Alla Casa Del Cinema di Roma, per il secondo appuntamento della rassegna “Percorsi di Cinema”, a cura dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (ANAC), si è svolta la proiezione de La Rieducazione, film prodotto dal Collettivo Amanda Flor di Guidona Montecelio (secondo comune del Lazio, situato a 20 km da Roma). Il film, primo lungometraggio del Collettivo, del 2006, è approdato alla Ventunesima Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia, suscitando molto interesse per il (micro)budget di 500 euro con il quale è stato realizzato. È stato vincitore, tra gli altri, anche del Festival del Cinema Internazionale dell’Uruguay come miglior film italiano e migliore opera prima.
Interamente girato in bianco e nero, con una semplice telecamera, il film sfrutta l’utilizzo di vecchie tecniche tipiche del linguaggio neo-realista e lo stile documentarista per raccontare più autenticamente il degrado morale dei protagonisti, che vivono un’esistenza precaria, farsesca, tentando di sbarcare il lunario giorno dopo giorno, attraverso mezzucci ed espedienti.
La storia ruota intorno a Marco, giovane di 28 anni, laureato e attivo nel volontariato e nell’ambito della parrocchia del suo quartiere, che viene letteralmente catapultato da suo padre in un cantiere edile, per essere iniziato al mondo del lavoro.
Da questo momento Marco si scontra con una realtà completamente diversa da quella alla quale era abituato: viene deriso dai compagni di lavoro, preso in giro dal “principale” Denis, e messo alla porta da suo padre, sempre più deciso ad impartirgli una lezione.
L’ingenuo Marco riesce gradatamente ad abituarsi alla sua nuova vita, imparando a destreggiarsi nell’intricato gruppo di lavoro: Denis, il “principale” è un tipo losco e poco trasparente; il “lecchino”, uno dei muratori del gruppo, sempre pronto a fare la spia e riferire al Principale chi arriva in ritardo e batte la fiacca sul lavoro, in cambio di piccoli favori personali, e varie regalie; Gennarino, che, per farsi pagare due mesi di arretrato, mette in scena una vera e propria drammatizzazione, servendosi del fratello per minacciare Denis; le “tre scarpe morte”, come li chiama il Principale, tre muratori con precedenti penali, che, nonostante il lavoro svolto, non sono stati ancora remunerati e decidono in qualche modo di rivalersi su Denis, che continua a posticipare i pagamenti, sostenendo di avere guai con le banche, grane con l’Ispettorato del lavoro e problemi familiari.
La trama, all’apparenza semplice e lineare, percorre infinite strade secondarie, scena dopo scena, alimentata dalle innumerevoli sfaccettature dei personaggi: il gruppo di lavoro al suo interno; Denis che dice a Marco e alle “tre scarpe morte” di non poterli pagare perché “col cappio al collo”, e poi di nuovo Denis che paga gli stipendi soltanto ad alcuni; Marco che inizialmente riconosce in Denis una nuova figura paterna, e subito dopo è pronto a fargli una vertenza sindacale; Marco e le “tre scarpe vecchie” che decidono di derubare il Principale per ripagarsi di quanto spetta loro; una delle “tre scarpe” è pronta a tenersi la merce rubata a Denis per poi rivenderla per conto proprio; Marco che alla fine manda a monte il piano, perché ha vinto il concorso al Ministero; Denis che, parlando con sua moglie, svela che il lavoro in realtà sta andando a gonfie vele, e che preferisce “spremere” ancora un po’ i suoi uomini, che se ricorreranno alla vertenza sindacale, non farà lavorare più in alcun cantiere. E la fitta trama di relazioni può estendersi all’infinito, anche dopo la conclusione del film, che termina con la scritta “FINE” (forse in omaggio al cinema di una volta).
Il filo conduttore di questo labirinto intricato è il messaggio che il film invia forte e chiaro, come spiega Daniele Guerrini, intervistato dal regista Emanuele Cerquiglini Cerman: è la denuncia del fatto che oggi si ragiona sempre di più a livello individuale; la mancanza del senso di appartenenza ha portato al deterioramento dei rapporti, fino a creare una società sempre più cinica. E, in effetti, nessuno dei personaggi si salva dal cinismo.
