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Il cinema horror: storia ed evoluzione tra politica e Stati Uniti
Sotto le mentite spoglie dell'horror, nel cinema americano si nascondono le metafore per raccontare l'attualità
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3 anni fail
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Gianlorenzo FranzìIl cinema horror è il genere principe per poter raccontare l’attualità e le paure del presente, grazie alle metafore a cui ricorre e alle emozioni che provoca: attraverso alcuni cult leggendari del cinema americano, vediamo allora come la paura si è evoluta e come ha rappresentato la società.
“Non vi è luogo al riparo dal male”, Anonimo
Di cosa abbiamo paura?
L’horror è sempre stato considerato il “genere” principe e principale del Grande Schermo -questo almeno finchè ancora esistevano i generi-, e ha dato vita ad alcune delle opere più interessanti, controverse e importanti della storia del Cinema. Del motivo ne parlavamo sopra: i film di paura sono sempre stati quelli capaci di coinvolgere un grandissimo bacino d’utenza per la loro indiscutibile capacità di gettare una luce (seppur momentanea) nei coni d’ombra dell’anima, per aver sempre saputo illuminare gli anfratti bui dove si annidano le paure sociali più pericolose e intense.
La paura inizia dove finisce la razionalità: e la razionalità finisce lì dove le parole non ci bastano per narrare, o far capire, gli intimi timori che ci muovono, le irrazionali fobie che popolano la nostra esistenza. Possiamo far nascere il cinema del’orrore con Nosferatu di Murnau del ‘22, farlo proseguire con il Frankenstein di Whale, poi con gli zombie di Romero – e via dicendo.
Quello che andremo ad evidenziare meglio nelle prossime pagine è proprio questo: ognuno di questi film nasce da un punto sociale-politico ben preciso, viene fuori da un nodo irrisolto nella quotidianità: guerre, carestie, rivoluzioni scientifiche, avanzamenti tecnici, malattie, modernismi, ondate di follia, hanno fatto da humus ideale per poter fare germogliare i “film di paura”. Buona parte del cinema horror viene dal Cinema Americano: che probabilmente è, se non (sempre) il migliore, sicuramente il più rappresentativo.
Dagli albori del ‘30, passando per il “pericolo comunista”, e poi i pacifisti anni ’70, la controrivoluzione degli ‘80, la “generazione X” dei ‘90, e infine per il metacinema del nuovo secolo, il Cinema Americano ha saputo cogliere i malumori serpeggianti nella popolazione mondiale, innestandoli e incistandoli nella sua produzione cinematografica anche grazie ad Autori particolarmente illuminati.
Che hanno appunto fatto luce su quel luogo oscuro, spaventoso, pieno di bubboni ed escrescenze tumorali; quel luogo di perdizione, angoscia, fertile terreno per nascita di serial killer, che è la famiglia. Famiglia, come nucleo centrale della polis, da cui “politica”. E che hanno creato opere di grandissimo impatto commerciale ma anche, e soprattutto, e forse proprio per questo, di grandissima importanza storico-culturale per un mondo che inesorabile va sempre avanti, incurante delle vittime che si lascia dietro.
Frankenstein (id., di James Whale, 1931)
“Fu in una cupa notte di novembre che vidi la fine del mio lavoro. Con un’ansia che arrivava fino allo spasimo raccolsi intorno a me gli strumenti della vita per infondere una scintilla animatrice nella cosa immota che mi giaceva davanti. Al bagliore della luce che andava estinguendosi, vidi gli occhi giallo opaco della creatura aprirsi, respirò ansando e un moto convulso gli agitò le membra”: fu con queste parole la scrittrice inglese Mary Shelley descrisse, per bocca dello scienziato Victor Frankenstein, la nascita di una delle più tragiche e inquietanti figure che la fantasia umana abbia mai potuto concepire.
La rigogliosa fantasia di Mary fu rapita nel 1816 da sensazioni intense e travolgenti, nel corso di un’estate (“haunted summer”) trascorsa in compagnia di due grandi poeti romantici, Byron e Percy Shelley, presenze ispiratrici e illuminanti. L’opera trabocca fino all’inverosimile di pressioni talmente violente da sconvolgere il lettore; antitesi eterne come Bene e Male, tristezza e felicità, Brutto e Bello, si rincorrono come in una partitura musicale di un valzer crudele. E ad una natura straordinariamente bella viene opposto il macabro e raccapricciante aspetto fisico dell’essere.
Alla nobiltà dei sentimenti umani, alla bontà e alla voglia di amare, alle gioie di una Svizzera felice si contrappongono atroci cattiverie, profondi rancori, brucianti amarezze e “infernali disperazioni”.
La sceneggiatura del Frankenstein di Whale non si rifaceva direttamente al romanzo, ma ad una già collaudata piece teatrale del 1930. La fotografia illumina in un livido bianco e nero immagini di rara sensibilità, tra architetture gotiche e trovate narrative (l’assistente gobbo, il castello sulla rupe, il mulino in fiamme) diventate in seguito veri e propri clichè del genere. Impossibile poi non sottolineare il trucco ideato da Jack Pierce, che unito alla straordinaria espressività di Boris Karloff, mimo di matrice teatrale e poi Mostro di rara intensità e colmo di tragico dolore, contribuiscono in maniera decisiva alla riuscita finale.
Frankenstein è dominato dalle ombre: figlie dell’impressionismo tedesco, ma avanzate e invischiate con una drammaturgia molto cinefila. Non è infatti una novità per nessuno il fatto che il film di Whale sia il capostipite di una lunga serie, nonché una vera e propria miniera di trovate scenografiche, che influenzeranno il cinema dell’orrore negli anni a venire, fino ad oggi. Per la breve durata dell’opera (67 minuti) un numero impressionante di sequenze diventate di culto, rendendo quasi tutta la pellicola celebre iconograficamente: Henry Frankenstein e i suoi macchinari per l’elettricità, la Creatura che gioca con Maria, l’inseguimento fino al Mulino.
Sono tutte scene entrate a far parte della Storia del cinema, riprodotte, rifatte, imitate. Senza però nessuno, ovviamente, che è riuscito a restituire la stessa forza, la stessa inquietudine, lo stesso senso di straniamento di fronte ad una pietra miliare del cinema non solo horror (tranne forse Mel Brooks: che con l’apporto sostanziale e l’aiuto del genio comico distruttivo di Gene Wilder firma il suo capolavoro, Young Frankenstein, un frullato di Frankenstein e del suo seguito, La moglie di Frankenstein, iconizzando le due opere, estraendone la natura quasi sovrannaturale e sovrafilmica per mostrare la loro forza eterna).
È vero: le dinamiche interpersonali sono tipiche dei film dell’epoca, e un personaggio come il padre di Henry è una macchietta che non sdrammatizza ma alleggerisce solamente il tono dell’opera, appesantendone l’età: ma la figura di Henry Frankenstein è l’archetipo dello scienziato pazzo (che discende direttamente dal protagonista di Metropolis), e alcune inquadrature sghembe (sempre dirette discendenti dall’Espressionismo) restituiscono un’atmosfera gotica che difficilmente troverete in altri film.
Assolutamente non trascurabile, poi, la Creatura resa da Boris Karloff: anche qui, imitata, snaturata, copiata a non finire. Ma l’essenza del mostro è proprio e solo quella che Karloff riesce ad infondere: un misto insondabile di ineffabilità, tenerezza, violenza cieca e furia distruttiva compulsiva che fanno del mostro di Frankenstein l’origine di tutti i Mostri.
La Paura dell’Uomo-Massa
L’orrore viene dalla paura – ed è la paura a generare i mostri. Lo spettro di un conflitto appena finito, le vittime, l’economia a brandelli: nel 1920 il mondo esce da una guerra mondiale, e tra le macerie ancora fumanti si aggirano terrori e angosce che il cinema incista e corporeizza. Nosferatu il vampiro (Nosferatu: eine Symphonie des Grauens), di Friederick Murnau, esce furtivo dalla sua cripta assieme ad altri due classici del genere, Das Kabinett des dr. Caligari e Der Golem, per generare all’improvviso il “cinema dei mostri”. Perché al contrario di una guerra che ancora fa contare i morti, la paura del vampiro è facilmente esorcizzabile, alla luce del sole il mostro evapora: Murnau anima così un’ossessiva sarabanda onirica, illuminando (sullo schermo di un’arte cinematografica ancora muta e primitiva) gli incubi del suo tempo e della sua Germania.
