Conversation
‘L’ombra del giorno’ conversazione con Giuseppe Piccioni
In occasione della presentazione de L’Ombra del giorno all’Italian Film Festival Berlin la conversazione con il regista del film, Giuseppe Piccioni.
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3 anni agoon
L’ombra del giorno racconta con realismo poetico un pezzo di Storia italiana mettendosi dalla parte di chi è costretto a subirla. In occasione della presentazione del film di Giuseppe Piccioni al Italian Film Festival Berlin vi riproponiamo la conversazione con il regista Giuseppe Piccioni.
A Giuseppe Piccioni abbiamo chiesto del film, di Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, delle tappe di una carriera ricca di soddisfazioni
L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni è in sala, distribuito da 01 Distribution. A parlarci della genesi e dello sviluppo del film, lo stesso regista.
L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
L’ombra del giorno rappresenta un ritorno alle origini sia dal punto di vista personale, essendo tu nato ad Ascoli Piceno, la città in cui è ambientato il film, sia artistico, considerando che Il grande Blek con cui hai esordito è stato girato nello stesso luogo. Anche in quel caso la partenza del protagonista era dettata dallo scarto tra ideale e reale. In questo caso la partenza di Anna è ancora più sofferta di quella di Yuri.
In effetti non ci avevo pensato. Forse sì, questa corrispondenza c’è. All’inizio di quel film una voce fuori campo, quella della sorella del protagonista, commentando la partenza di Yuri, si chiede: perché ci allontaniamo dalle cose che amiamo? Una domanda che qui echeggia in modo ancora più forte perché si lascia un amore, si lascia un mondo e un momento dell’esistenza intenso, ricco. In più ne L’ombra del giorno c’è questo sguardo affettuoso, destinato ad aprire interrogativi che prefigurano un seguito. Non si tratta di una cosa fatta a tavolino, come si fa adesso nelle serie, in cui la fine lascia presagire un prosieguo della storia. Ci si chiede cosa accadrà a Luciano dopo la partenza di Ester. La corrispondenza di cui parli esiste non solo per il fatto di essere ad Ascoli, ma anche per il profondo cambiamento suscitato non solo dai mutamenti storici, ma anche dall’arrivo di questa ragazza che entra nel piccolo mondo di Luciano, nelle sue regole, cambiando in qualche modo il suo destino.
Sono molte le storie in cui la vite dei tuoi personaggi sono sconvolte dall’entrata in campo di una controparte che li costringe a uscire fuori dalla propria confort zone.
Sì, diciamo che viviamo in un’epoca abbastanza piatta in cui non esiste una grande possibilità di essere artefici di quello che accade intorno a noi. Luciano, pur con i suoi limiti, sceglie di cambiare sulla spinta di un amore che non gli dà certezze e che mette in discussione le sue convinzioni. Anche noi, come lui, abbiamo la possibilità di compiere delle scelte, ma in giro c’è troppo timore. Nel caso del cinema italiano è quello di scomparire dal mercato, di non compiacere un determinato gruppo di opinionisti, di creare qualche contrasto. La possibilità di dissentire fa parte della nostra natura e lo si può fare non solo per una partita di calcio, su un rigore dato o negato, ma su tutte le grandi questioni che riguardano l’esistenza. Se ci appiattiamo su un’idea del mondo che ci formiamo all’interno delle mura della nostra casa senza accorgercene smettiamo di vivere. Un po’ come accade a Luciano davanti a quella vetrina. Non ho mai pensato che un film debba necessariamente essere portatore di un messaggio, ma credo che oggi sia importante raccontare la vita di tutti, evitando di ridurre un film a semplice esercizio estetico. Certo, bisogna trovare una forma che non sia pamphlettistica, né ideologica, capace di continuare a parlare di noi, di questa vita, del modo in cui ci stiamo dentro e del nostro rapporto con il mondo esterno, quello che Luciano rifugge e insieme anela. È difficile stare sempre in equilibrio tra le due cose; si deve scegliere da che parte andare.
L’inizio
L’ombra del giorno si apre sulla medesima veduta ma quello che ne Il Grande Blek era un centro storico svuotato dall’avanzare della notte qui diventa un tripudio di vita colta all’inizio del nuovo giorno. La circolarità della tua filmografia è molto affascinante.
