
Al centro dell’Opera è il mito di Orfeo – ampiamente affrontato in ogni epoca sia dal teatro che dalla letteratura – e che offre ancora oggi spunti e riflessioni di estrema modernità. L’arcaico protagonista è difatti un personaggio enigmatico, dalle mille implicazioni filosofiche, religiose e poetiche, un uomo che crede di poter sfidare l’inesorabilità del destino sottomettendo alla sua arte anche le forze occulte dell’aldilà. Egli diviene così un simbolo degli umani dubbi sul significato dell’amore e della morte, sul problema della coscienza e dei suoi limiti, fino a divenire egli stesso la personificazione vivente dell’Arte.
L’imponente lavoro di Schipa jr , che naturalmente si riconosce in Orfeo e ne veste i panni, è a dir poco ambizioso e al contempo attivo e vivace: a partire dalle liriche, ogni frase della singola canzone esprime un forte linguaggio poetico, segnando la continua evoluzione di pensiero dei protagonisti, interpretati da portentose voci di attori/cantanti scelti per il cast (tra i narratori, possiamo riconoscere anche una promettente Loredana Bertè). La drammaturgia del testo si amalgama perfettamente con il suono rock dell’intera composizione. Tutto questo rende Orfeo un personaggio dal piglio delicato e romantico, ma deciso, una sorta di anti-eroe sognatore che lotta contro se stesso e le utopie della vita, alla ricerca di qualcosa che ha il sapore dell’autentica felicità e del vero amore. La perduta Euridice, (forse mai veramente trovata) mostra il suo volto soave riflesso in uno specchio d’acqua, risvegliando il cuore del giovane uomo, ma l’incanto durerà ben poco: il mefistofelico, variopinto “spacciatore” di felicità (interpretato con estrema bravura da un esordiente Renato Zero) rapisce e fa scomparire la bella amata, tentando di corrompere Orfeo con gli strumenti del Male, quali l’arrendevolezza, la sfiducia interiore, il tormento spirituale e perfino la droga (inaspettato il primo piano di una grossa siringa…), attirandolo nell’inferno, qui raffigurato come una grigia e minacciosa metropoli. Il cammino è lungo e difficile. Dal rassicurante panorama della natura, che circonda la campagna dove aveva da sempre vissuto, alla fredda indifferenza della città estranea. La musica lo segue, così come anche l’Idea della sua donna che disperatamente insegue. Probabilmente lui e Euridice non s’incontreranno mai più. O meglio, non siriconosceranno. Fatale (e precaria) è l’esperienza del viaggio ai confini del mondo conosciuto e la conseguente discesa nel profondo degli inferi. Orfeo testimonia che non esiste soltanto un traguardo finale verso cui protendere, seppur animato da un acceso desiderio nel raggiungimento di esso, ma anche un percorso nelle costellazioni delle nostre emozioni, in cui ci perdiamo e ci ritroviamo. Continuamente, quasi in eterno.
La rappresentazione cinematografica non poteva risultare più moderna, rapportata all’epoca. Addirittura lo stile registico sembra quasi precursore, pur ispirandosi a una certa “psichedelia beat” proveniente in gran parte dall’Inghilterra e da noi giunta in consistente ritardo, delle allucinazioni di un giovane Alejandro Jodorowsky e delle idee di un Alan Parker che, nel 1982, immaginando il mondo di Pink Floyd The Wall, come Schipa aveva animato gli abitanti della città con sembianze inquietanti e movimenti burattineschi, simbolo di una società marcia e vuota che muove, crudele, i fili della sua corruzione.
L’unico richiamo al passato avviene durante una suggestiva scena notturna: mentre Orfeo osserva la luna, si ode l’eco della tenorile voce angelica di Tito Schipa senior cantare l’aria “Che farò senza Euridice?” dall’opera lirica del 1700 di Christoph Willibald Gluck.
Difficile spiegare a parole quello che andrebbe sperimentato personalmente attraverso la visione di questa avventura, con il fascino dei suoi colori e le sue note.
A noi non resta che il messaggio di guardare avanti, di continuare a camminare senza mai voltarsi indietro. Naturalmente adempiendo al sacrosanto dovere di riscoprire capolavori come questo.
Giovanna Ferrigno