In America, invece, l’atmosfera è diversa: la Guerra non ha contaminato le coscienze né ha annerito gli animi, ma altri sono i terrori che adombrano le notti degli statunitensi. Se ancora non si è capito, è con i generi dell’orrore e della fantascienza che il cinema è nato. Sperimentazioni ardite, contaminazioni letterarie e filosofiche, influssi artistici delle avanguardie: tutto si fonde, scolora e riprende vita nel calderone del Grande Schermo grazie ai racconti di una realtà iperbolica che nella sua trasfigurazione raggiunge con la forza delle metafore i recessi più nascosti dell’anima.
L’orrore porta alla luce paure sepolte e angosce nascoste: nel 1931, James Whale fa allora uscire il suo Frankenstein. Posto sulla linea di confine fra l’ascesa di una società del pionierismo all’avanguardia industriale e la sua stessa decadenza, vittima del suo stesso sistema messo efficacemente in grado di imporre le proprie scelte, il film (con altri più o meno contemporanei) rappresenta degnamente la scuola americana del terrore posteriore a quella nordica e a quella tedesca di cui sopra, influenzata senza dubbio da quelle correnti espressionistiche mitteleuropee e dalle loro preziose eredità.
E la rappresenta soprattutto in certi connotati di ingenuità, di ottimismo e insieme di ipocrisia. Come rileva Francesco Pasinetti, “la scena più singolare del film è quella dove il mostro si ferma in riva al fiume e inizia a giocare con una bambina, e per la prima volta tenta di sorridere: anche la Creatura diede il suo contributo per far comprendere agli americani l’inizio dell’epoca delle scelte”.
Whale estrae il succo dell’epica di Mary Shelley, ne disarmonizza il contesto e lo riallaccia al suo presente, quell’anteguerra non pacificato agli inizi di una rivoluzione industriale sconvolgente, di una modernità che passa e travolge le spoglie di un passato morto e decomposto. Whale mette in scena con Frankenstein la lotta fra la filosofia positivista e modernista che pensa di poter creare anche la vita con l’aiuto della scienza, e le barriere di ordine morale ed etico che ancora vedono nella morte una naturale ed ineluttabile conclusione.
Con la consapevolezza della sua diversità mostruosa, la Creatura è il protagonista assoluto del film, facendosi carico di un aspetto drammatico che supera l’orrore del momento in cui mette in luce il suo essere vittima di scelte altrui. Il mostro è allora il dottore creatore.
Con la forza del capolavoro, Frankenstein mette a dura prova la coscienza di una nuova età, facendo provare la stessa sensazione che i contemporanei avevano dovuto provare come testimoni della loro epoca, immersi e sommersi dall’industrializzazione capitalistica e nello sviluppo delle industrie pesanti. E come in Metropolis di Lang, nel film di Whale viene riprodotta l’angoscia dell’essere umano verso l’avanzare della macchina agli albori della modernità, mentre si riversa sia la paura dell’uomo-massa (la Creatura è un insieme di pezzi di cadaveri, un puzzle di tante persone) sia l’ambivalente sentimento per la meccanicizzazione, intrappolato fra il timore della tecnologia e la compulsione onnipotente e perversa che affascina l’uomo, sempre alla ricerca di qualcosa che sappia raffreddare ogni sua “vergognosa naturalezza”.
La testa della Creatura (geniale e premiato make-up ad opera di Jack Pierce) era squadrata, evocando in questo modo il tormento di un’antica coscienza costretta ad occupare un paradigma nuovo, “un cervello tondeggiante legato malamente in un cranio a configurazione meccanica” (David J. Skal). E per completare l’opera, a coronamento anatomico della fronte sporgente (regressione nella scala evolutiva) paradossalmente unita alla concezione futuristica di un uomo completamente meccanico, ci fu poi il bullone. Un particolare che da solo riassumeva il mito di Frankenstein: una stilizzazione che “dislocava, sopprimeva e ridefiniva gli umani per conformarli al mondo delle macchine” (Max Ernst).
La valenza populisitica della Creatura si rivitalitizzerà, parecchi decenni dopo, sotto la regia di Terence Fisher, filosofo pessimista, che con il suo film su Frankenstein indagherà sui mali di una società moderna sempre più cinica e spietata. L’esposizione della perenne situazione di degrado dell’individuo povero e la condanna di una borghesia ipocrita e falsamente moralista rendono inevitabile l’identificazione della infelice Creatura con un popolo sfruttato, sottomesso, emarginato e abbrutito. Uno stato di sofferenza che inevitabilmente sfocia in lampi violenti e vendicativi, attimi di effimere e improvvisate rivincite.
Freaks (id., di Tod Browning, 1933)
A livello strettamente cinematografico, Freaks è un’opera che non risente assolutamente del trascorrere del tempo: la regia di Browning (come invece non sarà per Dracula, film narrativamente inevitabilmente lento e sonnecchioso) è svelta e piena di trovate. E anche se la sua macchina da presa si muove all’interno di codici stilistici contemporanei, riesce a non essere mai statica anche grazie all’effetto straniante per l’uso , come si è detto, di veri fenomeni da baraccone come attori. Certo, ad un livello strettamente di sceneggiatura, la storia non riserva grossi scarti o colpi di scena, ma scorre via liscia e delinea un’atmosfera e un’inquietudine costante.
Freaks vede la luce nel 1931; poco tempo dopo, (quasi) tutte le copie del film furono bruciate; perché Freaks è un film -se non il film- maledetto, e ancora oggi un’esperienza non comune. Non risulta difficile quindi credere che negli anni ’30 lo scandalo che venne dal film (nonché il suo contemporaneo, clamoroso, flop) fu l’inizio della fine per il regista.
Nell’anno delle Piccole donne Charles Albert “Tod” Browning, autore del leggendario Dracula con Lugosi, creò, magari al di là delle sue stesse aspettative, un’opera terribile, non solo per la messa in scena di mostruosità reali, e forse neanche per la cruda analisi sociologica che molti hanno voluto vederci (i “mostri” sarebbero in realtà i “normali”, un tema ora non del tutto desueto ma che ottant’anni fa faceva di certo scalpore).
Il cinema, come Browning, aveva iniziato la propria carriera come attrazione da fiera, una curiosità ai margini dello spettacolo tradizionale. In Europa infuriava una grande e grossa guerra, che distruggeva e ricreava l’ordine umano: il cinema e il circo sarebbero sopravvissuti al massacro, ma avrebbero sviluppato nuove psicotiche forme di reazione ad un paesaggio di morte di massa. Anche per Browning cominciava a delinearsi la visione di un oscuro nuovo spettacolo che lo avrebbe attirato con la potenza dei circhi viaggianti: un circo cinematografico di paura e ombre, provenienti dai recessi del sarcofago dell’Io. Freaks venne quindi posto dalla censura in un’ibernazione forzata per lungo tempo, ma finì per avere sull’immaginario un impatto pari alle altre creazioni analoghe del 1931.
Rovistando in mezzo a questo carnevale di paura e mutilazione durato dodici mesi e senza precedenti, troviamo quattro archetipi che si ricombinavano agevolmente, fiorendo nelle coscienze di massa in reazione al trauma della Grande Depressione. Contenevano metafore evidenti e magari involontarie di conflitti economici e di classe: Dracula, capitalista sanguinario, emigra dalla Transilvania dopo averne prosciugato i contadini; il borghese Dottor Jekyll sfrutta e sopprime una donna delle classi alterne; i Freaks vivono una competizione sociale sbilanciata; e il mostro di Frankenstein è un triste simbolo per un esercito di lavoratori abbietti e abbandonati.
