“Come mai questo nuovo film documentario? C’è qualche ricorrenza in arrivo?” Così un mio amico che lavora per la tv prima che girassi Onde radicali, la mia ultima fatica dedicata a quella realtà unica al mondo che è Radio radicale. No, la radio ha già superato i quarant’anni e del defunto Marco Pannella, l’uomo che l’ha creata, non mi risultano scadenze, almeno nell’immediato, gli ho risposto. La sensazione che ne ho tratto? Che al mio amico è sembrato meno interessante la possibilità di acquistare e mandare in onda il mio film documentario.
Nei festival e sui palinsesti televisivi è tutto un proliferare di ricorrenze: nascite, morti, anniversari d’ogni natura, ventennali, venticinquennali, trentennali, cinquantenari, centenari, bicentenari… E sono i documentari a fare la parte del leone.
Perché? Mi chiedo. Solo innocenti ricorrenze? Secondo me c’è altro.
I vivi e i morti. Fateci caso, ultimamente sembra che l’umanità non abbia mai contato tante scomparse come di questi tempi. Specie quelle illustri. Basta fare un viaggetto sui social per rendersene conto. E, immancabile, di fronte all’ennesimo grande attore o grande regista o grande musicista che ha tirato le cuoia, c’è sempre qualcuno che scrive (confesso, l’ho fatto anch’io): “Ma se ne stanno andando proprio tutti!”. Sembra quasi una gara a chi scova prima il defunto, che sia di rango o anche sconosciuto. Beninteso, non ho particolari fobie verso l’”altro mondo” e della morte ho un gran rispetto, collocandomi, per così dire, filosoficamente, tra I sepolcri del mai dimenticato Foscolo e La camera verde del grande Truffaut mutuata da L’altare dei morti di Henry James. Insomma, non ne faccio una questione di scaramanzia. Anzi, ricordare i morti è giusto e anche bello. Ma certe volte a me pare che ci sia un gusto quasi macabro nel ricordarli ripetutamente a catena, qualcosa che vedo a metà strada tra una in fondo cupa nostalgia del tempo passato e un malcelato nascondere il senso della fine che circonda i nostri giorni. Vale per le celebrazioni come per le ricorrenze. Che corrono anche un rischio, la santificazione del caro estinto di cui si ricorda una data importante. E’ quello che è accaduto in questi giorni con il centenario della nascita di Pierpaolo Pasolini. Ne parlano e ne scrivono tutti (certo in un ambiente limitato sul piano numerico, i più se ne infischiano). Leggiamo articoli su articoli dedicati a PPP, e a notte le tv ritrasmettono, dopo anni di oblio, pure i suoi film. Ripeto, è giusto ed è bello ricordare, ma, mi chiedo, cosa nasconde questo insistere sulle ricorrenze? Perché questa ossessione? Forse guardiamo al passato perché non sappiamo più vedere davanti a noi? La mancanza di una prospettiva concreta delle cose, con tutto questo insistere che siamo già dentro la terza guerra mondiale, l’assenza di una fiducia, sia laica che religiosa, verso il destino, ci inducono a guardare indietro come fece Orfeo?
Orfeo, appunto, e il suo rivolgersi a Euridice, malgrado il divieto degli dei, nel sospetto che lei sia solo un fantasma. Il rischio è che tutto questo voltarci verso un passato considerato migliore possa farci sentire ancora più soli e infine dissolverci. Lasciamo per un attimo stare le ragioni del marketing, cui pure è legato l’uso spropositato delle ricorrenze, qui parliamo di noi! Di noi poveri contemporanei, preferibilmente bianchi e benestanti, che abbiamo perso la bussola della Storia e di conseguenza delle nostre storie personali. Cos’è tutto questo guardarsi indietro? E, rispetto ai nostri figli, è giusto insistere sulle ricorrenze in modo così forsennato, direi persino disperato? Non dovremmo piuttosto insegnar loro sì l’importanza del passato, ma soprattutto ad avere fiducia nel domani?

Credo che oggi quasi la metà dei documentari prodotti in Italia (siamo intorno alle 150 produzioni l’anno) siano legati a delle ricorrenze. Il caso più eclatante si è visto con il bel film che Peppuccio Tornatore ha dedicato al grande Ennio Morricone. Le sale si sono inaspettatamente riempite e la commozione è stata tanta (compresa la mia), forse per via delle musiche indimenticabili del Maestro, ma anche per l’intensa testimonianza di Morricone, per il suo lato umano, per il suo essere tenace, presente, vivo, che Tornatore ha colto con grande sensibilità. Mi chiedo, però, non è che i morti siamo noi, spettatori ammirati e commossi da tanta trascinante vitàlità? Qualcosa di simile ho provato anche vedendo il bel film che Pietro Marcello ha dedicato al sempreverde Lucio Dalla, devo dire ben più originale di una media che sul piano qualitativo pecca di mediocrità, soprattutto sul piano linguistico (non me ne vogliano alcuni colleghi).

Rivolgersi a pagine di storia memorabili, uomini indimenticabili, eldoradi irraggiungibili, forse per non guardare avanti, questa è la tendenza del momento, e non credo sia pronta a esaurirsi. L’ultimo episodio è accaduto con la recente morte di William Hurt. Nei giorni scorsi guardavo in tv Il grande freddo, film corale riproposto dopo la morte di Hurt, che lo vede, appunto, tra i suoi protagonisti: per eccellenza il film generazionale degli anni ottanta. Lo rivedevo dopo ben tre decenni. Avevo solo vent’anni allora, e nel film di Kasdan erano i miei “fratelli maggiori” a dire la loro; mi piaceva ascoltarli, imparavo anche qualcosa.
Oltre al profondo affetto e all’ammirazione per l’attore e quel film indimenticabile (non tanto sul piano artistico, ma per quello che rappresenta), la sensazione che provo oggi è che la dipartita di Hurt ci riconduca a un Eden mai esistito ma comunque necessario, perché abbiamo tutti bisogno di palliativi, specie in momenti difficili come questo. Hurt, in tanti film tormentato uomo della middle class, per certi versi ci fa sentire più lontana questa guerra, ci illude di tenere a distanza le ansie di oggi, e nel fondo ci fa capire quanto noi occidentali siamo (eravamo?) fortunati. E adesso che tanta acqua è passata sotto i ponti, un po’ tutti sappiamo di camminare su delle macerie invisibili. Ecco che cosa manca, specie a noi boomers: la sicurezza di essere protagonisti assoluti, come sembrava in quegli “stupidi” anni ottanta. E allora celebriamo quel che è stato, illudendoci che ieri fosse meglio di oggi.
Si invecchia anche così.
17 marzo 2022
Gianfranco Pannone su
Twitter
Facebook
Instagram