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Conversation

‘È stata la mano di Dio’ conversazione con Daria D’Antonio

A Daria D’Antonio abbiamo chiesto di portarci dentro l’universo di È stata la mano di Dio

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daria d'Antonio

La vigilia della notte degli Oscar  è l’occasione per ritornare a guardare È stata la mano di Dio. Noi l’abbiamo fatto assieme alla direttrice della fotografia, Daria D’Antonio alla quale abbiamo chiesto di portarci dentro l’universo del film.

È stata la mano di Dio è disponibile su Netflix.

Daria D’Antonio per È stata la mano di Dio

Volevo partire dalla sequenza iniziale, quella che si apre sulla costiera napoletana e che poi prosegue con l’incontro tra Patrizia e San Gennaro. All’inizio la panoramica sulla marina sembra interessata alla macchina d’epoca che sta percorrendo la statale. Poi, improvvisamente, se ne dimentica, tornando a guardare il mare e il suo orizzonte. Si tratta di un movimento di macchina semplice e allo stesso tempo misterioso perché foriero di una doppia attesa. Non solo quella inconsapevole di Patrizia, che di lì a poco incontrerà il Santo, ma di un’altra, auspicata da un’intera città e cioè di Maradona. Si tratta di scene fondanti perché definiscono la dimensione esistenziale, ma anche il tono e lo scenario in cui si muoveranno i personaggi. Sempre all’insegna di sacro e profano, di realtà e fantasia, come sempre succede nel cinema di Paolo Sorrentino.   

Secondo me nella sequenza iniziale esiste una prospettiva un po’ ribaltata della città: di solito si è abituati a rivolgersi al mare guardandolo dalla terraferma mentre qui il punto di vista è rovesciato. Il fatto di osservare la città dal mare produce uno straniamento per il quale  fatichiamo a capire dove siamo, in quale epoca storica ci troviamo. Tutta la prima parte è un po’ surreale.

Anche nella sequenza successiva la realtà rimanda a una condizione esistenziale. In particolare a quella di Patrizia, la cui attesa dell’autobus è allusiva di un’aspettativa più grande e prossima a rivelarsi.

Sì, lei aspetta l’autobus in questa piazza che appare assurda, ma che in quegli anni, essendo aperta al traffico, era caotica perché violentata dal traffico cittadino e in particolare dalle automobili “parcheggiate” nella piazza più grande della città. Patrizia aspetta e poi si ritrova in quel palazzo bello ma decadente, un po’ come lo è la città.

Richiami e riferimenti

Quando Patrizia e San Gennaro entrano in una delle stanze vediamo un lampadario caduto a terra, la cui forma, complice anche l’inclinazione da un lato, ricorda Venusia, la scultura creata per il film Il Casanova di Federico Fellini. È stata la mano di Dio è piena di riferimenti al cinema.

Sì, quelli secondo me sono simboli che si è portati a vedere, ma non so quanta intenzione ci fosse da parte di Paolo, ma anche da parte nostra, di sottolineare questi aspetti. Alla scultura di cui parli non avevo pensato, era un cosa che esisteva già in sceneggiatura. Molti simboli e allusioni presenti nel cinema del regista penso siano il frutto di un’assimilazione cinematografica destinata a venire fuori in maniera non consapevole. È qualcosa che gli è rimasto dentro e che poi esce fuori nelle sue espressioni più fantasiose.

Nella prima sequenza c’è un raggio di luce giallognolo che illumina una piccola porzione della costiera. In quella successiva, di ambientazione notturna e metropolitana, è una piccola luce gialla a illuminare prima Patrizia e poi una parte della piazza. In seguito, nel momento in cui lei sale nella macchina, quest’ultima si avvia sulla strada avendo di fronte un edificio monumentale in cui a risaltare nel buio sono tante piccoli fonti di luci bianche che rimandano al colore del vestito di Patrizia.   

Sono tutte cose che mi fai notare, ma di cui non c’è stato questo pensiero così puntuale. Sicuramente la scelta del vestito è legata al fatto che volevano fosse un personaggio molto evidente, capace di diversificarsi  da tutti gli altri. Se ci fai caso nella pensilina lei è veramente bellissima: in mezzo a un mondo di normalità quasi mostruosa lei si staglia con il suo corpo statuario e la sua stranezza. Da subito c’è il racconto di questa donna diversa dagli altri per la sua bellezza, ma anche per la capacità di reimmaginare la realtà.