Quell’anno era, socialmente, un periodo di sterilità desertica e di castrazione economica. Ancora, non sorprende che i mostri coevi fossero quindi incentrati tutti intorno a fantasie di forme “alternative” di riproduzione: Dracula sfuggiva il sesso convenzionale preferendo i colli, Jekyll si sdoppiava come un’ameba, Frankenstein assemblava pezzi di morti, mentre i Freaks rafforzavano la corrente sotterranea di rifiuto del sesso, dimostrando gli eventuali risultati orrorifici di un accoppiamento normale. Il confronto delle masse nel 1931 con maschere terrificanti, e l’incontro melodrammatico e visionario coi paradigmi riproduttivi, avevano molti tratti in comune con un classico rituale di iniziazione. La Depressione fu in definitiva per milioni di persone un rito di passaggio ad un regno di Terrore sconosciuto.
Ma la mentalità dello spettatore dell’epoca non era preparata ad un’opera tanto avanzata teoreticamente e dal punto di vista concettuale e visivo. Nulla è peggio di un orrore reale, e la gente scappava via dalle sale dopo svenimenti e scene isteriche, nonostante la censura lo avesse tagliato invasivamente, snaturandolo dei suoi connotati caratterizzanti.
Parlavamo sopra delle assonanze tra cinema e circo: il circo di Browning si disvelava con forza travolgente come luogo dell’esibizione pura e del mondo raccontato per segni forti nelle chiavi estreme del melodramma e della farsa. L’arena strabiliante dell’Incredibile ma Vero ha sempre e comprensibilmente affascinato registi di temperamento artistico, ma per quanto riguarda Browning il rapporto con il circo va ben al di là di una favolosa metafora o di una vaga fascinazione, costituendo il vero e proprio cardine del suo percorso formativo.
Diretto senza il minimo compiacimento con uno sguardo freddo e asettico, questo “film di carne e desiderio, di peccato e violenza” (Lourcelles), è un unicum nella storia del cinema, e riesce ancora oggi a disturbare con i suoi dubbi morali e sessuali. E il vero orrore di Freaks è nel fatto che sia assolutamente senza pietà, per nessuno. Se Cleopatra ed Ercole, nella loro avidità, non lasciano spazio a scrupoli, i poveri esseri deformi esposti nel vaudeville alla morbosa curiosità del pubblico attento e deliziato assieme al monstrum, suscitano sì “commozione” in un certo senso etimologico, ma non sono per niente i “buoni”, non sono bambini innocenti amati dagli dei, non c’è spazio nell’universo di Browning per spiegazioni edificanti. Hanno sì un codice di onore e di lealtà, aperto al’accettazione, ma senza perdono.
Il confronto delle masse, nel 1931, con queste maschere terrificanti, e l’incontro melodrammatico e visionario con paradigmi riproduttivi,, avevano molti tratti in comune con il classico rituale d’iniziazione. La Depressione fu in definitiva per milioni di persone un rito definitivo di passaggio verso un regno di terrore sconosciuto. Dopo una fioritura lunga un decennio, i mostri erano in libertà.
I terrori della Guerra
Si sa, l’America non visse (ovviamente) gli orrori della Prima Guerra Mondiale. E se nelle scorse pagine ci siamo resi conto di come l’Europa fronteggiò, e annegò, nello strascico di paura traumatizzante della Grande Guerra, facciamo un salto in avanti e passiamo al Secondo Conflitto, che sconvolse per sempre il mondo, USA compresi, con il suo finale all’idrogeno. Negli Stati Uniti la nuova prosperità degli anni ’50 fu conquistata in cima alla più grossa pila di ossa umane della storia.
La Seconda Guerra Mondiale aveva mietuto più di 40.000.000 fra soldati e civili, introducendo due latori di morte (il campo di sterminio e la bomba atomica) che fecero seriamente vacillare la mente umana e la sua razionalità, incapace di assorbire appieno e in fretta il nudo volto dell’orrore di metà secolo. Senza contare che cinque anni dopo la fine dei combattimenti, i cittadini a stelle e strisce si trovarono coinvolti in una nuova, psicologicamente sfiancante battaglia in Corea (definita dallo Stato come una semplice “azione di polizia”). Non c’è da stupirsi se, davanti ad uno scenario tanto aspro, l’uomo comune non affrontava direttamente l’invasione militare e l’annichilimento scientifico, ma preferiva “gettarsi” nelle beghe maccartiste oppure in quelle ancora più “rassicuranti” della ricerca degli UFO che iniziavano ad apparire (?) nel cielo.
E’ in questo frangente che i fumetti, specie quelli sanguinosi e sensazionalistici, trovarono il loro sviluppo massimo, come la casa editrice Entertaining Comics capiì bene, ampliando a dismisura il suo parco testate rosso sangue e varando serie che fecero letteralmente storia. Pensate che nel 1959 venivano stampati qualcosa come 50 milioni di albi a fumetti (letti poi principalmente da adulti, anche e soprattutto militari); come osserva ironicamente Skal, “gli americani leggevano di più i fumetti piuttosto che il Reader’s Deagest o The Saturday Evening Post”.
Danse Macabre: l’orrore dalle stelle alle stalle
“Je fis de Macabre la danse,
qui tout gent maine à sa trace
ea la fosse les adresse”
(Jean LeFebre, Respirt de la Mort)
La Danza Macabra, popolare nel Medioevo, è detta anche “Danza dei Maccabei”, eroi biblici perseguitati da Antioco Di Siria, celebrato con riti in memoria dei defunti che prevedevano danze allegoriche, ed il cui culto è avvicinato a quello dei morti. La parola macabro (=funebre e grottesco) deriva dal francese macabrè, con origine etimologica incerta; ma l’origine della Danza Macabra resta a tutt’oggi un piccolo mistero, sebbene vi siano numerose teorie in proposito. Nel Medioevo serviva come memento mori per i potenti, come conforto per i poveri,e come ammonimento a condurre una vita cristiana.
Nel cinema, la danza macabra più celebre e bella è sicuramente quella raffigurata dal Maestro Ingmar Bergman alla fine del suo Settimo Sigillo. Nel Medioevo, quindi, il cataclisma della peste medievale aveva fatto diventare la Danza Macabra un motivo culturale dominante. L’immaginario dei fumetti horror nell’America postbellica presentava un’estetica popolare singolarmente analoga.
Questa sorta di nuova danse macabre traeva profitto da un’arte grafica facilmente riproducibile per diffondere immagini di corpi putrescenti: e la satira sociale, una componente forte dell’antica Danza Macabra, era fondamentale anche nel fumetto horror. La morte, sotto forma di zombie, di cadavere in vita o in movimento, era gettata in faccia al lettore in continuazione, e rappresentata come una forza livellatrice, che si faceva beffe della vanità umana e dell’avidità materiale.
Il pubblico postbellico era quindi molto interessato ai mostri, ma il leggiadro Dracula della pellicola di Browning, o la cupa e malinconica Creatura di Frankenstein non erano più un’immagine così terrificante per il moderno frequentatore di cinema, che aveva stampate in testa le immagini di morte e distruzione di massa dei lager o di Hiroshima. Le spaventose violazioni dei limiti a cui il mondo aveva appena assistito resero necessaria una sorta di evoluzione dell’immaginario fantastico e orrorifico, così fortemente bisognoso di avatar in grado di fungere da oggetti catartici per il vero orrore della vita reale. Negli anni ’50 i mostri erano allora essenzialmente di due tipi: mutanti, giganteschi o “semplicemente” mostruosi, risultato lampante di esperimenti atomici; o invasori alieni, sostanzialmente dediti a qualche tipo di lavaggio del cervello o controllo ideologico. Questi nuovi mostri personificavano la Bomba e al contempo la Guerra Fredda.
L’Alieno, o anche solo il mutante, erano esseri ripugnanti che di punto in bianco si presentavano per bussare alla tua porta, portando l’orrore e la paura “delle stelle” fin dentro la sacralità della casa “nelle stalle”.
L’Esperimento del Dr. K (The Fly, 1958)
Insinuante e misterioso, L’Esperimento del Dr. K è stato prodotto dalla Fox on una larghezza di mezzi inusitata per l’epoca. E ribalta lo stereotipo dello scienziato pazzo ambientando la vicenda nella società borghese, in una famiglia che improvvisamente viene travolta e distrutta dal progresso scientifico.
