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È reale? di Gianfranco Pannone

UCRAINE La guerra, il cinema e noi

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Un manifesto, è bastata la visione su facebook di un manifesto per riaccendere amori mai sopiti. Si tratta di Io ed Annie, la commedia che Woody Allen realizzò nel 1977, e che gli diede la notorietà definitiva. Lo vidi poco tempo dopo l’uscita in sala, avevo 16 anni, e ne rimasi folgorato. Le battute erano irresistibili, Diane Keaton m’innamorò, ma soprattutto fu il ritratto semiserio del mondo intellettuale newyorkese a entusiasmarmi, quel mondo che sembrava promettere, dopo gli anni amari del Vietnam, che la pace avrebbe travolto tutto e che tutti noi avremmo potuto creare liberamente, parlare del più del meno in amabili locali, innamorarci… senza che nessuno venisse più a disturbare. Ecco, quel film e quegli anni sembrano essere lontani anni luce ora che la guerra in Ucraina la sentiamo molto molto prossima.

Non che prima fosse tutto rose e fiori: i sommovimenti pre e post caduta del Muro di Berlino, e poi L’Afghanistan, l’ex Yugoslavia, l’Iraq 1 e 2, le Torri gemelle, la Somalia, la Siria, di nuovo l’Aghanistan… Però a noi occidentali più fortunati quelle guerre ci sembravano tutto sommato lontane, a parte qualche impeto idealistico, si è fatto finta di nulla. Ma questa volta non è più così. Perché il villaggio globale, piaccia o meno, è cosa fatta: Mariupol dista da noi come solo cento anni fa Ancona distava da Roma. D’un tratto è tutto più vicino e tremiamo come non accadeva da decenni.

Sì, questa guerra ci è molto prossima; forse perché la paura di saltare tutti in aria è quasi palpabile. Eppure, col prolungarsi dell’inaccettabile conflitto in Ucraina, che vede un Paese, la Russia di Putin, aggredire spudoratamente il proprio vicino, mi capita di tenermi fuori sempre più spesso e volentieri dalla quotidiana cronaca mediatica della guerra. Mi sento saturo e so di non essere il solo. E mi chiedo: tutta questa informazione, spesso distorta, pilotata se non addirittura omertosa, serve? Non metto in discussione il diritto all’informazione, sia chiaro, ma guardo con sospetto a tutto questo affastellarsi di notizie 24 H su 24. E provo pena per gli anziani, i nostri genitori, gli amati zii, il vicino di casa…, che la televisione la guardano più di noi cittadini ancora in corsa. Vedo mia madre, mio suocero, l’inquilino del piano di sopra sempre più impotenti e agitati, e negli ultimi tempi li ho anche pregati di accendere meno la tv. Faccio bene? Faccio male? Non lo so. Però capisco che l’eccesso di informazioni può agire su di noi i due modi opposti e infine speculari: nel primo caso creando uno stato di apprensione, di angoscia, da fine del mondo; nel secondo facendoci innalzare muri di cinica indifferenza. E va da sé che non vanno bene né l’una né l’altra risposta.

Dove voglio arrivare con questa mia libera dissertazione (ancora sta guerra!?) sull’informazione inflitta senza requie da tutte le tv a causa del terribile conflitto in Ucraina? I lunghi e grotteschi tavoli di Putin, i proclami “recitati” da Zelenski in collegamento con i parlamenti europei, le donne ucraine che piangono e urlano, i padri di famiglia russi e ucraini che tornano a vestire le tute mimetiche, magari sparando più o meno festosamente le loro pistole verso l’alto, i quartieri sventrati dalle bombe russe di tante città e villaggi ucraini…, ci rendono impotenti, facendoci o entrare nella certezza che la terza guerra mondiale sia molto vicina o “costringendoci” alla fuga, alla disperata ricerca di un Campari spritz in compagnia di amici possibilmente spiritosi (merce rara quest’oggi).