Sì, questo è vero ed è strano perché all’inizio il film doveva essere ambientato a Roma. Nel corso della preparazione avevamo incontrato molte difficoltà a trovare una strada e un ristorante che mantenessero intatte le caratteristiche dell’epoca senza costare cifre spropositate. Per questo si era pensato di girare in teatro di posa, ma i costi erano eccessivi. Un giorno mi trovavo ad Ascoli dentro il caffè Meletti che poi abbiamo trasformato in un ristorante. Come Luciano mi sono ritrovato a guardare fuori dalla vetrina dicendomi che non avrei potuto trovare un posto migliore per girare il film. Ho chiamato Riccardo Scamarcio, nel frattempo subentrato come produttore, e gli ho parlato di Ascoli, del fatto che girare in quel ristorante, davanti a quella piazza, avrebbe potuto essere la soluzione migliore per il film. Dopo le sue prime titubanze gli ho mandato delle foto e si è immediatamente convinto. Ovviamente questo ha comportato la revisione della sceneggiatura, migliorata proprio dal fatto di essere ambientata in un contesto di “storia minore”, dove gli echi di quella maggiore arrivassero attutiti nello stesso modo in cui succedeva ne Il Grande Blek. Quindi è stata una scelta felice, un po’ fortunata, ma anche meritata perché in tutte le scelte che faccio, anche durante le riprese, c’è sempre questa specie di non soddisfazione; se c’è qualcosa che non mi convince tento fino all’ultimo di trovare una soluzione diversa, migliore. Magari può essere anche la battuta di un attore che, sulle prime, sembra essere adeguata, ma sento che la soluzione giusta non mi basta, e così con gli attori mi metto a cercare una soluzione diversa, che mi sorprenda. Questo mestiere è fatto di scelte, devi arrivare alla fine di un film con il minor numero di rimpianti rispetto alle decisioni che hai preso, è indispensabile.
Ecco, credo sia questa la regia: dover prendere decisioni in tutti i momenti della realizzazione di un film. Si tratta sempre di fare delle scelte: se tenere la musica bassa o alta quando sei al mix, oppure quando sei sul set e lavori con gli attori; aiutarli a cercare l’intonazione di una battuta, non solo giusta, ma che porti qualche rivelazione, che sia capace di diventare una specie di epifania. Lo stesso accade nella scelta degli ambienti, si tratta di scegliere se quell’ambiente che ti è stato proposto, corrisponde all’idea che ti eri fatto nella scrittura, o se addirittura arricchisce quell’idea, oppure decidi di modificarlo, di renderlo più adatto ai tuoi scopi, o decidi proprio che non fa al tuo caso e cerchi qualcosa di diverso. Tutto succede molto in fretta per cui non bisogna indugiare troppo, soprattutto quando giri. Mi piace fare anche qualcosa di non premeditato, scelte che nascono sul momento e riguardano più che altro la messa in scena. Per esempio ne L’ombra del giorno, nella sequenza della dichiarazione di guerra, mi sono fatto guidare dall’istinto. Ho trascurato il realismo, quello che è accaduto in quella grande adunata di popolo che il fascismo organizzò in tutte le piazze d’Italia, con la voce di Mussolini che, da Roma, attraverso la radio, rimbalzava su tutto il Paese, nelle grandi città come nelle province. Ho usato invece il vuoto, il deserto di quella nostra piazza con la voce del Duce che arriva dall’alto, quasi fosse il padre eterno che parla, che raggiunge solo qualche piccolo gruppo di persone smarrite, disorientate, fino a raggiungere la cantina dove il povero Emile con il capo chino subisce fatalmente il significato di quelle parole. Ancora, quando il personaggio interpretato da Benedetta Porcaroli entra nel tempietto e poi si allontana, scomparendo dal campo, dalla vista di Luciano, ecco, quella scena è stata del tutto inventata sul momento, come se fossi stato rapito da un’intuizione: Anna riappare improvvisamente dietro una vetrata e c’è quello scambio di sguardi che dà un’accelerazione al percorso emotivo dei personaggi.
I luoghi de L’altro giorno di Giuseppe Piccioni
Peraltro la piazza e il ristorante sono due grandi protagonisti del film.
Assolutamente. È un racconto che si snoda su questi due piani: l’interno e l’esterno e anche il sopra e il sotto. Una scelta anche questa che mi ha permesso di non sottolineare con l’indicazione di una data le vicende che ho raccontato e che asseconda una trama che ha la semplicità di un libretto d’opera.
Parliamo di due luoghi che entrano in dialettica tra di loro riproponendo non solo uno dei cardini della tua poetica, ovvero il contrasto tra ideale e reale. Il ristorante in particolare mi sembra la rappresentazione dell’interiorità del protagonista. Ne Il grande Blek erano le tavole a svolgere questa funzione. Nello stesso direzione procedeva Luce dei miei occhi mentre in Giulia non esce la sera erano le storie scritte dal protagonista a costituire il rifugio capace di rendere accettabile il confronto con il resto del mondo. Si potrebbe quasi dire che tutto il cinema racconta luoghi dell’anima.