E non si pensi che la data di nascita (1958) attutisca l’orrore di alcune sequenze: diventato una sorta di punto di riferimento, quando non un cult (l’essere che beve, la scoperta della mostruosità di Andrè), il film adopera alcuni suoi limiti come la “normalità” della situazione iniziale e le imposizioni della censura (del tristemente famoso codice Hays) per acuire il senso di orrore e angoscia, nel momento in cui non mostra l’ibrido uomo-mosca ma lo nasconde sotto un inquietante drappo nero. Va sottolineato come il film sia stato rifatto dal genio di David Cronenberg (nell’omonimo The Fly, La Mosca anche in italiano, stavolta) che ha però preferito porre l’accento sulla parte romantico-drammatica della vicenda, trasformando così il film in un potente melò che accentua le ossessioni del suo regista (la mutazione).
Prendendo spunto da un racconto di George Langelaan, riscritto dal romanziere James Clavell, il regista Kurt Neumann mise in scena, nel 1958, uno dei film di genere fantascientifico più atipici nel panorama cinematografico. L’Esperimento del Dr. K (tradotto barbaramente in Italia dall’originale The Fly) è una storia che mischia elementi del giallo (c’è un caso da risolvere) a quelli del noir (il perché di un omicidio), fantascienza (una mutazione e il progresso) ed il melò (una moglie innamorata ed impotente).
Alcuni ci vedono, a torto o a ragione, una critica cattolica al senso della vita (“Sarebbe buffo se la vita non fosse sacra”), mentre il film si conclude con una più generale e moralistica critica alla scienza (sul finale, Francoise dice: “la ricerca della verità è il lavoro più importante, ma anche il più pericoloso”). Quello che però è più importante osservare, seguendo il filo logico di una lettura socio-politica, è che The Fly innesta il trauma post-atomico nella quotidianità. Il mostro, la mutazione, sono facili metafore di una scienza che ormai sovrasta la sovranità stessa della vita, adesso incapace di salvaguardare i suoi stessi confini, invasi e distrutti dalla Guerra, dalle armi di distruzione di massa, dall’uso perverso che l’uomo ha imparato a fare della tecnologia.
La Bomba aveva distorto e amplificato il terrore culturale. Ma strettamente correlata a quella per la Bomba era la Paura Rossa, e la diversità ideologica diventava spesso extraterrestre: i mostri che controllavano le menti sostituirono allora i Comunisti in diversi film, e tra tutti il migliore è di certo L’Invasione degli Ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956).
L’Invasione degli Ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956)
Diciamo subito che il film non è tra i capolavori di Siegel, grandissimo artigiano del cinema a cui si devono opere monolitiche come Fuga da Alcatraz, Chi ucciderà Charley Varrick?, Ispettore Callaghan il caso Skorpio è tuo. È infatti in queste pellicole appena citate che Siegel dà il meglio di sé, anche grazie al binomio formidabile con Clint Eastwood che con le sue espressioni granitiche contribuì non poco a definire in maniera assoluta la poetica e l’universo “maschio” del regista. L’Invasione degli Ultracorpi è invece, come vedremo a breve, un racconto dalle implicazioni molto più stratificate e sofisticate: temi come la Guerra Fredda, il conformismo e la paura del nucleare sono insinuati nelle pieghe di un classico della fantascienza (peraltro rifatto pessimamente nel 2007, con Nicole Kidman).
Ad ogni modo, la facciata patinata del film è perfetta, volontariamente o meno, e la fattura classica dà la forza a tutta l’opera per resistere all’usura del tempo, portando avanti negli anni i sottotesti specifici.
Il peso del film sta nel suo incedere elegante, che fa perdonare anche le (ovvie) ingenuità negli effetti visivi (i baccelli e la creazione dei replicanti, trovate ingegnose ma poco d’effetto): unico grande neo è la melassa che cola e sbrodola nel momento in cui, forse preoccupati per il lato segretamente politico del film, tutti gli attori si mettono a pontificare sull’Amore e sulla mancanza dei sentimenti dei baccelloni, nonostante l’inserimento in sceneggiatura di un passaggio chiarificatore degli intenti: “Dobbiamo lottare per restare noi stessi. Molte persone perdono a poco a poco la loro umanità senza accorgersene… non così, dalla sera alla mattina, ma la differenza è poca. Ci si indurisce il cuore, giorno per giorno, solo quando dobbiamo lottare per difendere la nostra umanità ci accorgiamo quanto valga, quanto ci sia cara.”
Caratteristica fondamentale e fondante dell’horror anni ’50 è comunque la forte ambivalenza, il forte sentimento di repulsione che lega il Grande Schermo nei confronti del Benessere e delle esili sicurezze materiali e di identità sociali.
Gente che muta, che viene rapita, sostituita, radicalmente cambiata: è tutto un continuo, incessante, sconvolgente e disorientante mutamento, mentre la cinematografia horror scolpiva un ritratto in filigrana dell’America, sonnecchioso ma tremendamente pericoloso dietro le facciate solari e splendenti delle villette di periferia. Fu la rivista “Playboy”, nel 1959, a dichiarare apertamente e finalmente che l’horror era divenuto una forza economica propulsiva, con ben 5 film prodotti nel 1957, 75 nel 1958, quasi 100 nel 1959.
La notte dei morti viventi (Night of the living dead, 1968)
L’Alba dei morti viventi è, innegabilmente, un film che ancora oggi, a svariati decenni di distanza, mette ancora paura come pochi. Nelle numerose repliche a notte fonda che vengono tuttora programmate dalle reti tv, non c’è spettacolo che non strappi almeno un brivido: questo perché la regia di Romero (oggi molto più teoretica e meno narrativa, diciamo spesso molto più di testa che di pancia) riusciva ad essere fresca e tradizionale, riusciva a rompere gli schemi pur rimanendo nell’ambito di un cinema prettamente narrativo. Il film, lungo l’ora e mezza, non ha un attimo di cedimento, anzi procede per gradi (quasi come un moderno game) alzando sempre di più la posta. Il posizionamento della camera -spesso con inquadrature dal basso in alto, o sghembe, o di traverso- trasmette ansia e insicurezza, il bianco e nero soffoca ogni sequenza e la satura di un manicheismo scenografico tutto puntato su ombre e luci, molto moderno e molto psicogeno. Fortunata, poi, la scelta di attori non professionisti o quantomeno non conosciuti, per meglio giocare con il loro stesso senso di spaesamento. E a vederlo oggi, non sembra neanche avere cinquantaquattro anni sul groppone…
Liberamente ispirato al racconto I Vampiri (anche noto come Io sono Leggenda), di Richard Matheson, il primo film di Romero riesce furbescamente a capovolgere a suo favore la povertà di mezzi con cui viene realizzato; oltretutto, così come nasconde l’orrore a favore dell’intuizione dello spettatore (che si trova costretto a dover immaginare quello che si cela nell’ombra, con esiti -ovviamente- più spaventevoli), cela dietro un’atmosfera claustrofobicamente lugubre un’ironia sferzante, che molto spesso si trasforma in satira, poi sarcasmo fino all’invettiva sociale.
Come sempre succede quando un’opera d’arte mette il dito nella piaga più purulenta della contemporaneità, Night of the living dead non fu accolto benevolmente dalla critica (fu etichettato come “film spazzatura” e “sciocco”): certo, i sanguinosi effetti speciali erano una novità, e la crudezza di alcune situazioni, nonché la mancanza di un happy end, non facilitarono le cose- ma tutto si ricollega con il sostrato politico.
E’ tutta una serie di tabù visivi che viene infranta, mentre si gioca sul ribaltamento dei canoni del film di paura: si mette in scena una madre che uccide la figlia mangiandola, un fratello morto che assale la sorella in preghiera sulla sua tomba. L’avrete intuito: è la famiglia che si dissolve sotto i colpi di ascia di Romero e dei suoi zombi- la totale decadenza delle istituzioni e della loro incapacità di sorreggere l’intero sistema, e tantomeno di portare qualcosa di buono (i morti che mangiano i vivi = il passato che fagocita il futuro, non c’è più speranza). Un discorso sicuramente forte, che riflette l’ondata di violenza che aveva investito gli Stati Uniti in quegli anni. Eppure, al di là del senso etico dell’operazione, ciò che indispettì la critica -e più in generale l’America- fu il fatto che sotto mentite spoglie Romero lanciava un potente je accuse contro il Vietnam e contro la politica espansionistica statunitense (corsi e ricorsi storici…).
