‘The dog who wouldn’t be quiet’: la quieta resilienza come segreto per sconfiggere ogni dilemma
La calma e la capacità di adattamento sconfiggono ogni dilemma e aiutano a sopravvivere alla catastrofe. Dal Sundance Film Festival un piccolo grande film
Resistere al mondo che muta e costringere ad adattarsi.
La resilienza è l’arma che, più della immediata, istintiva reattività, si dimostra la più valida ricetta per sopravvivere alle difficoltà, a volte apparentemente insormontabili, che affliggono il vivere quotidiano sul pianeta.
Tutto ciò accade oggi, come in passato, così come probabilmente in un futuro in cui l’uomo dovrà adattarsi ad affrontare situazioni estreme o di forte emergenza.
In questi giorni su Mubi è disponibile un piccolo film argentino intimo e bizzarro intitolato The dog who wouldn’t be quiet’ (El perro que no calla in originale), della breve durata di poco più di un’ora, che tuttavia condensa dentro di sé una materia che, a sviscerarla nella sua completezza, non basterebbe un romanzo.
The dog who wouldn’t be quiet – la trama
In The dog who wouldn’t be quiet, ci imbattiamo in Sébastian, un trentenne mite che, con pazienza e senza affanni, sa adattarsi a un destino che lo vede sempre implicato in fatti o omissioni, da cui paiono derivare ogni responsabilità e relativa conseguenza.
L’uomo vive solo, con un cane gioioso e, tutto sommato, piuttosto quieto, in una località fuori dalla città. Lavora come grafico in una grande azienda nel centro cittadino, condividendo la sua mansione con un gruppo variegato di colleghi.
Le difficoltà iniziano quando i vicini di casa si lamentano con l’uomo perché il cane, in realtà di carattere mite e silenzioso, in assenza del padrone, ostenta un comportamento di tutt’altra natura. Il lamento continuo, il pianto irrefrenabile lungo tutta la giornata in cui l’animale è costretto ad aspettare a casa tutto solitario mentre il padrone è al lavoro, gettano nello sconforto i vicini che, straziati dai lamenti, cadono in depressione.
Fatto sta che Sébastian si trova costretto a portare con sé il cane sul luogo di lavoro. Ma nonostante l’animale sia pacifico e benvoluto, le maliziose colleghe del personale arrivano al punto di licenziarlo per non creare precedenti che potrebbero gettare scompiglio tra le abitudini del personale d’azienda.
Senza drammi, l’uomo si adatta a lavori saltuari, prima come badante a un malato terminale, poi come agricoltore e uomo di fatica.
Poi, in occasione del tardivo matrimonio della madre vedova, il giovane conosce una ragazza e se ne innamora.
Ma proprio in quel momento, mentre Sébastian è occupato a lavorare nei campi, succede qualcosa nel mondo che costringe l’intera umanità a cambiare radicalmente abitudini di vita: un disegno stilizzato ci racconta di una meteora che precipita al suolo ed avvelena l’aria sopra un’altezza di 120 centimetri.
La tragica circostanza costringe l’umanità a sopravvivere muovendosi in ginocchio o strisciando, o, in alternativa, camminando eretti ma muniti di uno scafandro che fornisca l’ossigeno che manca a quella quota.
La preoccupazione della sua compagna affinché il figlio non cresca succube di questo strano cataclisma, porta la coppia a dividersi.
Ma la resistenza e l’adattabilità della specie umana, e di Sébastian su tutti in particolare, indurrà poco per volta l’uomo, e via via l’intera umanità, ad adattarsi e a superare il momento critico, pronti a ricominciare una nuova esistenza, nuovamente in posizione eretta, sia fisicamente che nel morale.
The dog who wouldn’t be quiet – la recensione
É una piccola geniale sorpresa, The dog who wouldn’t be quiet, dell’attrice quarantaseienne argentina Ana Katz, che debutta dietro la macchina da presa con questa storia un po’ buffa, un po’ surreale, un po’ inquietante.
Una vicenda persino grottesca, attraverso cui l’artista cerca di dimostrare come l’adattabilità e una certa tendenza a lasciarsi cadere addosso le cose, aiutino a sopravvivere, più di qualsiasi altra eventuale azione o reazione, coraggiosa od eroica che si possa intraprendere a difesa del proprio status.
Il nostro Sébastian (interpretato dal bravo e cangiante Daniel Katz, fratello della regista) è tutto fuorché un eroe: un mite, innanzi tutto, con un’indole accomodante e l’innata capacità di ascoltare e sopportare senza farsi prendere dal panico o dall’ isteria.
In fondo, a pensarci bene, il film della Katz potrebbe rappresentare un’ efficace, scanzonata, ma sapientemente trattenuta metafora di un mondo che, proprio come in questi ultimi drammatici mesi, sta uscendo faticosamente da una pandemia mondiale senza precedenti, attraverso la quale, forse, l’umanità è riuscita a rendersi conto dell’importanza dei valori più genuini, del vivere di affetti e semplici gesti spontanei.
Quegli stessi atti naturali che troppo spesso lo stress quotidiano ci impediva, ora più che in passato, di valorizzare come invece meritano.
Il prezzo da pagare nel film è, non certo a caso, l’obbligo di restare chini e piegati in avanti, prostrati al pentimento. Obbligati a restare al di sotto della soglia limite, non a caso corrispondente al livello di altezza di un cane. Come per una bizzarra e grottesca regola del contrappasso.
E il film, piccolo e intimo nel suo bianco e nero mesto come l’indole del suo pacato protagonista, ma minuzioso come quei gesti dimenticati o per troppo tempo trascurati, si dimostra alla fine un piccolo oggetto prezioso, se non addirittura un pezzo raro e inconsueto, dal valore inaspettatamente notevole. 8/10
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