Non è la guerra in corso in Ucraina a rendere Flee perfettamente inserito nello spirito del tempo, ma il fatto che i grandi movimenti di popolazioni sono uno dei grandi eventi accaduti nel mondo a cavallo del millennio, per guerre, carestie, cambiamento climatico, scelte economiche legate alla globalizzazione.
Il film diretto dal regista danese Jonas Poher Rasmussen entra in questo flusso, affronta questi temi utilizzando due chiavi apparentemente opposte, quella del documentario e quella dell’animazione, rendendolo un’opera unica, fatta per segnare record (come quello di unico film candidato agli Oscar contemporaneamente come film internazionale, miglior documentario, miglior film animato), ma soprattutto per stabilire un modo di fare documentario diverso eppure radicato.
Segreti e bugie
Il protagonista è Amin, un ragazzo che quando era bambino è dovuto fuggire dall’Afghanistan in guerra, rifugiandosi a Mosca, e che per cercare la libertà ha dovuto nascondere la propria vita e il proprio passato, nella morsa burocratica che regola l’immigrazione ovunque nel mondo. Dopo anni di segreti, ora che vive in Danimarca può raccontare la sua storia.
Rasmussen, amico di Amin, decide di intervistarlo, utilizzando l’animazione per rappresentare il passato e i flashback del protagonista, come si fa di solito, ma poi c’è l’intuizione decisiva: rendere animate anche le parti documentarie, le interviste o i piccoli momenti di vita quotidiana, per poter dare al ragazzo una sorta di protezione visiva rispetto all’esposizione frontale di un’intervista e anche trovare un modo per incuriosire lo spettatore che verso storie simili ha una certa riluttanza.
In tal senso, Flee porta alle estreme conseguenze una serie di tendenze molto vive nel documentario contemporaneo, quella della storia di famiglia, del “diario” che assume valenza universale e quella della reinterpretazione animata, di frammenti del film o del film intero, come Ancora un giorno che disegna e anima la vita di Ryszard Kapuscinski. Rasmussen però si spinge ancora più in là, non si limita al ricordo, vuole “disegnare la realtà”, sfruttando la mescolanza di linguaggi agli antipodi, concentrando in una sola opera la chiarezza, che serve al cinema per comunicare, e la “bugia” della rappresentazione, che serve ad Amin per sopravvivere.
La giusta distanza
Flee usa la vicenda di Amin e le sue emozioni per mettere al centro dell’attenzione cosa significa essere un profugo, cercando con il pubblico un contatto capace di superare le barriere politiche o ideologiche, senza però fare del facile sentimentalismo: la chiave animata è vincente perché permette al regista e ai suoi collaboratori di usare fantasia e immaginazione, di coinvolgere nel rapporto con il pubblico le percezioni, le sensazioni fisiche legate alla condizione opprimente di rifugiato e profugo che le parole o le immagini documentarie comuni faticherebbero a rendere. Per esempio, in una sequenza in cui Amin e la famiglia stanno cercando di superare la frontiera dell’Unione Sovietica, Rasmussen si concentra sul buio, sul nero, sui fasci di luce che diventano macchie astratte e sul suono sordo che impediscono di vedere e udire, ma non di sentire ciò che i personaggi provano.
Tutto questo permette una vicinanza emotiva e affettiva con Amin, o meglio con la sua versione a matita, in grado di oltrepassare la vicenda che racconta, di descrivere anche il peso che la sua vicenda ha nella sua quotidianità e nelle relazioni; e di questa vicinanza, il regista non abusa mai, anzi esalta il rispetto costruito durante il percorso. E molto intelligentemente, l’ultima inquadratura di questo film emotivo, stratificato, ma che appare così semplice, è l’unica non disegnata: è la casa in cui Amin e il suo compagno vivono, in cui dopo aver affrontato un difficile percorso possono riprendere una vita più o meno normale.
Flee
Anno: 2021
Durata: 90
Distribuzione: I Wonder
Genere: Documentario, Animazione
Nazionalita: Danimarca
Regia: Jonas Poher Rasmussen
Data di uscita: 10-March-2022
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