E se la Cultura serve ad educare, il mondo del lavoro provvede a rieducare: sono gli istinti bassi e il tornaconto personale a prevalere, anche per chi ha studiato e sceglie di usare il senso critico fornito dalla formazione accademica per adeguarsi, restare a galla e non essere emarginato.
La Rieducazione è un film di gruppo: come spiegano Daniele Guerrini e Alessandra Alfonsi, due dei membri fondatori del collettivo Amanda Flor – che nasce dalla passione comune per il grande schermo (i ragazzi del collettivo svolgono altri mestieri e professioni, e non hanno seguito corsi di studio correlati al cinema), e dal desiderio di raccontare la nostra società in continua evoluzione. La realizzazione del loro primo lungometraggio è stato un confrontarsi costante e continuo, di attori non professionisti, registi e sceneggiatori.
Questi ultimi hanno creato i personaggi senza incanalarli in ruoli rigidi, poiché il basso costo del film non avrebbe consentito scelte stilistiche a priori, cercando inizialmente di rendere i ruoli adatti alle facce che avevano a disposizione (Gennarino, uno dei personaggi, interpretato da un attore non professionista, ha ricevuto i complimenti degli addetti ai lavori per la sua espressività).
Sebbene il micro-budget del film sia servito da volano mediatico per puntare l’attenzione sul film, Guerrini ci tiene a sottolineare che La Rieducazione è un caso unico, reso possibile dalla compartecipazione dei membri del collettivo, e dalla disponibilità dei luoghi dove girare. Anche se non si vuole assolutamente fomentare il cinema “no-cost”, in quanto le professionalità che partecipano al ciclo produttivo di un film vanno rispettate e valorizzate attraverso dei congrui budget.
Dal punto di vista tecnico, il film è stato girato con una semplice telecamera. La fotografia è purtroppo carente e ha condizionato la sceneggiatura sin dall’inizio, ma ha concesso una maggiore elasticità durante le riprese. Dopo il montaggio “fatto in casa”, il film è stato proiettato a Montecelio, riempiendo una sala di 150 persone, andando oltre ogni aspettativa di gradimento del pubblico. Da qui la decisione di iscriverlo ad un primo festival, poi la proposta da parte del programma “La 25° ora” e, dopo ancora, il Festival di Venezia
Ciò che viene fuori è la storia di un lavoro di gruppo, una compenetrazione di esperienze individuali, desideri, passioni, voglia di raccontare e di fare, senza aspettare che qualcosa arrivi dall’alto. In un mondo, quello della cinematografia, sempre più individualista, La Rieducazione sembra essere un processo virtuoso molto importante, animato dalla ricerca di persone (e non dalla ricerca dei soldi) che potessero mettere insieme le proprie idee per una crescita e un arricchimento generale. E lo hanno fatto “alla vecchia maniera”, in omaggio alla grande tradizione del nostro neo-realismo e alla lezione pasoliniana: l’unica maniera possibile per raccontare la “paesaggistica sociale” dell’Italietta di oggi (e di sempre) e farla specchiare nei suoi vizi, il più grande di tutti, quello di cercare sempre e solo il proprio tornaconto a scapito di chi ci sta accanto.
La vita distributiva di questo film è stata piuttosto corta: dopo due anni dalla presentazione a Venezia, è stato proiettato in cinque sale del Lazio (una a Guidonia, una a Viterbo e tre a Roma, tra cui il Nuovo Cinema Aquila nel quartiere Pigneto), grazie all’intervento della Regione, e dell’Assessore Giulia Rodano. Il film non è riuscito ad attirare la giusta attenzione che avrebbe potuto avere se distribuito immediatamente dopo la partecipazione a Venezia. Ci auguriamo che i prossimi lungometraggi del Collettivo Amanda Flor (Ad Ogni Costo, uscito nel 2010 e presentato nella sezione “L’Altro Cinema Extra” al Festival di Roma) godano di maggiori iniziative per la distribuzione.
Anna Quaranta