Sì, è molto bello quello che dici e anche abbastanza sorprendente perché mi sembra di aver avuto sempre bisogno di questa specie di vetrata. In Chiedi la Luna, era il luogo di lavoro del protagonista, ubicato in una specie di sotterraneo, con una finestrella che dava sulla strada alla maniera di Finalmente domenica. In Luce dei miei occhi succede con il vetro dell’automobile da dove il personaggio interpretato da Lo Cascio guarda il mondo. Qui il ristorante è un punto d’osservazione sul mondo, sulla storia di quegli anni. E poi ogni ambiente, nelle varie storie ha un punto d’osservazione, con le sue regole. In Fuori dal mondo quello dell’ordine a cui appartiene suor Caterina, ma anche quelle di Ernesto con la sua lavanderia. L’idraulica e la filosofia in Cuori al verde, insieme all’opera buffa di Donizetti, L’elisir d’amore, L’oroscopo in Chiedi la luna, il cinema e i romanzi d’amore dell’ottocento in La vita che vorrei, la fantascienza in Luce dei miei occhi, la scuola ne Il rosso e il blu, le storie che scrive il protagonista in Giulia non esce la sera, che procedono insieme alle sue lezioni di nuoto in quella piscina, e poi Questi Giorni che sembra assecondare le regole del road movie e che con i suoi movimenti disattende proprio regole del genere.
Parallelismi
In Fuori dal mondo quel compito era svolto dalla vetrata della lavanderia da cui il personaggio di Silvio Orlando osserva scorrere la vita in una maniera molto simile a quella di Luciano.
Esatto. Anche lì c’è questa idea trasfigurata della realtà. È come se di essa non cercassi una rappresentazione realistica, ma la sua astrazione che nel caso de L’ombra del giorno mi permette di avere quasi un impianto di tipo teatrale, con la vetrina che scandisce il tempo in maniera non del tutto realistica senza però essere troppo eccentrica. Comunque è vero che esiste sempre un mondo in cui, come tu dici, i miei personaggi entrano in un rapporto dialettico fatto di ideale e di desiderio. E la vetrata suggerisce un’illusione che è tutta nello sguardo di Luciano. Una falsa apparenza, falsa come ogni tipo di propaganda.
I protagonisti de L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
Qui, come altrove, la drammaturgia della storia passa anche dal superamento della barriera che separa i personaggi dalla realtà.
Sì, è il luogo che ci getta nel pericolo, ma dove c’è anche il cuore del cambiamento dell’esistenza. Anche se non si tratta di un rischio fisico è comunque un’incertezza, una terra di nessuno. Attraversando quella barriera Luciano e Anna perdono un po’ delle loro connotazioni. Come capitava anche ad altri personaggi, si trovano in questa terra di nessuno dove sono semplicemente un uomo e una donna, spogli da tutto ciò che li definisce e li oppone. Parlandone sembra che sia una cosa premeditata, ma non lo è.
L’ombra del giorno conferma un’altra caratteristica che ti appartiene: quella di dedicare al maschile e al femminile la medesima attenzione. Nei tuoi film questo si manifesta anche in termini di presenza all’interno delle inquadrature.
Cerco di evitare quel territorio in cui spesso il rapporto tra uomo e donna ci porta immediatamente alla lite casalinga, al tinello borghese e ai discorsi riportati sulle riviste. Per questo insieme agli altri sceneggiatori, in questo caso Gualtiero Rosella ed Annick Emdin, lavoriamo sulla scrittura e sui dialoghi, sforzandoci di operare un piccolo scarto dal realismo. Non mi piace vedere persone che parlano e ci sembrano vere solo perché riflettono o cercano di rispecchiare il linguaggio quotidiano. Così mi invento una sorta di lingua personale nella speranza che gli attori riescano a renderla vera senza troppa artificiosità. O meglio, c’è l’artificio, ma è un artificio che aiuta a creare una verità, la stessa cosa può succedere anche in un musical o in un poliziesco. Spesso parliamo di neorealismo però gli attori presi dalla strada parlavano con la voce dei grandi attori dell’epoca. C’è sempre un lavoro in cui si falsifica per essere più veri: non per nascondersi, ma per entrare ancora più in sintonia con quello che vediamo, perché alla fine quel film, quel poliziesco, quel musical, parlano tutti di noi, della nostra vita.
Nel mio film, per esempio, tutto questo si traduce anche in qualcosa di musicale. Quando Luciano chiede ad Anna di cosa hanno parlato con il gerarca fascista lei risponde: “Mi ha detto di uscire per una cenetta romantica”. “E voi cosa gli avete detto?” “Beh, gli ho detto che ero impegnata con voi perché la prima cosa che succede tra gli uomini è quella di rispettare l’amico”. Allora Luciano, un po’ imbarazzato, le dice: “Adesso si è fatto tardi. Andate pure a casa” E Anna: “No, stiamo litigando adesso, non voglio andare a casa”. E lui: “allora restate”. Ecco, in quel restate c’è quasi una speranza, un inatteso cambiamento di tono – bravissimo Riccardo nel modo in cui dice quella battuta – ma lei ha un attimo di esitazione, solo un attimo e risponde: “no, vado a casa!”. Sembra un dialogo fatto di nulla, invece racconta un movimento interiore molto forte. Insomma sia nella scrittura che nel clima, nei toni delle battute, cerco di allontanarmi dalla consuetudine, da quell’impostazione dominante soprattutto nelle fiction. Mi piace che questo scarto poetico trovi cittadinanza in un film, magari senza che il pubblico se ne accorga.