La figura di Patrizia secondo Daria D’Antonio

La corrispondenza tra i colori del paesaggio e quelli di Patrizia è come se ne facessero l’incarnazione del carattere della città. Ripresa con un’angolatura volta a esaltarne la prosperità fisica e coinvolta in una situazione a dir poco surreale, Patrizia riproduce la generosa bellezza della città, ma anche la sua doppia realtà.    

Sì, come hai detto anche tu, la prima parte è una sorta di introduzione al film e come tale è fatta di verità, ma anche di invenzione, di un’oggettività che appare in una maniera e che poi è in un’altra. In quei primi cinque minuti c’è tantissimo anche dell’amore che sia io che Paolo abbiamo nei confronti di Napoli, una città incredibilmente ricca di vita, e di umori, ma così stratificata da essere molto difficile da raccontare e da fotografare; perché a parte quella bellezza non basterebbe un film o il tempo di una vita per cercare di capire quel posto. Da parte nostra non c’era la pretesa di raccontarla in modo sociologico o antropologico, ma di farlo attraverso i legami di una famiglia molto simile a quelle medio borghesi in cui anche io sono cresciuta. Non mancano credenze popolari come quella di San Gennaro e tutte le superstizioni che sono parte integrante e che hanno un peso nella vita delle persone. Viene da sé che i primi cinque minuti sono lo specchio di quello che si vedrà in seguito: servono per abbandonarsi al racconto, al vero e al falso, con l’elemento di stranezza rappresentato da quella macchina antica inserita in un contesto d’epoca che tale non è, perché dal mio punto di vista non c’è la volontà di essere filologici come lo si è stati in termini di scenografie e costumi. Da una parte c’è stata la voglia di raccontare quegli anni, dall’altra, quella di essere liberi di pensare che la storia possa essere ambientata in qualsiasi momento.

Fin dalle prime immagini Patrizia appare fisicamente vitale, ma allo stesso tempo portatrice di un vuoto rappresentato dalla mancata gravidanza. In lei vita e morte risuonano contemporaneamente e sono opposti che mi sembrano sempre presenti nella tua direzione fotografica. 

Da parte nostra c’è stata l’intenzione di avere un approccio molto affettuoso, una specie di carezza che però non nascondeva il dolore. Non volevamo essere rassicuranti, ma realistici, seppur con una valenza straniante derivata dal fatto di non sapere esattamente come stanno le cose, perché, come dice la baronessa, non si sa mai quello che succede nelle case degli altri, come pure cosa passa nella mente delle persone. Per questo c’è stato un grande amore nei confronti dei personaggi.

L’epilogo della vicenda di Patrizia

Ancora, in questa prima parte, a spiccare è l’epilogo della vicenda, quando Patrizia, tornata a casa, si chiude dentro la camera da letto per evitare le rimostranze del marito. L’ambiente in cui la riprendi è di un bianco abbacinante che esalta la profondità di campo. Anche qui abbiamo una realtà allo stesso tempo fisica e metafisica.

Anche in questo caso gli elementi di cui parli erano già presenti in sceneggiatura. Paolo voleva che tutto fosse bianco e abbastanza abbacinante in ricordo di alcune case da lui frequentate in cui c’erano sempre queste luci accese. Una ostentazione di ricchezza che negli anni Ottanta/Novanta non si mancava mai di ribadire. Almeno, così ho interpretato il pensiero del regista.

Mentre il marito le dice di essere una poco di buono, mettendone in dubbio la moralità, noi vediamo Patrizia vestita di bianco e immersa in un ambiente dello stesso colore, dunque associata a un’idea di purezza che sembra smentire le accuse del coniuge.

Sì, lei è purissima: è come se fosse completamente avulsa dal mondo che la circonda. Peraltro, parliamo di un ambiente opposto alla casa della famiglia Schisa che è anch’essa una casa medio borghese ma più normale, senza le stranezze e i vezzi  di quella di Patrizia.

La luce

Se nella stanza di Patrizia è la presenza di una lampada bianca a fare da principio ordinatore rispetto al colore dominante, la stessa cosa succede per il lampadario della casa di Fabietto. Anche qui c’è la corrispondenza tra la fonte di luce e il vestito del personaggio femminile, ovvero della madre del protagonista interpretata da Teresa Saponangelo. 

