In streaming su MUBI Lamb è un film di Valdimar Johannsson.
La pellicola è stata presentata nella sezione Un Certain Regard del 74º Festival di Cannes.
La trama di Lamb
Una coppia, formata da María (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snaer Gudnason), vive in una remota fattoria immersa nella fredda natura islandese, dove accudisce il suo gregge e lavora la terra.
Un giorno i due rinvengono un neonato in un loro campo agricolo e non sanno come mai si trovi lì da solo. Non avendo figli, ma allettati dalla prospettiva di una vita familiare, Maria e Ingvar decidono di tenere il piccolo con loro. Non sanno che il momento di gioia è destinato a finire e li porterà alla completa distruzione…
La recensione
Chi scrive lo sostiene da un bel po’, e da tempi non sospetti: l’horror è il genere che meglio e più degli altri risulta adatto al cinema per raccontare il presente. Attenzione però, non l’horror in quanto spavento, bensì come declinazione di toni e di stile.
E Lamb è, prima di tutto, un’esperienza visiva sconvolgente, con una forza d’impatto scenico dirompente e uno stile che sa essere limpido e inquietante insieme, grazie all’utilizzo del perturbante freudiano in maniera sottile ed efficace.
L’opera prima di Valdimar Johannsson (che ha debuttato al festival Alice Nella Città e al Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per l’originalità assegnato dalla giuria di Un Certain Regard), sta allora qui a dimostrare la potenza dell’horror: unione metafisica tra racconto popolare e folk horror, la fiaba nerissima della coppia che adotta un ibrido mostruoso non fa paura eppure dell’horror frequenta e usa tutti i canoni.
Dai piani sequenza che preparano al jump scare -che non c’è- alla soggettiva, dal continuo riprendere i personaggi di spalle per nascondere a chi guarda il loro volto alla lenta costruzione di tensione -che non si scioglierà-, il film usa l’Islanda come geografia dell’anima per congelare emozioni e sentimenti, immergendo i suoi protagonisti in una Natura imperiosa ed impetuosa, quanto visibilmente ostile, quando non indifferente.
Johannsson è bravo a giocare con la macchina da presa e con chi guarda come il gatto col topo: fin dall’inizio promette un finale da tragedia, ma non concede nulla a quanto si pensa possa accadere dopo l’inaspettato.
Anzi, nel secondo capitolo (Lamb è diviso in tre, proprio come la tragedia greca) introduce un terzo protagonista che, come nella migliore letteratura, funge da avatar degli spettatori: attonito per quanto accade nella fattoria, ha lo stesso stupore misto e istintiva repulsione verso l’incredibile che si svolge davanti ai suoi occhi, e superando la sospensione dell’incredulità che contraddistingue il pensiero occidentale si lascia coinvolgere dal fluire delle emozioni -inespresse-.
Nonostante tutto questo, Lamb rimane però una storia famigliare che scorre sui binari della più quotidiana banalità, senza colpi di scena né svolte di trama, anzi utilizzando al minimo i dialoghi e affidandosi agli interpreti che diventano pedine immobili intorno al perno narrativo.
Ed ecco, se proprio si deve trovare un difetto al film è quello di girare e affidarsi fin troppo alla trovata che dà il via alla storia: un’idea avvincente ed enorme, che è però talmente colossale da rimanere ferma su sé stessa come un totem.
Tutto intorno, con la lentezza meditativa tipica del paesaggio e del cinema nordico, si snoda una storia che accanto alla sua cristallina linearità offre suggestioni e riflessioni talmente vaste da diventare alla fine elementari: dalla protagonista di nome Maria al richiamo dell’Agnello di Dio, tutto in Lamb è chiaramente una metafora per parlare di altro. Un altro che, nel migliore dei casi, diventa sfuggente: inclusione, diversità, accettazione, l’Uomo contro la Natura, sono territori etici e morali che non vengono esplorati ma solo lambiti, sfumati negli occhi della bravissima Noomi Rapace.
Quando poi lo scontro Uomo/Natura sembra diventare oggetto del racconto, il confine tra Uomo e Bestia implode e Lamb si attorciglia intorno alla fusione corporea mentre l’animalità entra a far parte della cifra esistenziale umana: è qui che i toni da folk horror si inaspriscono all’improvviso preludendo all’ineluttabile e al dolore, riempendo di altri significati il vuoto esperimento visivo che finora era sembrato il film.
Quello che resta dopo l’inaspettato finale è un mistero angoscioso e pervasivo, l’oscura sicurezza della paura senza ritorno.
Intervista con il regista.
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