Reale e finzione in L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
Dall’interno del ristorante la piazza e i portici della città sembrano quasi le quinte di un teatro.
Esatto, è una cosa che ho ricercato per tutto il film, cioè che la storia dietro la sua complessità avesse la semplicità di un libretto d’opera, dove i personaggi entrano ed escono e in cui l’unità di luogo è fondamentale. Qualcuno potrebbe aggiungere, com’è successo, che si tratta di un kammerspiel. È anche quello. Ma con una finestra che toglie un po’ di claustrofobia a quell’ambiente unico dove si sviluppa gran parte della storia. Detto questo, mi fa piacere che tu abbia notato la dimensione teatrale perché è forse quella vetrina la chiave della messinscena in cui lo sguardo dapprima bonario su quel luogo affacciato sul mondo diventa quello di chi si difende, asserragliato in una sorta di fortino che rischia di essere espugnato e dentro il quale ci si protegge dal mondo.
Quello che ne esce fuori è un realismo poetico capace di trasfigurare il reale per renderlo ancora più vero di quanto di solito appare.
Mi piace molto questa definizione. Io sono un po’ demodé, amo certi vecchi film. Per cui il realismo poetico, soprattutto quello del cinema francese, è qualcosa che amo e in cui mi ritrovo. Storie di persone normali, ma con una luce che li illumina e che usano parole non ordinarie, che però sono dette con semplicità, senza retorica. Per cui grazie per aver usato quel termine a proposito dei miei film.
Il continuum narrativo
Ne è un esempio il continuum narrativo in cui dalla leggiadra bellezza delle gioventù fascista vestita di bianco si passa, sul finire del film, al bambino con i vestiti neri e la maschera antigas calata sul viso. Con poche immagini riesci a fare l’excursus emotivo di un intero periodo storico, quello in cui l’illusione lascia il posto alla tragedia.
Mi piacerebbe che il pubblico a un certo punto, nei dintorni del finale, si domandasse come si è arrivati fin lì, perché in effetti c’è un percorso drammaturgico che non è del tutto prevedibile. Se riesco a far compiere questo viaggio allo spettatore sento di averlo conquistato, di averlo accanto come un compagno di viaggio. Quella è la cosa che mi interessa sempre nei film, che a un certo punto si perda un po’ l’orientamento (ride, ndr). Mi piace ci sia qualcosa di inatteso come nella parte più violenta della storia in cui Luciano non compie un atto eroico tipico. Lui potrebbe essere un eroe omerico: non Achille, ma Ulisse. Perché, per quanto sia impulsivo, usa sempre la testa, “la capoccia”, come dice in una scena. È quello che i greci chiamavano métis. Il complimento più grande che lo spettatore possa farmi è quello di dirmi che non si aspettava una determinata svolta nella storia, e il clima che la accompagna.
Le sorprese de L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
L’ombra del giorno è un racconto pieno di sorprese. Per esempio non mi aspettavo quella relativa al personaggio di Anna che poi si rivela essere Esther. Abituati a vederla nelle vesti di una fanciulla in difficoltà si rimane stupiti nello scoprire che potrebbe essere una manipolatrice, capace di approfittare dei sentimenti di Luciano per il proprio tornaconto.
Quando Luciano si ritrova a parlare con il giovane francese che gli chiede se li ha aiutati per via di Ester lui dice: “no, l’ho fatto per Anna, non conosco nessuna Ester”. Poi, subito dopo, nella scena in cui Anna sta per partire, non riesce a fare a meno di chiamarla Esther. A volte ci rendiamo conto che, nelle sceneggiature, si passa da un dialogo più complesso ad un altro di due battute capace di produrre una grandissima accelerazione di senso senza usare molte parole. Quell’Ester pronunciato da Luciano ci dà proprio quest’idea. La rivelazione della doppia identità è un momento di svolta anche perché su Anna incomincia ad addensarsi un’ombra, derivata dal sospetto che la ragazza abbia manipolato Luciano. Il tutto senza esagerare, non in modo del tutto chiaro, ma come un sospetto incerto, come si conviene alla natura umana, da sempre abitata da angoli oscuri di cui siamo spesso inconsapevoli.
Le immagini
Nella prima inquadratura del film, per un attimo, le persone fuori dal ristorante appaiano fuori fuoco. Successivamente invece, quando la realtà si è rivelata per quello che è, la sfocatura permane per più tempo rendendo i passanti figure aliene e minacciose. Anche qui c’è un movimento forte che tu racconti attraverso le immagini e senza uso di parole.