Siamo strani noi umani. Di fronte alla guerra ci accorgiamo di essere piccoli piccoli, ma pensiamo soprattutto a salvare noi stessi. Salvo farci belli, in un mix di commozione e indignazione, di fronte ai film (pur necessari) che ci raccontano la merda della guerra, da Uomini e no di Francesco Rosi a La macchina di morte dei khmer rossi di Rithy Panh, dal Dottor Stranamore dell’impareggiabile Kubrick a La sottile linea rossa del “marziano” Malick… I film ci aiutano a capire, e lungo più decenni hanno permesso ad almeno tre generazioni della fortunata middle class occidentale di sentire vicino quel che pretendiamo rimanga quanto più lontano possibile da noi: la guerra.

Qualche anno fa durante alcune riprese effettuate ad Eleusi, in Grecia – era una mattina assai tersa – mi ritrovai di fronte all’Isola di Salamina, antico teatro di guerra tra ateniesi e persiani, tramandataci limpidamente da Erodoto. Ebbene, quel luogo era tutto avvolto da un senso di pace ed io mi sforzavo di vedere le navi triremi, i combattenti-lancia in resta e il mare intriso di sangue, come penso fosse stato nella cruenta battaglia di 2500 anni fa. Le immagini mi arrivavano abbastanza chiare, sebbene fosse notevole il contrasto con il senso di pace che quella mattina restituiva l’azzurra isola di Salamina circondata da un placido mare. Mi sentivo coinvolto e lucido al tempo stesso, come se mi fossero finalmente chiare in quel preciso momento le miserie umane visibili e invisibili; e certo quella distanza mi aiutava. Ora che la guerra, come tanti, la sento vicina più del solito, cosa non darei per essere di nuovo lucido, razionale, finanche filosofico!

La guerra fa parte da sempre della complessa vicenda umana, mi dico freddamente, va accettata. Per poi commuovermi e capitolare di fronte alle belle parole di Papa Francesco sulla necessità della pace. Sono scisso, come un po’ tutti noi. E mi consolo pensando a un bellissimo film di Mario Martone del 1998, Teatro di guerra, che andrebbe riproposto soprattutto nelle scuole superiori. Una compagnia teatrale, seguita come in un documentario, deve portare I sette contro Tebe di Eschilo nella ex Yugoslavia in subbuglio e prova in un piccolo teatro dei Quartieri Spagnoli di Napoli, per rendersi conto che la guerra è tra noi, visibile, per esempio, in uno scontro armato tra camorristi proprio davanti al piccolo teatro; e che un legittimo bisogno di pace possa contenere in sé non poco egoismo, pretendendo tanti di noi che la guerra sia un affare sporco in appalto ad altri. Non è così, lo sappiamo bene, e questa consapevolezza, intrisa di amarezza e disgusto, ci rende infine più umani.

Andrei a girare un documentario in un teatro di guerra? In Ucraina, come in Siria o in Afghanistan? Non credo, e il perché è presto detto: oltre a non essere un cuor di leone, mi sembrerebbe di intrufolarmi in uno scenario di morte con il privilegio di esserne fuori, una condizione che ritengo moralmente discutibile, anche se sono convinto che qualcuno, tra i documentaristi, i reporter, i fotografi… debba pure incaricarsi di questo fardello. Tuttavia sentire vicina la guerra, qualunque guerra, come, appunto, ci accade oggi per l’Ucraina in fiamme, qualcosa che volente o nolente riguarda anche noi, credo sia un dovere. Insomma, non ammetto alcun cinismo e, consapevole della mia fortuna, almeno momentanea, porto anch’io la mia croce e mi metto in ascolto di chi la guerra, sangue-fango-merda, la vive da dentro.

Si chiama empatia, e l’uomo occidentale, salvo qualcuno, pare l’abbia messa da parte. Il cinema può, deve fare qualcosa? Sì. E non necessariamente sui campi di guerra. A dirla tutta, ben duemila giornalisti in Ucraina mi sembrano troppi. Si cominci piuttosto dai bambini, nelle scuole, ascoltandoli prima di tutto, con o senza la camera e il microfono; e facendo veder loro quei film che la guerra la mostrano da dentro per respingerla e ripudiarla senza se e senza ma.

Roma, 21 aprile 2022

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