Paolo ci aveva dato un’indicazione sull’utilizzo di colori tenui perché voleva che ci fosse un’atmosfera sommessa, e soprattutto a me non piaceva l’idea di esasperarli come capitava in quegli anni. Per questo insieme a Carmine Guarino e Mariano Tufano ci siamo tenuti su tonalità di questo tipo, lavorando in armonia cromatica. Dunque, quando ritrovi delle cose che sono ricorrenti c’è dietro il pensiero di proporre una serie di colori: il giallo è molto ricorrente perché è una tonalità abbastanza tipica di quegli anni; lo si trovava quasi ovunque, nelle case e nei palazzi. E poi c’è anche un colore molto usato denominato giallo napoletano.

Il film ha una luce complessa da realizzare perché molto in penombra, con molte scene girate di notte. In quelle diurne il sole ha dei riflessi tenui, complice l’utilizzo di toni desaturati. Solo nell’ultima, quella in cui Fabietto vede il monaciello dal finestrino del treno, i suoi raggi sono pieni.     

Tenui perché l’idea della città del sole e del mare satura di colori, in realtà, non mi interessava; e comunque il sole arriva da quell’alba in cui Fabietto esce dal suo dolore e dalla sua insicurezza, come è normale che sia a quell’età. Con il lutto comincia a mettere a fuoco le cose. Il cambio di luce corrisponde al fatto che, da quel momento, il ragazzo riesce a vedere meglio, a riconoscere come stanno veramente i fatti.

Le scelte di Daria D’Antonio

Queste scelte fotografiche mi sembrano coerenti con il carattere della storia, nel senso che innanzitutto sono ricordi del regista in cui si mischiano momenti di felicità, ma anche di dolore. Mi sembra che questi due elementi vengano temperati dalle tue risoluzioni cromatiche.

Per carattere e formazione non sono una persona che teorizza troppo. Sono, però, molto istintiva e rispettosa della storia che racconto: con Paolo ho un rapporto ventennale fatto di amicizia e conoscenza profonda, dunque per me è stato importante mettermi in ascolto nel totale rispetto di una storia che aveva un carico emotivo forte, ambientata nella mia città e in un’età per me fondamentale, quella in cui la passione per il cinema ha dato una svolta alla mia vita. Questo per dire che c’erano tanti elementi emotivi e sentimentali ai quali mi sono piegata, nel senso bello della parola, cercando di assecondarli con dolcezza e attenzione.

La tua fotografia segue a livello epidermico la storia e lo fa senza essere mai invadente.

Ho cercato di essere abbastanza mimetica e solidale, evitando di cavalcare a tutti i costi la bellezza tout court a favore di soluzioni più significative. Anche nell’illuminare gli interni della casa a me interessava assecondare di più questo sentimento di vicinanza e di calore piuttosto che una bellezza spettacolare, quindi ho fatto un lavoro di sottrazione.

Daria D’Antonio e il suo sguardo

Di È stata la mano di Dio si è parlato come di una nuova fase artistica di Paolo Sorrentino caratterizzata da una forma cinematografica più sobria. Mi sembra di poter dire che, rispetto al tuo lavoro, questa novità non è stata la conseguenza di una premessa teorica, ma il processo con cui il tuo sguardo ha aderito alla storia.

Ho aderito a una storia che comunque richiedeva una semplicità, intesa nel senso più bello e puro del termine, capace di far crescere soprattutto i sentimenti e l’amore tra le persone. Dal punto di vista delle scelte illuministiche era la cosa migliore da fare. Poi c’è stata una regia diversa dal solito anche rispetto ai movimenti di macchina. Negli altri film Paolo cercava una verità che quei movimenti contribuivano a scoprire, o quanto meno ad avvicinare. Qui invece esisteva già e c’era solo bisogno di approcciarla.

Avvicinarla con più dolcezza.

Non serviva uno sguardo indagatorio, ma trasfigurante. 

Anche qui, ogni tanto, sono presenti le sue famose carrellate in avanti, ma è come se avessero meno energia, come se il loro scopo fosse diverso.

Sono poche e assecondano l’azione e il sentimento.

Sono meno violenti, meno energici, più sentimentali.

Sono a completare: sostengono e accompagnano, non sono a rompere un’atmosfera o a enfatizzarla in senso contrario a ciò che si racconta. Almeno, questa è l’idea che io mi sono fatta.