Sì, assolutamente. Succede anche nell’uso della luce. Tu l’hai detto prima: il bianco indica una solarità in qualche modo corrispondente allo sguardo di Luciano, sottolineandone una sorta di indulgenza, di desiderio, di ottimismo. Poi questo mondo si offusca, tutto è più denso, i colori si saturano un pochino, raccontando l’arrivo della minaccia attraverso elementi puramente visivi e, come hai detto, con quelle ombre sfocate che guardano dentro senza avere più il sorriso di prima. La tua osservazione è giusta, rispecchia un po’ la mia intenzioni di creare nella storia momenti di racconto in cui gli aspetti della luce e del fuori fuoco sono sufficienti per suggerire un cambiamento nel clima del racconto, meglio di come avrebbero potuto farlo le parole o un altro tipo di sottolineatura didascalica. La stessa cosa vale per la partitura musicale di Michele Braga, per il suo movimento nel racconto. Michele ha fatto un lavoro straordinario. Quando l’ho contattato gli ho fatto vedere il film chiedendogli di improvvisare qualsiasi cosa senza pensare a una singola scena. Dopo qualche giorno mi ha mandato una traccia su whatsapp. Quando l’ho ascoltata assieme a Riccardo ci sembrava di vedere il film, come se quella traccia contenesse tutti i momenti della storia: l’ombra, la luce, l’amore, il disincanto, la minaccia. Non so come ci sia riuscito ma sono felicissimo di questa suo incredibile contributo. Il resto è stato sviluppato in tracce separate dando vita a una partitura davvero originale.
Il tempo e i luoghi di L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
Peraltro anche qui come in Fuori dal mondo ci sono due o tre momenti in cui il tempo sembra fermarsi, con i personaggi di colpo immobili e muti di fronte alla mdp. È come se, attraverso quelle sequenze, il film si prendesse una pausa per misurare le conseguenze degli eventi appena raccontati.
Sì, in qualche modo è come se lo sguardo di Luciano producesse questa cosmesi sulla realtà. Come quando una giovane commessa, dopo aver attaccato sulla vetrina del suo negozio un cartello con su scritto “Questo negozio è ariano”, si scioglie in un sorriso verso la macchina da presa. È vero che, pur con significati diversi, avevo utilizzato questa soluzione in altri film. Anche qui mi piace non essere stato così realistico senza però dare l’impressione di andare totalmente da un’altra parte dal punto di vista del linguaggio. Quello che tu chiami realismo poetico è anche lì, in questo tipo di scelte. A volte la parola è scritta però messa nelle mani degli attori sembra che non lo sia, permettendoci di trovare altre risonanze. Apparentemente racconto una storia d’amore, ma io non voglio che sia solo questo. Voglio che ci sia l’eco di un’idea dell’esistenza e del mondo che ci riguarda. Siamo in quel territorio in cui l’amore è il detonatore di questa riflessione però non mi accontento della sintonia con lo spettatore quando questa è il frutto di una complicità tropo smaccata. Cerco sempre qualcosa che corrisponda alla vita di tutti, ma che allo stesso tempo sia capace di andare oltre, mostrando qualcosa di più.
Se i tuoi film raccontano luoghi dell’anima, possiamo dire che il ristorante in quanto spazio dell’innamoramento rappresenta l’interiorità di Luciano mentre la piazza incarna la dimensione pubblica e politica? Corrispondeva alle tue intenzioni?
Può esserlo senz’altro. Il ristorante è il luogo che piano piano disordina i ruoli, le appartenenze, le differenze, le coordinate sentimentali di Luciano. A proposito di questo non so se ricordi La vita che vorrei: nella vita reale lui e lei non si ritrovano, non hanno una lingua comune, non riescono neanche ad amarsi mentre sul set del film, pur utilizzando il linguaggio del tutto obsoleto dei romanzi d’amore dell’ottocento, pur nella teatralità che c’è intorno a loro, riescono a trovare una parvenza di verità e d’intesa. Questo per dirti di come il luogo sia centrale per l’azzeramento delle differenze dei due personaggi principali: la teatralità del ristorante aiuta moltissimo ad arrivare alla comprensione che hai avuto tu. Anche l’uso del voi è interessante. Luciano dice: “allora restate”, invece di “allora resta” ed è come se le parole avessero il compito di far affiorare una distanza che però crea, da subito, un’intimità ancora più forte e tuttavia discreta. Nonostante il “voi”. O grazie al “voi”.
Il destino dei personaggi
I personaggi nel loro insieme riproducono le varie posizioni assunte dalla compagine sociale rispetto al periodo fascista. Dal particolare il film risale a una verità universale. La costante è la tua vicinanza con il destino dei personaggi, al di là degli schieramenti.