Diciamolo chiaramente: La notte dei morti viventi è un film sovversivo, ferocemente critico contro la Guerra Fredda e il razzismo presente negli U.S.A. Elliot Stein, del settimanale The village voice, vide il film come il totale dissenso alla partecipazione in Vietnam, e scrisse: “Il film non è ambientato in Transilvania o in Pennysilvania- perché era il centro degli Stati Uniti ad essere in guerra, e gli zombie sembravano un grottesco riferimento all’allora violento conflitto asiatico”. Sumiko Higashi sosteneva concordemente che “anche se non sono presenti vietnamiti nel film (…) essi costituiscono una presenza assente che non può essere compresa analizzando la trama”. Evidente il parallelismo del bianco e nero usato da Romero con quello utilizzato dai cinegiornali dell’epoca, con le loro operazioni di rastrellamento e gli elicotteri. E gli zombi finiscono per essere non vittime di un’epidemia misteriosa, ma tutti i ragazzi e gli adolescenti mandati in Guerra che muoiono per poi ritornare da chi in quella guerra ce li ha mandati, tutte le vittime di un conflitto che ancora oggi pesa sulle coscienze americane e con il quale forse nessuno riuscirà mai a vivere pace.
Sebbene lo stesso regista abbia sempre negato di aver scritturato Duane Jones solo per il fatto che fosse nero, il personaggio che interpreta (l’unica vera figura eroica nonché l’unico afroamericano del film) e la sua fine tragica non possono non riecheggiare i non troppo lontani omicidi di Martin Luther King e Malcom X (Mark Deming). Come si fa a non sottolineare che l’eroe nero sopravvive agli zombi ma viene trucidato da una pattuglia di individui del Sud degli Stati Uniti? E’ comunque tutto il cinema di George A. Romero ad essere un’allegoria sociale dirompente, mentre rappresenta l’Apocalisse dell’America più profonda, dove le paure ancestrali trasformano in incubo le icone della società dei consumi. Nella Notte dei morti viventi non viene mai utilizzato il termine zombi, Romero preferisce usare parole come contagiati, epidemia, malattia. Ciò non toglie che, prima del suo film, gli zombi erano tutt’altro: gli antecedenti etimologici – White Zombies, di Victor Halperin, 1932, e I walked with a zombie di Jacques Torneur, del 1943- avevano a che fare con stregoni e vodoo.
Fu quindi lui a creare queste creature decedute che per un misterioso virus (alieno? artificiale? naturale?) si risvegliano, e diventano cannibali. Impossibile fare anche un brevissimo excursus in tutto il materiale che al cinema ha portato l’impronta degli zombi: al di là della loro iniziale natura politica, molto spesso sono stati poi utilizzati per la portata orrorifica che rappresentavano. I morti viventi che escono dalle tombe per depredare e letteralmente cannibalizzare un mondo evoluto che è andato avanti sulle loro spalle diventano con il cinema un mostro stereotipizzato, dall’incedere lento ed incerto, dalla carne putrefatta e dalla fame insaziabile.
Una significativa variazione l’ha portata solo recentemente Zack Snyder (il regista di 300 e del prossimo venturo Watchmen, che si è quindi specializzato in “cinecomics”), unico regista ad aver provato a girare il remake di Dawn of the living dead riuscendo a non esserne sopraffatto. Perché se Romero condannava il consumismo, Snyder provocatoriamente e in maniera sottile lo celebra: se il film originale era realmente apocalittico, livido, il rifacimento di Snyder è pre- e post- apocalittico insieme.
E’ pre-apocalittico nei titoli di testa e nei dieci minuti di prologo, con svariati indizi di un’apocalissi incombente e la voluta noncuranze dell’uomo; ma è post-apocalittico quando raccoglie tutti i semi dell’originale e li riaggiorna, li rimasterizza, li riassembla, montandosi come una variazione videoludica, moderna, tremendamente contemporanea. E gli zombi, per la prima volta le loro caratteristiche deragliano significativamente dal binario su cui li aveva impostati Romero: se quelli erano lenti e indo/lenti, sorta di homeless rivoluzionari e un po’ storditi, questi si modellano sul cittadino medio, un po’ incazzoso di default, che ti investe sulle strisce per non perdere tempo, che ti suona se passi con il rosso, con l’orecchio a forma di cellulare, che se ne frega di tutto (Bittani, duellanti). Ma c’è una cosa che non cambia: l’intuizione di base, che ripete sempre la stessa, ormai noiosa verità. I mostri siamo (ancora una volta, e per sempre) noi.
L’ultima casa a sinistra (Last house on the left 1972)
Last House… è puntellato da sequenze chiave che racchiudono tutto il nocciolo del primo cinema craveniano. Una dissacrante ironia che non risparmia niente e nessuno (neanche il cinema, vedi gli accenni a Cannibal Holocaust), una sferzante vena polemica contro tutto ciò che è pulito, sterile, inopportuno ai fini di un’esistenza vera, verso un mondo che ti costringe ad immergerti e a vivere secondo regole imposte.
È ovvio che, in termini strettamente tecnici, il film risenta dell’età e soprattutto dell’inesperienza di Craven dietro la macchina da presa: ma se nel prosieguo della sua carriera il regista renderà questa sua (costruita) verginità di sguardo una vera e propria cifra stilistica e teoretica, in Last House si risente di alcuni buchi strutturali in sceneggiatura, di un mancato equilibrio nell’asse narrativo, di una certa artigianalità ontologica. Eppure, quasi fortuitamente, sono proprio queste coordinate a restituire al film quel senso di horror ruspante e rurale che negli anni diventerà proprio la sua marca distintiva: unito, ovviamente, alla gratuita brutalità di alcune scene, ancora oggi sinceramente insostenibili agli occhi di uno spettatore non proprio smaliziato.
Efferatezza dovuta non soltanto e non solo al sangue (pur presente in maniera copiosa, e in alcune scene ormai cult, come il “fregio” a pelle sul decolletè di Mary fatto da Krug, divenuto ormai parte del’iconografia horror), ma anche e soprattutto all’accostamento, azzardato ma vincente, che Craven fa di alcuni opposti. Prima di tutto, nella scelta delle musiche.
Forse anche per sottolineare l’aspetto ludico della dimensione cinematografica, e i toni grotteschi della vicenda, Craven non utilizza la solita colonna sonora fatta di sussulti, archi e suoni violenti, ma preferisce sottolineare le sue immagini, anche quelle più estreme, con la semplice musica country tradizionale statunitense: che da una parte incarna perfettamente lo spirito da vecchia provincia e vecchia borghesia che i coniugi Collingwood interpretano, dall’altra invece fa da effetto alienante alla brutale, eccessiva violenza psicologica e fisica che la banda di Krug opera su gente, fondamentalmente, innocente. Lo sverginamento di Mary, l’accoltellamento di Phillis, la vendetta dei coniugi: sono tutte scene che rimarranno nella memoria cinefila, se non per la loro valenza puramente artistico-cinefila, quanto per la definitiva perdita di innocenza del cinema dell’orrore.
Il film (del 1972, prodotto dallo stesso Sean Cunningham che dirigerà il capostipite di una delle più longeve saghe slasher, Friday, the 13) rappresenta la seconda opera di Wes Craven (la prima è Together, inedito in Italia), e anche l’inizio del suo viaggio nel buio della mente. Last house.. è una sorta di remake di genere del bergmaniano La fontana della vergine, in origine una riflessione agghiacciante sul tema della vendetta -una ragazza incontra dei balordi che la stuprano e la uccidono; il padre, scoperto lo scempio, si trasforma in un giustiziere implacabile (anche l’italico Aldo Lado si cimenterà con questa trama, firmando il bel L’ultimo treno della notte): Craven declina la storia di giustizia privata secondo la sua personale sensibilità -la sua regia è ancora acerba, ma già risente fortemente delle tensioni sociali del suo paese.
Non si sono spenti ancora gli echi della guerra in Vietnam (e non lo faranno, nelle influenze degli artisti, per tanto tempo ancora), e siamo in pieno periodo di violenza urbana: ma se Romero, con i suoi zombi, accentuava i sensi di colpa del cittadino, e puntava il dito su una classe dirigente totalmente disinteressata sul destino dei suoi agnelli mandati al macello, Craven anticipa invece una direzione che sarà poi approfondita da Tobe Hooper, e lungamente delineata letterariamente da Stephen King, ovverosia quella dell’horror rurale.