In realtà stiamo parlando di una creazione artistica che, soprattutto quando si parla di direzione fotografica, non è semplice da argomentare. Non è facile razionalizzare i sentimenti anche solo per discuterne nel corso di una conversazione come questa. 

Io quello non riesco a farlo perché sono molto istintiva. A me piace farmi guidare da quello che sento rispetto all’umore del regista, perché alla fine il nostro compito è quello di metterci al servizio di un pensiero e di una storia che ha fatto un altro. Su questo tendo a essere meno protagonista, agendo in maniera spontanea e tenendo conto delle mediazioni dovute ai tempi di lavorazione e agli imprevisti che possono capitare. Io lavoro spesso con la luce naturale che comunque pone dei vincoli anche in termini di tempo. Come sempre il risultato è sempre frutto di una serie di varianti, alcune delle quali imponderabili. 

Le sequenze del pranzo di famiglia

Tra le sequenze più belle ci sono quelle in esterno, relative al pranzo di famiglia.

Sono stupende, anche io le amo molto.

Rispetto alle altre si distinguono per una plasticità e una composizione pittorica più evidente. I personaggi sono collocati al centro di una scena classica, dominata dalla simmetria delle linee prodotte dagli elementi all’interno dell’inquadratura. Mi riferisco, per esempio, al campo lungo in cui vediamo l’intera tavolata con gli ospiti equamente suddivisi nella spazio scenico. In particolare Fabietto e Patrizia si trovano ognuno alle estremità opposte del tavolo, divisi dal resto degli invitati, ma uniti dalla simmetria prodotta dal fatto di essere entrambi all’interno di una porzione di spazio creata dalla giustapposizione degli alberi. Un particolare invisibile che, però, ti permette di sottolineare l’empatia esistente tra i due personaggi.

Si tratta di un posto molto bello in cui girare. Dal punto di vista tecnico è stata una delle scene più complicate per la presenza di tanti attori e di ben tre macchine da presa. Paolo l’ha approcciata quasi come una scena d’azione. Io avevo fatto un mio piano inquadrature rispetto alla luce, i fondi e le pose, però poi ho dovuto adeguarmi alla libertà di movimento degli attori voluta dal regista. Nei nostri discorsi Paolo mi ha portato a pensare che quella potesse essere una domenica come tutte quelle della nostra vita, per cui a un certo punto mi sono proprio alleggerita dalla paranoia di rispettare il programma che mi ero fatta. Ciononostante, non è stato facile raggiungere l’obiettivo per la difficoltà di catturare la luce naturale e renderla disponibile per le mdp che nel frattempo giravano contemporaneamente. Sulla composizione delle scene, con Paolo siamo abbastanza affiatati: lavorando insieme da molti anni, capiamo subito dove mettere le mdp e come fare le  inquadrature.

Il modo in cui la corrispondenza tra Patrizia e Fabietto viene fatta emergere, e cioè senza spezzare la continuità dell’azione, rende quella scena di una bellezza clamorosa.

Quella scena è stupenda e direi anche artistica. Anche per quello che succede dopo il pranzo in cui li vediamo insieme, immersi in una sorta di dilatazione temporale. In quel momento si produce una forte carica vitale: per approcciarla non ci voleva altro che la vita ed è stato bellissimo perché mi sono venute in mente tutte le domeniche della mia adolescenza, con i parenti e i pranzi. Nel complesso è una delle scene più belle del film.

Altre scene importanti e significative

All’interno di essa c’è anche quella in cui Teresa Saponangelo si esibisce nel gioco circense, facendo roteare nell’aria le arance. Parliamo di una delle sequenze più iconiche, espressione di una bellezza rinascimentale e, come dicevi tu, della vitalità di cui il personaggio della Saponangelo ci rende partecipi.

Sono d’accordo con te per cui non aggiungo altro.

Una scena altrettanto importante è quella della morte dei genitori di Fabietto. Si tratta di un momento che segna la vita del protagonista, ma anche quella del film. La sua eccezionalità trova corrispondenza anche nel modo in cui l’avete girata, che mi sembra diverso dalle altre. È una scena quasi ferma, caratterizzata da campi, controcampi e sfocature che mettono in scena una sorta di rispettosa distanza rispetto a quanto sta accadendo. 