È vero. La tua analisi mi permette di capire qualcosa in più del mio film (ride, ndr). Te lo dico per il fatto di trovarmi a improvvisare una risposta – magari anche insoddisfacente – su qualcosa che dovrei già sapere. A questo proposito mi ricordo che Luce dei miei occhi piacque in modo particolare ad alcuni poeti, conosciuti e stimati, forse anche perché cerco sempre di trattenermi, di tenere a bada la retorica, pensando che la misura faccia ancora di più decantare questo sentimento di vicinanza con la sorte dei personaggi. Penso a Fuori dal mondo, quando Silvio e Margherita si lasciano nell’ultima scena. Dopo l’abbraccio, dettato da una situazione particolare appena vissuta dal personaggio di Suor Caterina, si dicono pochissime parole e non si sfiorano neanche con una mano. Si salutano senza toccarsi, poi lei se ne va. Ed è proprio la mancanza di qualcosa che avresti voluto, o desiderato, a coinvolgere lo spettatore il cui primo istinto sarebbe quello di dire al personaggio di Silvio Orlando: dai, richiamala!, abbracciala! Invece è questa mancanza assoluta di gesti che sottolineano il finale a creare un’emozione ancora più forte, un’emozione più matura, più consapevole, che coinvolge ancora di più. Però questa cosa dei personaggi, di cui tu dici, esiste. C’è nella lingua di Osvaldo, quando dice Julien Sorel che nome del cazzo!; c’è nel cuoco, che è un personaggio fortemente tipizzato, ma capace di un’integrità inaspettata che scopriamo quando nella cantina osserva il corpo senza vita del ragazzo. Mi piace che nel film ci sia un signore silenzioso di cui non sappiamo quasi niente tranne il fatto che scruta Luciano come se, con il solo sguardo, intuisse che Luciano nasconde qualcosa. Mi piace lo sguardo che, a sua volta, Luciano rivolge all’uomo, quando capisce che da quell’occhiata si deve difendere: in generale mi piacciono le chiacchiere che ci sono nel ristorante e qualcosa di non detto, più forte di quello che si dice.
Una ricostruzione storica?
L’ombra del dubbio non puntava a una ricostruzione storica del fascismo quanto piuttosto alla sua interiorizzazione. Come in altri film la realtà è vissuta non come esperienza fattuale, ma emotiva, attraverso i sentimenti provocati nell’animo dei personaggi. In questo senso il fascismo diventa qualcosa che impedisce d’amare e che separa. Una dichiarazione più forte e politica di questa non esiste.
La condivido appieno. L’ambientazione provinciale dà alla minaccia del fascismo un’aria bonaria, la stessa che c’era ne Il grande Blek. Di fatto il fascismo ci allontana, ci separa, discrimina, mette leggi, suscita quel clima di delazione, di difesa di sé, di propaganda che omologa tutto, il pensiero e inibisce anche la tentazione di un pensiero che cerchi di distinguersi. Ci costringe ad agire nell’ombra. Noi abbiamo raccontato un lungo giorno di quel regime che sembra avere caratteristiche solari, che non appare così minaccioso. Ho letto molto su questo periodo per cui avrei potuto fare un film molto più articolato, però per fortuna quella dimensione teatrale, mi ha comunque permesso di riassumerlo nei suoi tratti essenziali, più in un clima che nei fatti. Non ho cercato di guadagnarmi un facile consenso di tipo ideologico, ma di esprimere sempre il giudizio su quel periodo sciagurato e nello stesso tempo di far capire che in quel momento il fascismo era nella vita di tutti e nessuno immaginava quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Così come adesso non lo sappiamo noi rispetto alle tragedie che incombono nella nostra vita. So che l’amore è una forza eversiva, capace di sovvertire le sorti dell’esistenza. Almeno questo è quello che succede nel film. L’amore diventa detonatore di qualcos’altro che si relaziona politicamente con la realtà circostante.
I riferimenti de L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
Rispetto a quello che è stato detto ne L’ombra del giorno ha ricordato L’ultimo metro di François Truffaut.
Guarda, il mio film è fatto di ispirazioni non volute di cui però ero consapevole. L’ultimo metro assolutamente sì, anche nella caratterizzazione del piccolo mondo – lì avevamo quella sartina, qui l’aiuto cuoca e il cameriere che nasconde un’ambiguità di fondo -. Le analogie esistono anche nella presenza di un sotto e un sopra, di un dentro e un fuori. Del film di Truffaut c’è più di un riferimento anche perché è un’opera che ho amato tantissimo. Ma c’è anche Casablanca, come è inevitabile che sia, come pure Una giornata particolare, con la differenza che il film di Ettore Scola aveva un’unità di luogo e di tempo e forse, dal punto di vista del cinema, è la cosa più bella che ha fatto. Quella scelta racconta il fascismo meglio di qualsiasi altra rappresentazione storica di quel periodo.
Parlavi di Casablanca: ebbene, a me sembra che il film nella sua progettazione si richiami a un tipo di cinema oramai scomparso, quello che, come in Nuovo Cinema Paradiso, era fatto per e con la gente. Facendo riferimento a questa considerazione torna ancora più forte l’idea che Scamarcio stia nel film come lo sarebbe stato un personaggio interpretato da Amedeo Nazzari.
