Su Sky il film drammatico e toccante che ripropone per la quarta volta il sodalizio tra il "regista delle storie femminili", ovvero il colombiano Rodrigo Garcia, e la grande attrice Glenn Close
La dipendenza da stupefacenti distrugge vite, ma anche legami e famiglie, creando lacerazioni che difficilmente si possono rimarginare, oltre ai devastanti effetti fisici che le micidiali sostanze assunte finiscono per procurare a chi ha iniziato a farne uso, e non riesce più ad uscirne.
Il cinema e il dramma della droga hanno percorso spesso strade narrative incisive e di rilievo, dando vita a titoli ed opere fondamentali.
Il dramma di Rodrigo Garcia intitolato Quattro buone giornate non traccia nuovi e rivoluzionari sentieri, ma racconta con solido mestiere una tragedia che si apre verso una possibile via d’uscita.
Quattro buone giornate – La trama
Il giorno in cui alla porta della matura estetista e massaggiatrice Deb si presenta, in condizioni devastate, la figlia trentenne Molly, per la donna significa solo il ripetersi di un incubo che da oltre dieci anni l’assilla e l’ha portata alla soglia dell’esaurimento.
Comprendiamo subito che Molly è una tossicodipendente recidiva, e incapace di trovare quella forza interiore che la spinga a smettere definitivamente, incoraggiandola a ricominciare a vivere, dopo aver perso opportunità di vita, di lavoro e di famiglia.
Comprendiamo altresì come la tossicodipendenza, che l’ha ridotta ad una sbiadita maschera di se stessa, abbia avuto origine da un antidolorifico somministratole da un ortopedico superficiale, a causa di una frattura occorsa quando la ragazza frequentava ancora, con estremo profitto, le scuole superiori, poi abbandonate.
“-Mamma, da quando credi in Dio?
-Da quando non crederci non funziona…”
Nonostante la risolutezza di Deb a lasciar fuori di casa una figlia che l’ha già derubata più volte, umiliata e delusa, oltre che distrutta fisicamente e psicologicamente, alla fine la donna cede alle suppliche della figlia. E quando l’accompagna in un centro di disintossicazione e un dottore le avvisa che esiste una cura che, tramite una iniezione da somministrare a fisico “pulito”, riesce a liberare il soggetto dalla dipendenza con un effetto lungo oltre un mese, ecco che le due donne ritrovano un’intesa per superare quei fatidici quattro giorni, che permetteranno alla tossicodipendente di effettuare quella importante e rivoluzionaria cura.
Saranno quattro, ma in realtà anche più di quattro giorni, di autentica passione, di sofferenza, e di un serrato confronto tra due donne estremamente legate l’una all’altra, ma divise da una sciagura devastante come è la dipendenza da stupefacenti.
Quattro buone giornate – la recensione
Da un articolo del Washington Post di Eli Saslow, a sua volta ispirato alla vera e drammatica storia di Amanda Wendler e Libby Alexander, Quattro buone giornate, prodotto da Jon Avnet, ricongiunge per la quarta volta il regista colombiano Rodrigo Garcia alla grande diva Glenn Close, dopo alcuni film corali come l’intenso Le cose che so di lei, il drammatico 9 vite di donna, il trasformista AlbertNobbs.
Specializzato in storie con al centro figure forti di donne combattive e temerarie anche nella quotidianità del loro agire, Garcia dirige con professionalità un film che non brilla per qualità tecniche, ma si fa forza anche stavolta sulla verve e sull’energia della bravissima Close, impegnata a cesellare un’altra straordinaria figura di donna tenace, ma anche estremamente umana e sensibile.
L’affianca, con una lodevole prestazione che convince sia per trasformismo, sia per tenuta drammatica, una ispirata Mila Kunis, protesa con successo a rendere credibile un personaggio che, lasciato un po’ troppo in balia di se stesso, avrebbe probabilmente rischiato di scivolare nel ricattatorio, se non proprio nel caricaturale.
Per quanto caratterizzato da una struttura formale piuttosto convenzionale, non dissimile da prodotti mediamente televisivi un po’ usa e getta, Quattro buone giornate ha il merito di essere sorretto da una sceneggiatura robusta e schietta, che evita facili ricatti melodrammatici, attenendosi a un realismo che riesce a focalizzare piuttosto verosimilmente l’incubo di una dipendenza che genera derive esistenziali difficilmente risolvibili. 6/10