Quella scena è speciale per come lui è riuscito a raccontare l’evento. C’è una sorta distacco: la mdp si allontana, prendendola inizialmente alla larga, per poi avvicinarsi un po’ di più, ma sempre con un pudore e una delicatezza incredibili.

È come se rimanesse in disparte.

Sì, c’è uno sguardo amorevole. Ciò di cui mi chiedi è ovviamente una questione di regia, anche perché quella è una scena talmente intima e personale da lasciarci lo sguardo di chi l’ha concepita. Chissà quante volte forse l’ha ripensata per riuscire a realizzarla con quel distacco incredibile, ma anche con quella partecipazione.

Un film femminile

Non so se è una coincidenza, ma per me È stata la mano di Dio è il film più femminile di Sorrentino perché il modo di mettere a nudo sentimenti ed emozioni così intimi e personali appartiene comunque a questa sfera emotiva. Non solo, perché È stata la mano di Dio è un’opera pieno di volti e corpi femminili, a cui Sorrentino dà più spazio rispetto ai precedenti lavori. In questo senso penso non sia una coincidenza il fatto che tu abbia partecipato al film dopo la lunga collaborazione del regista con Luca Bigazzi.

Non lo so, questo bisognerebbe chiederlo a lui. Io penso che Paolo abbia pensato a me, più che per il fatto di essere donna, per l’affetto che ci lega e per la vicinanza anche culturale del nostro vissuto. Veniamo dalla stessa città, abbiamo un’estrazione sociale e un percorso molto simile. Questo fa sì che tra di noi non ci sia bisogno di parlare molto per capire cosa vogliamo uno dall’altro. Sicuramente mi sono divertita e mi è piaciuto approcciare questi caratteri femminili così interessanti, forti, belli e sfaccettati come lo sono la mamma e la zia di Fabietto come pure la baronessa, e anche la stessa sorella, la cui assenza secondo me deriva dal fatto che a quell’età una ragazza più grande è, per un adolescente come Fabietto, un vero mistero, una specie di extraterrestre. Mi ha fatto enormemente piacere poter raccontare questo universo femminile, ma allo stesso modo mi sono sentita per quello maschile. 

Il parterre femminile era così numeroso e variegato che sembrava di essere in un film come Inglorious Bastards, in cui ogni personaggio rappresenta un mondo a parte, da esplorare con altrettanti film. In più, qui la ricchezza di sfumature, ma anche la capacità di raccontare attraverso espressioni e fisionomie erano degne del migliore Almodovar. Non se so anche tu hai avuto la stessa sensazione.

Mentre lo facevo no, ma poi questa cosa l’ho letta e mi è stata detta da altre persone. Più semplicemente, a me sembra che in questa storia lui avesse dei personaggi che sapeva raccontare e mettere più a fuoco rispetto ad altre occasioni: per questo ci sono tante donne. Lui ha sempre raccontato l’universo maschile perché in quel momento le storie parlavano per lo più di uomini.

Gli altri personaggi

In generale, guardare È stata la mano di Dio serve anche a farci capire chi erano i personaggi maschili protagonisti dei suoi primi film. Mi sembra di poter dire che dietro ognuno di loro ci sia il racconto della figura paterna mentre qui è quella materna a essere al centro della scena. 

Assolutamente sì. La scena in cui la madre sta partendo per la montagna e a un certo punto torna indietro e dà quel bacio al figlio, per me è la summa di quello che hai detto. La perdita della madre è un evento enorme per un ragazzo così giovane, e forse è per questo che, prima di È stata la mano di Dio, l’universo femminile è stato esplorato meno. Per me è molto significativa la sorella che sta sempre chiusa in bagno: mi sono fatta l’idea che succede proprio per la difficoltà di raccontare il mistero femminile o comunque quello che è diverso da te.

Si parla spesso dei movimenti di macchina di Sorrentino e anche delle sue invenzioni visive. È stata la mano di Dio ne conferma soprattutto la capacità di esplorare i volti, facendone dei ritratti indimenticabili.

Sì, certo. La figura umana ha una rilevanza importante in questo film ed è quasi sempre in primo piano. Nella storia c’è un’attenzione all’umore e alla storia intima del personaggio per cui è inevitabile vederli bene in faccia. Non ci sono dei classici primi piani perché dietro di loro c’è sempre lo sfondo. Il rilievo nei confronti del soggetto è accompagnato con tutto quello che si porta dentro.