Anche a me il film dà la stessa impressione. Stranamente c’è una cosa in cui io e Riccardo ci siamo ritrovati: è come se avessimo messo per un attimo il naso nella vita dei nostri padri e anche in quella piccola mitologia quotidiana che ci dava il cinema italiano del passato. Il personaggio di Riccardo può far pensare veramente ad Amedeo Nazzari. Peraltro, forse anche la storia rimanda a quel cinema. Quando nel finale vediamo quei signori uscire in strada cantando Parlami d’amore Mariù, ti sembra di assistere a una scena de I vitelloni. Sono tutte cose su cui tu mi spingi a ragionare creando in me la sensazione che il film si relazioni ai riferimenti di cui mi parli, compreso quello di Tornatore, ovvero di un cinema che parla con le persone in maniera inattuale, ma non come limite, nel senso che non flirta con l’attualità, eppure ci riguarda, nel presente.
Riccardo Scamarcio…
Peraltro, nel corso di una conversazione, Riccardo Scamarcio mi aveva confessato di come una volta all’anno lui e la sua famiglia tornano a rivedere Nuovo Cinema Paradiso, emozionandosi sempre per le stesse scene. Nel tuo film è come se Scamarcio avesse fatto suo il respiro di quel cinema e di certi stati d’animo che sembrano gli stessi di Luciano. Fatto sta che ne L’ombra del giorno Riccardo riesce a superarsi producendosi in una grande performance.
A me Luciano ha fatto pensare a mio padre che a suo tempo, in guerra, è stato sommergibilista e che fu decorato non per aver soppresso persone, ma per aver salvato i propri compagni. Dopo la guerra partì per il Canada, un emigrante, come tanti, ed è rimasto lì otto anni. Di lui avevo solo una foto con i baffi e la divisa da sottufficiale di marina appesa nel tinello di casa. Facevo tante fantasie su suo conto e sugli uomini di quegli anni. Gli zii, i conoscenti, gli uomini della mia famiglia. Sulla concretezza dell’esistenza, sulle loro parole misurate, sulla povertà decorosa, o un benessere non sfacciato, tutto questo è nelle mie origini. Riccardo ha vissuto come attore una sensazione ancor più forte, perché sentiva quasi di ispirarsi a suo padre che invece ha conosciuto e con cui ha avuto un rapporto molto intenso, fatto di grande ammirazione. Purtroppo è morto pochi anni fa, però lui si è ispirato a quel passato e questo è molto interessante. Si è ispirato senza accorgersene, suo malgrado, come guardandosi in uno specchio, ritrovando lui, suo padre.
Una volta di più Scamarcio dimostra di essere un attore clamoroso e molto sottovalutato rispetto alla sua bravura. Tu lo usi fuori ruolo, in una parte – quella di Luciano – che richiedeva un carisma e una maturità chiamata a fare i conti con l’eterna giovinezza del suo personaggio. Lui riesce a darti queste sfumature in una maniera naturale e senza alcuna sottolineatura.
Per quanto a volte sembri un personaggio un po’ guascone e un po’ spavaldo credo che Riccardo possa soffrire di questa sottovalutazione – lui non lo ammetterà mai – e secondo me ancora adesso, nonostante abbia fatto il film di Nanni Moretti, qualche resistenza c’è nei suoi confronti. Per fortuna sempre più rara. L’idea che lui sia legato ai film dei suoi esordi e anche a vicende glamour spesso gli tolgono qualcosa e sono il primo a dispiacermene perché Riccardo è un attore con cui farei film, sempre, come Fellini con Mastroianni. Ovviamente io non sono Fellini e Riccardo non è Mastroianni, però mi piacerebbe fare con lui un altro film perché non sono tanti gli interpreti in grado di tenere sulle loro spalle il ruolo del protagonista. Ancora di più adesso che è un uomo maturo e che non appare più come il giovane bello e tenebroso. Spero molto che questo film lo aiuti e penso che già lo stia facendo perché moltissime persone, come te, sono rimaste molto colpite dal suo lavoro. Si tratta però di un percorso che ha scelto da tempo, consapevolmente.
… e Benedetta Porcaroli
Parliamo di Benedetta Porcaroli. Anche per lei questo era un ruolo importante perché la portava in un territorio lontano da quelli a cui era abituata.