Va sottolineato come questi innovatori (Craven, Hooper, Romero) non abbiano avuto un orizzonte progettuale unitario, ma abbiano semplicemente deciso di scagliarsi contro le regole del cinema in primis, per scardinare le regole prestabilite che volevano i film bellini, puliti, portatori sani di una morale cristallina. E’ una conseguenza (voluta o meno non ha importanza) che in questa maniera il pubblico si sia accorto che esisteva un’altra realtà oltre a quella ripulita e opacizzata da un gusto reso ovattato da criteri vecchi di decenni: sbattendo in faccia alla gente frattaglie, gente senza faccia e mannaie sporche di sangue, i registi della rivoluzione degli anni ’70 hanno risvegliato tutta una serie di problematiche che hanno dimostrato come l’orrore fosse preesistente alla civiltà e alle regole, e connaturato con l’uomo.
Non è la classe politica la colpevole; non è il progresso, non lo sono le guerre. Riportando il racconto ad un punto zero, Craven e compagnia dimostrano che l’unico colpevole dei suoi peccati è l’uomo, la sua natura e quello che si è acceso dentro di lui con lui. Sta qua l’intuizione dell’horror rurale di cui parlavamo: mescolando la mitologia americana con quella classica, Craven rinuncia alla memoria a breve termine, quella civile, e punta al grado zero del racconto. Laddove Romero avrebbe scandagliato le differenze fra le famiglie “di città” e quelle “di campagna”, Craven punta alla polarizzazione propria della fiaba.
I boschi, i deserti del successivo Le colline hanno gli occhi, non sono scenari dell’anima, ma echi di memoria antropologica e di una dannazione senza peccato. La verginità, la primitività selvaggia di questi posti accompagna la deriva esistenziale dei personaggi fino a scoprire, con raccapriccio, che sarà quella stessa primitività ad inghiottirli nell’ultimo fotogramma. L’orrore di scoprirsi assassini e cannibali.
Ormai è chiaro come il senso politico del cinema americano sia riconducibile al senso etimologico del termine: se è vero che politica viene da polis, il nucleo primo della società greca e umana altro non è che la famiglia. Ed è proprio la famiglia al centro delle riflessioni dell’horror americano: da Freaks (la famiglia allargata), al Dr. K (marito e moglie), alla Notte dei Morti viventi (genitori e figli), a L’ultima casa a sinistra (padre e madre), fino a continuare poi con Non aprite quella porta (nonni, genitori, figli e nipoti), Le colline hanno gli occhi (idem), e poi ancora Halloween (di Carpenter ma soprattutto di Rob Zombie: fratello e sorella), Nightmare (padre e figlia).
Da sempre quindi al centro della riflessione politica, sociale, psicologica: la famiglia è il primo nucleo nel quale l’individuo si forma, è quindi il primo passo verso la sua caratterizzazione, ed è il primo luogo dove l’individuo stesso viene corrotto o salvato o assediato o trasformato. La società americana, così puritana per gioco o per finzione, ha sempre anteposto ogni cosa alla sacralità del nucleo familiare, senza tenere conto se questo fosse materialmente idoneo o meno alla formazione di un ragazzo sano. E il cinema horror ha da sempre sottolineato e denotato questa profonda contraddizione, questa frattura insanabile fra ciò che si vorrebbe e ciò che non è, fra ciò che si vuole mostrare anche a costo di corrompere l’umanità nel momento stesso in cui viene a formarsi.
E i Collingwood sono la personificazione totale di quella maggioranza silenziosa che vota Nixon ed è favorevole all’intervento USA in estremo oriente, di quel fondamentalismo puritano con cui Craven, e tutti i suoi successori, vuole tagliare i ponti Krug e soci ne sono solo la latente degenerazione.
Non aprite quella porta (The texas chainsaw massacre 1975)
“Il film che state per vedere è un resoconto di una tragedia capitata a 5 giovani, in particolare a Sally e a suo fratello handicappato Franlkyn: il fatto che fossero giovani rende tutto molto più giovani rende tutto molto più tragico. Le loro giovani vite furono spezzate da eventi così assurdi e macabri che neanche loro avrebbero pensato di vivere. Per loro una tranquilla pomeridiana estiva si trasformò in tragedia. Gli avvenimenti di quella giornata portarono alla scoperta di uno dei crimini più efferati della storia americana…”
Non aprite quella porta è una cesura. Stilistica, ancor prima che teorica. Nessun film “importante” come questo, narrativamente compiuto, prima dell’esordio di Hooper alla regia era stato tanto drastico con il mostrabile e con il mezzo cinematografico. Alla fine della visione di Texas Chainsaw Massacre nessuno spettatore potrà esimersi dal confessare di sentirsi scombussolato: e se il critico smaliziato non lo sarà per i contenuti, dovrà esserlo per forza per la biologia. L’occhio dello spettatore segue Hopper per gli striminziti 80 minuti di proiezione, e segue la sua macchina da presa a spalla che fa su e giù. Il mal di mare è garantito.
La furbata è chiara ma esemplare: non una soggettiva dell’assassino o dell’assassinato (a questo ci penserà poi il ben più teorico Carpenter, o anche il nostrano Argento) per una identificazione a livello psicologico; ma una più furiosa, selvaggia immersione nei posti dell’azione, come se una macchina del tempo potesse portarci sul luogo dove avviene l’omicidio, come se osservassimo da vicino lo smembramento dei corpi operato da Leatherface.
Il mockumentary nasce più o meno qui, come anche l’uso fatto per stordire lo spettatore e dargli un motivo d’immedesimazione in più. E poi, non ultimo, per coprire le magagne registiche: Hooper non era (e non sarà) un mostro di bravura registica, e la sua tecnica è appena sufficiente.
È invece la sua teoria implicita a renderlo pioniere e pionieristico: Texas Chainsaw Massacre è artigianale ma fiero di esserlo, sporco ma volontariamente, sbrindellato ma convinto. La telecamera sembra scivolare sui volti coperti e inzuppati ora di sudore ora di sangue, e quasi restituisce, con le sue inquadrature veloci e quasi frettolose, l’odore da bassa macelleria degli ambienti in cui Hooper sprofonda il suo incubo. Altrettanto riuscito (volontariamente o meno) il falso movimento di Leatherface, le sue movenze sgraziate e bovine, come la maschera di lattice usata per il nonno o il sangue di mucca che sprizza qua e là. Artigianato: ma di gran classe.
Dalle colline con gli occhi, dalle case a sinistra, dispersi per le strade dei territori dell’orrore ormai non si torna più indietro: Craven ha aperto un vaso di Pandora che non si potrà mai più richiudere. I rural gothic (o meat movie) hanno come protagonisti violenti bifolchi di campagna, famiglie di macellai cannibali e psicopatici rurali regrediti ad uno stadio feroce e primitivo.
Il paradigma di questo filone è stato scritto nel sangue non tanto da Craven (che quindi sembra aver semplicemente dato la stura all’argomento), ma da Tobe Hooper, con il suo Texas Chainsaw Massacre (in Italia Non aprite quella porta). Rimandando a più avanti per qualche importante sottolineatura sulle similitudini fra Hooper e Craven, nonché sul segno lasciato dai loro capolavori, c’è da dire che i rural gothic hanno una struttura narrativa che si rifà da sempre allo stesso modello: la vicenda inizia con un gruppo di ragazzi il cui viaggio viene interrotto quando incontrano il Male. Dopo quest’incontro, i giovani non potranno mai più riprendere le loro vite di prima, verranno mondati dai loro peccati e giudicati dall’Entità Superiore, scopriranno qualcosa che non dovrebbero sulla natura umana e pagheranno con la vita la loro eventuale impurità.