I primi piani

Sono primi piani a cui l’ambiente circostante aggiunge un surplus di significati.

Tra le poche cose che ci siamo detti c’era quella di realizzare primi piani significativi, dotati di valore espressivo, ma anche cinematico. Anche in questo il rischio di abusarne è stato evitato lasciando che fosse l’emozione e la storia a suggerirci quando era il caso di ricorrervi. Per realizzarli abbiamo usato lenti molto larghe.

Lenti che ti sono stati utili per le scene in cui a essere enfatizzata è la profondità di campo. Quella utilizzata per descrivere la camera da letto di Patrizia o il campo di calcio della scuola in cui studia Fabietto.

Sì, quel formato mi ha offerto una maggiore ricchezza di dettagli oltre a restituirmi una nitidezza per cui la figura in primo piano rimane separata dal resto senza perdere i dettagli di ciò che lo circonda.

La scena della grotta secondo Daria D’Antonio

Nella scena all’interno della grotta, quella in cui Fabietto parla con Antonio Capuano, il cinema non è solo al centro della costruzione dialogica, ma riguarda anche lo spazio scenico. Quella spelonca ricorda il mito della caverna di Platone, il che mi pare molto appropriato all’immagine del cinema che proietta sullo schermo ombre di realtà. Nel modo in cui l’avete girata esisteva questa opzione?

A dirti la verità non lo so. Paolo voleva un posto che avesse un’apertura sul mare. Facendo i sopralluoghi quello spazio ci è sembrato così bello e allo stesso tempo così assurdo che la scelta è stata facile, pur essendo un luogo abbastanza difficile da gestire in termini fotografici. Per tornare alla tua domanda, ti dico che il riferimento ci può stare, ma si tratta di una cosa inconscia. Sapevamo che quel posto aveva l’atmosfera giusta. Da parte mia non ho fatto altro che assecondare la natura di quello spazio, anche in previsione che il suo aprirsi sul mare corrispondeva bene all’ultimo passaggio, quello che per Fabietto precede la rivelazione del mondo. Anche lì ho lavorato di sottrazione perché quello era uno spazio talmente bello che ogni aggiunta rischiava di rovinarlo. Io ragiono sempre così quando mi relaziono a un determinato luogo.

Questa sequenza è indicativa della poesia presente nella tua direzione fotografica. Penso al buio della notte che sfocia nell’azzurro del mare, con Fabietto che, per come lo riprendi, sembra quasi camminarvi sopra.

Grazie, mi fa piacere apprendere che questo si riesca a sentire.

Daria D’Antonio oltre È stata la mano di Dio

Per concludere volevo chiederti quali sono i film che hanno ispirato la tua formazione e quali i direttori della fotografia a cui guardi nel tuo lavoro?   

Ce ne sono tanti. Io sono abbastanza onnivora e non sono neanche troppo nozionistica, nel senso che approfondisco quello che mi piace senza distinzioni di sorta. Di solito prediligo chi fa cose diverse da me perché nel mio mestiere serve molto confrontarsi con chi racconta in maniera diversa da te. Dunque mi piacciono molto Roger Deakins e Robert Elswit. Tra i vecchi Michel Chapman. Mi piacciono Emmanuel Lubezki come pure Vittorio Storaro e Giuseppe Rotunno.

Ti sei ispirata a qualcuno di loro?

Consapevolmente no, ma mi piacerebbe essere brava come alcuni di questi signori.

Parliamo dei registi e dei loro film.

Adesso tra i miei registi preferiti c’è Paul Thomas Anderson.

Quindi anche tu sei una di quelle che sta aspettando l’uscita di Licorice Pizza?

Sì. Lui mi fa impazzire, è il mio regista preferito! Ha istinto e talento e ogni cosa che fa è diversa dall’altra. Lo trovo pazzesco e mai banale: ha un senso estetico meraviglioso e fuori dal comune proprio perché non è mai stucchevole o lezioso. Amo Il filo nascosto dove ha fatto pure la fotografia. Per me è un capolavoro assoluto. Un altro regista pazzesco è Terrence Malick: gli sono riconoscente per i film che ha fatto. Per me il suo è cinema.

La recensione del film

E' stata la mano di Dio

  • Anno: 2021
  • Durata: 130
  • Distribuzione: Netflix
  • Genere: drammatico, biografico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Paolo Sorrentino
  • Data di uscita: 24-November-2021

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