All’inizio avevo qualche dubbio perché, pur avendola scelta, dentro di me c’era il costante interrogativo sul fatto che lei e Riccardo fossero molti diversi, anche fisicamente: aldilà del fatto che una ragazza della sua età, in quell’epoca, era già considerata una donna, mi chiedevo se potesse davvero reggere sulle spalle quel personaggio. Mi sembrava troppo giovane. Benedetta, oltre a essere molto intelligente, è diversissima da Anna. Ogni volta che l’ho contrastata cercando di tirarle fuori qualcosa che aveva dentro di sé non si è mai persa d’animo, né offesa. Lei ci mette poco a capire e a correggersi. C’era una scena in cui Benedetta era a letto con Riccardo: c’era questo lungo dialogo, in cui la maggiore responsabilità della scena era nelle sue mani. Battute scritte, niente linguaggio quotidiano, ordinario con frasi come “ti sono necessaria come l’aria”. E lei continuava a pregarmi di non farle pronunciare quelle frasi, temeva di non riuscire a dirle. Io ho insistito e ho lavorato per farle capire la necessità di dirle e soprattutto che era assolutamente in grado di farlo al meglio. Infatti è stata bravissima, personale, vera. Comunque Benedetta è stata sorprendente: ci sono due tre momenti che ci hanno lasciato di stucco considerando che quanto ha girato aveva solo 22 anni. Ha voluto fare il film a tutti i costi, andando oltre l’aspetto del compenso. Mi sono molto affezionato a lei e sono convinto che abbia davanti a sé una lunga strada, ricca di sorprese e di soddisfazioni.
Non solo L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni
Peraltro recitare con te è una garanzia. La tua filmografia dimostra che sei un eccellente direttore di attori.
Sono fortunato anche io perché a volte la carriera di un regista è fatta di incontri, spesso legati al caso, quindi ci vuole anche la fortuna di fare un film con un’attrice nel suo miglior momento. La prima ad aiutarmi, a mettere la prima gemma nella mia collezione di bravissimi attori è stata Margherita Buy, ma questo non vuol dire che, seppur già famosi, questi bravissimi attori, non si debbano guadagnare il ruolo attraverso un provino. Così è stato anche per Benedetta anche perché se non mi convinco che un attore sia adatto alla parte non riesco ad andare avanti. È stato così anche con Sandra Ceccarelli: era una sconosciuta e quel ruolo se l’è davvero conquistato. Per un periodo è stata la mia musa. Lei, come Margherita, hanno sovvertito tutte le mie certezze. In tutti i sensi.
Giuseppe Piccioni oltre L’ombra del giorno
Parliamo dei film e degli autori che ami.
Mi piacciono i film che hanno un segreto nascosto. Notorious l’ho visto almeno 40 volte non riuscendo mai ad avere la sensazione di aver capito fino in fondo i segreti di quel film. Poi ci sono dei film di Ingmar Bergman: premettendo che amo quelli più generosi, tipo Scene di un matrimonio e Fanny e Alexander – mi ricordo che da bambino ero sopraffatto da Il settimo sigillo. L’apparizione della morte era qualcosa che non comprendevo affatto ma, per esempio, la scena in cui gioca a scacchi con il cavaliere aveva in me un impatto pazzesco. Poi magari di lui amo un film minore, ma altrettanto grande come La fontana della vergine che è quasi una parabola. Truffaut è stato una parte lunghissima della mia vita.
Poi ci sono Pietrangeli, Germi, oltre a Fellini di cui amo molto la prima parte di carriera, quella che va fino a Otto e mezzo. Dopo c’è stata una svolta che mi non mi ha convinto del tutto. Il nuovo cinema americano degli anni settanta ha significato molto per me. Film come Un uomo da marciapiede, ma anche Il laureato sembravano in grado di dirci cose della nostra vita, più di quanto potessero farlo i film italiani dell’epoca. Ho visto di tutto: anche i film di Franco e Ciccio che da ragazzi di provincia ci siamo fatti piacere per opporci a una certa idea di cinema d’autore. Oppure per esibire un vezzo, da intellettuali snob. E poi ci sono Lubitsh, Wilder, Cukor: amo Eva contro Eva ma mi piace anche Madigan, squadra speciale sparate a vista. Poi per esempio mi appassiono ad un attore e finisco per vedere tutti i suoi film, cosa che di recente mi è successo con Liam Neeson, anche nei suoi film peggiori. Mi sono innamorato di tutte le grandi attrici del passato dalla Garbo a Bette Davis, fino ad Anne Bancroft, la straordinaria Mrs Robinson de Il Laureato. Mi piacerebbe fare un film con Cate Blanchett. Continua a piacermi Marco Bellocchio perché, soprattutto negli ultimi anni, ha fatto dei film in cui c’è sempre uno strano clima, una sorta di dormiveglia, ma allo stesso tempo amo anche il cinema come spettacolo, simile all’idea che ne aveva Truffaut. Quest’ultimo diceva che il film è un battello che rischia in ogni momento di affondare e che noi dobbiamo cercare di impedirlo. Questa idea di spettacolo la condivido in pieno. Spero che mi consentano di continuare a fare i film che voglio e mi piacerebbe che il lavoro del regista sia più rispettato in questo paese, al contrario di quello che sembra accadere oggi. Ma sarebbe troppo lungo parlarne adesso.
L’Ombra Del Giorno: la recensione del nuovo film di Giuseppe Piccioni