Lo scontro basilare inscenato da pellicole del genere (di cui, ripetiamo, è antesignano e modello base Non aprite quella porta) avviene quindi fra giovani, alternativi e rappresentanti dei nuovi ideali e della controcultura, e i redneck, bifolchi ignoranti e malvagi. La guerra in Vietnam aveva fatto aprire gli occhi al cittadino medio, mostrandogli l’abisso di perversione e cattiveria che è l’animo umano; e adesso stava ai giovani portare avanti nuovi ideali, che sopprimessero, che riuscissero a spazzar via i falsi miti istillati fin dal boom degli anni ’50 dai loro genitori, falsi miti spogliati fino alla loro essenza ipocrita e prevaricatrice dai morti in guerra.
Lo scontro che avviene nei meat movie è allora quello tra i nuovi valori che tentano di avanzare e gli antichi valori tradizionali su cui si è fondata l’America, oramai stantii e inutili. È una vera e propria Guerra Civile in cui purtroppo a soccombere sono prima di tutto gli hippies, metafora chiara di quello che avverrà nella realtà con la cirsi del movimento hippy e il riflusso successvio che porterà allo yuppismo degli anni ’80 (e all’edonismo reaganiano); ma anche i redneck, costrettia sparire a causa dell’urbanizzazione serrata e della incessante colonizzazione tecnologica.
Cannibalismo!
C’è poi un altro aspetto fondamentale, marchiato a fuoco nella famiglia di Leatherface: il cannibalismo. L’antropofagia di queste pellicole rimanda ad un paese che si sta autodistruggendo, tramite il progressivo impoverimento degli ideali politici e dell’istituto della famiglia. È l’America che mangia sé stessa, come la guerra in Vietnam ha divorato di nascosto le vite dei giovani. L’unica speranza risiede nei giovani, nel ‘viaggio iniziatico’ di cui si parlava sopra che intraprendono; viaggio mutuato da un altro genere tipicamente americano, il road movie. Giovani che si ribellano alle istituzioni inneggiando alla libertà, alla diversità di vedute, al comportamento sociale più disinibito possibile.
La strada in questi film è la salvezza, ma allo stesso tempo piena di insidie: l’unico modo per tentare di salvarsi è non fermarsi mai, né per mangiare ad un autogrill (Non aprite quella porta), né per dormire (Psyco), né per dare un passaggio ad un autostoppista (The Hitcher). Lo spazio arriva a configurarsi in base alla distopia tra la strada e la fattoria, la strada e il paese di campagna, tutto riconducibile al binomio città/campagna. La campagna è il luogo di conquiste, il luogo archetipale dello spirito self-made-man americano, deserto e selvaggio, primitivo ed amorale, dove le leggi vengono distorte ed estremizzate a uso e consumo dei villani locali e la proprietà privata è un dogma da disconoscere. L’errore dei giovani hippies, in definitiva, è proprio allora quello di invadere la proprietà privata, di ‘aprire quella porta’ scoprendo che dietro il solare paesaggio degli Sati del Sud si nascondono orribili segreti.
Halloween: in città arriva la follia
Halloween nasce prima di tutto da diverse influenze: gli insospettabili Peanuts di Schultz mescolati ad arte al boogey man, l’uomo nero della cultura americana, figura centrale della favola come genere letterario. E nella sua storia c’è un’evidente similitudine con certe ambientazioni di uno dei grandi geni del cinema, David Lynch: ma se questi cerca di squarciare le apparenze ed esporre la carne putrida e ele pruderie della (apparentemente) sonnacchiosa vita di provincia, John Carpenter vuole solamente introdurre un elemento di turbativa inspiegabile ed orribile.
In questo senso, Halloween fa capo alla tendenza seventies di creare mostri senza nessuna ambiguità morale (anzi, la ‘doppia faccia’ sembra appartenere soltanto ai ‘buoni’, che si dimostrano quindi non così tanto positivi), caratteri che sono la personificazione del puro Male. Woods dedica al soggetto dell’orrore vari capitoli del suo libro Hollywood 1986:dal Vietnam a Reagan, dove vede il mostro come un simbolo di ‘altri’: “l’ideologia borghese non può riconoscere o accettare, ma deve fare i conti i due mondi, quello dei ‘normali’ e quello degli ‘altri’: o respingendo questo e, se possibile, distruggerlo, o rendendo sicuro e assimilandolo, convertendolo nella replica di sé stesso”. La normalità è sempre in conflitto con il mostruoso, e il rapporto fra normalità e mostruoso costituisce da sempre l’oggetto essenziale dei film dell’orrore.
Dopo gli orrori del Vietnam, i giovani erano stanchi di facciate e facce sorridenti, stanchi di asservirsi ad ideali logori e vuoti. L’ondata della controcultura travolse tutto e tutti con la violenza di un urgano, tra rivoluzioni culturali, sommosse urbane e cambi di prosepttiva. Abbiamo visto come l’horror rurale abbia segnato la voglia di rinnovamento, il nuovo contro il vecchio: in parole povere, i valori delle nuove generazioni contro i vecchi. La libertà si tramutò presto, però, in anarchia, e la libertà di comportamento divenne abuso; sesso, droga e rock’n’roll erano sì una reazione, ma portarono ad affievolire la portata universale della ribellione. Come era successo in Europa e in America, per rispodnere all’’esuberanza’ della festa di Halloween, con le sue nottate di teppismo, la sua irrisione e la sua valenza anarchica, assistiamo allora in America ad una sorta di nuova ondata moralizzatrice.
Se i ‘giovani’ sono ormai senza freni inibitori, è bene riportare tutto alla normalità, ‘restaurare’ quei valori lentamente perduti, perché lentamente svuotati di significato. Qui si colloca l’opera, per molti versi reazionaria, di John Carpenter, che costruisce il suo primo film, Halloween, su una trovata geniale: il film è girato per buona parte in soggettiva, cosìcchè lo spettatore veda con gli occhi dell’assassino, identificandosi con lui, contemporaneamente spaventandosi di sé stesso.
Come dire: guardati dentro, e troverai un mostro. Arriviamo così alla doppia valenza di Halloween e della portata del suo personaggio, anzi dei suoi due personaggi principali, Michael Myers e Laurie Strode: la sessuofobia e la follia. Generalmente, Myers viene visto come uno psicopatico con un grave disturbo nella sfera sessuale; ed è così, ma il suo problema è inserito in un sistema più vasto, perché Michael diventa l’incarnazione del Male, il Male senza volto che si nasconde dentro ognuno di noi, ma le sue azioni, i suoi omicidi, hanno un altro significato.
Da una parte, c’è lui, che punisce persone ree di comportamenti sessuali eccessivamente disinibiti, legandosi ad un certo bigottismo di fondo dell’opera carpenteriana; dall’altra c’è Laurie, che si salva per la sua morigeratezza e continenza sessuale, ma riesce a sopravvivere anche perché di Michael è la sorella, soffre dei suoi stessi disturbi e quindi diventa un suo alter ego. Da una prospettiva freudiana, la nostra rekazione ambivalente con la paura deriva dal nostro atteggiamento verso la normalità: “centrale per l’effetto e il fascino dei film horror è il loro incubo come compimento della nostra volontà di distruggere le norme che opprimono noi e che la nostra morale condizionata dalla società ci insegna a riverire (…) In una società costituita sullamonogamia, ad esempio, ci sarà un enorme surplus di energia sessuale repressa, e ciò che è represso deve per forza sforzarsi di ritronare a galla.”
Da una parte quindi il bisogno di reprimere quello che viene stigmatizzato come sbagliato, eccessivo, peccaminoso: dall’altra, il bisogno di identificarci anche solo per un attimo con il mostro, l’eversivo, per il gusto di fare ciò che lui può (perhcè pazzo, mostruoso, al di fuori delle norme) e noi no. Ecco dove e come l’intuizione massima di Carpenter (la soggettiva dell’assassino) rapisce e affascina il sostrato psicologico dello spettatore, svelandone gli intimi desideri e dicendo molto sulla società nella quale vive. L’uomo si perde, si confonde con i suoi simili nella città e si richiude in casa per difendersi dalla follia, ma non c’è scampo, non c’è via di fuga. Il Male è dentro di te, e non lo sai. Se hai peccato, verrai punito. Se non stai attento, il Male vincerà. Siamo all’horror urbano: la repressione, l’ondata moralizzatrice e restauratrice degli anni ’80 è (ri)iniziata.
L’edonismo reaganiano
Quando Ronald Reagan entrò in carica, l’inflazione era all’11,83% e la disoccupazione al 7.5%. Il Presidente neo eletto cercò di risollevare l’economia americana da una lunga stagnazione, attraverso una teoria economica chiamata supply-side economics, (o “reaganomics”) basata sullo studio della Curva di Laffer: supponendo che quando le tasse sono pari a 0, le entrate sono 0, e che quando sono pari a 100, il gettito è sempre 0, in quanto ogni attività economica viene paralizzata, tra questi due punti deve esserci un punto in cui le entrate sono al loro massimo.
In quel punto aumentare e tasse farebbe paradossalmente diminuire le entrate. Reagan era quindi convinto che le tasse americane fossero troppo alte, e una loro diminuzione avrebbe portato ad una crescita delle entrate e a maggiori investimenti, con un effetto benefico per l’economia. Già nel 1981 quindi riuscì a far approvare una riduzione delle tasse del 25%. Eppure questa sua politica, assieme al pesante aumento della spesa militare e nonostante il taglio di 25 miliardi di dollari destinati alle politiche assistenziali, provocò un fortissimo aumento del deficit, che nel 1982 addirittura raddoppiò.
Certo è che gli Stati Uniti conobbero un periodo di crescita economica ininterrotto, perché la diminuzione delle tasse aumentò i consumi contribuendo così ad invertire la congiuntura economica. Dopo il 1990, il conflitto tra Iran e Iraq scatenò una crisi petrolifera, perché i due stati produttori di petrolio iniziarono a svendere petrolio, con conseguente abbattimento del costo dell’energia, facendo impennare il dollaro.
Sempre a proposito di Iran e Iraq: il secondo mandato di Reagan fu caratterizzato, oltre che dalla distensione con l’URSS, anche da una serie di scandali, tra cui l’Irangate, che portò alla luce la circostanza per la quale gli USA avevano segretamente venduto armi all’Iran nemico in cambio di alcuni ostaggi, rompendo il principio per cui non si tratta con i terroristi; e oltretutto finanziato un gruppo armato senza il consenso necessario del Congresso.
Politicamente: per i democratici, la presidenza reaganiana coincise con un periodo di regressione verso una società più equa e giusta, accrescendo il divario fra le classi sociali, mentre per i repubblicani fu un modello a cui ispirarsi, con la sua “rivoluzione conservatrice” che infatti George W. Bush tentò di proseguire.
Non va dimenticato che Reagan dovette affrontare anche la sindrome del Vietnam ancora ben presente negli animi degli americani, e per questo non rischiò di intraprendere azioni militari estese. Forse anche per questo, si limitò sempre e comunque ad interventi mirati, in grado di garantire un successo rapido, senza però badare alle conseguenze a lungo termine.
Ed è stato proprio questo il tratto distintivo della sua presidenza, in politica estera come in economia.
Fiducia, ottimismo, un futuro roseo: contro un divario sempre più grande fra le classi sociali (che oggi rende gli Stati Uniti unici al mondo sotto questo aspetto), e un’economia traballante. Sono le promesse di Reagan, fatte con il suo sorriso da attore, contro la realtà che gli USA dovettero affrontare. L’apparenza contro la sostanza. Perciò, di fuori, la casetta americana con giardino, erba ben coltivata, auto e valori: dentro, una discesa verso la povertà e fantasmi dal passato.
Il puritanesimo osteggiato da Carpenter, le frange rurali rappresentate da Hooper, l’America brutta sporca cattiva ma/e benpensante stracciata da Craven: tutto viene messo a tacere, e un sorriso si stampa dappertutto.
Nightmare- dal profondo della notte (Nightmare on Elm Street, 1984)
Nightmare on Elm Street è il postmoderno del cinema horror: nel film, i confini tra cose, persone, sogno e realtà vengono completamente, definitivamente annullati. Geniale omaggio a Bunuel (con inserti surrealisti: nel geniale incipit in forma di incubo, vediamo un agnello che sembra uscito dall’Angelo Sterminatore), è labirintico ed estenuante, nel continuo rincorrersi di sogno e realtà che rende la storia imprevedibile fino all’ultimo.
È anche, a tutt’oggi, forse il film più compiuto di Wes Craven: che prima e dopo non riuscirà a trovare lo stesso perfetto equilibri tra forma e sostanza, tra quello che viene mostrato e quello che viene sottinteso, tra la sua volontà cinefila e una storia di senso compiuto. Oltre ad essere poi il primo film con Johnny Depp protagonista, è un diluvio di citazioni, un fiume in piena di invenzioni visive e tecniche: Freddy Krueger, con i suoi omicidi ai limiti della tortura, fa mettere in moto l’inventiva e Craven diventa un novello Mario Bava.
Dalla stanza in continua rotazione, fino allo spruzzo di sangue dal letto – tante piccole, geniali trovate che danno a Nightmare un fascino che, da qui in poi, difficilmente si troverà. Senza contare la perfezione della sceneggiatura, che riesce a girare attorno ad un unico concetto base (la coazione a ripetere del sogno, l’indistinguibile confine fra realtà e finzione) istillando anche un senso raro di inquietudine.
Si, perché Nightmare fa anche paura: Freddy non è come Michael, angelo della Morte venuto a castigare i peccatori; né come Jason (Venerdì 13). Freddy è, almeno nel primo capitolo di questa nuova saga orrorifica, un’ombra che si aggira nel film mutando di volta in volta il proprio corpo insinuandosi nelle paure dei protagonisti e dello spettatore, avvolto dal mistero, un controluce del terrore. Fondamentale l’apporto di Robert Englund come attore (da sottolineare: neanche accreditato sulla locandina), che riesce a dare un volto per la prima volta caratterizzante ad uomo nero, insieme grottesco e spaventoso.
Dolori della Crescita
Come i Nirvana creano e distruggono il grunge, allo stesso modo Nightmare inaugura, e in qualche modo conclude, il new horror americano. Perché il film di Craven in qualche modo è il punto di arrivo estremo della commistione di genere e impegno politico, dopo gli straordinario inizi dell’Espressionismo tedesco e della sci-fi degli anni ’50: raggiungendo contemporaneamente una nuova sintesi che, alla radicalità estrema, aggiunge una dose non indifferente di cinefilia e metacinema.
In questo senso, Nightmare on Elm Street è uno dei prodotti del caso più riusciti e memorabile: abbiamo già visto come Craven (regista de Ultima Casa a Sinistra e de Le Colline Hanno gli Occhi) sia dotato di un talento naturale, che però non sempre riesce a mettere a fuoco. Eppure con questo film ci introduce in un mondo post-surrreale, in cui all’american dream si sostituisce l’american nightmare in modo definitivo (infatti, nel finale, Freddy Krueger non muore perché non può morire): è l’incubo definitivo della mediocrità borghese, figlia diretta della rinuncia all’attivismo dopo il Sessantotto.
Per questo il cattivo di turno, Freddy Krueger, non è soltanto un babau, il killer, il mostro dell’Inconscio, ma una sorta di padre bastardo sempre pronto a regalare l’eutanasia ai suoi figli. Il vero incubo dei protagonisti del film diventa metaforicamente quello di diventare come i loro genitori: è per questo che il cinema americano, dopo due decenni -e soprattutto dopo aver metabolizzato la paura dei padri e realizzato la repulsione verso il loro mondo- diventerà orfano, pur continuando ad andare alla ricerca del genitore perduto in un complesso di Edipo che ricrea sé stesso (come mostrerà in maniera esemplare Clint Eastwood nei suoi capolavori a cavallo fra i ’90 e il 2000).
Freddy Krueger è l’ambiguità di questa America fatta carne (marcia): e il sogno (incubo) è in realtà una prigione dove, alla stessa maniera che negli anni ’70 puritani faceva salvare solo chi praticava il valore della castità, sopravvivrà solo chi è veramente puro e pronto ad affrontare la vita in maniera decisa ed attiva, senza subirla.
Tutto questo trova ulteriore conferma, e simbolica metafora cinefila, nel discorso che Craven intraprende sulla mutilazione. Memore della Casa a Sinistra, e delle torture imposte a Mary proprio nel periodo post puberale, il regista parla del corpo e delle sue mutazioni attraverso le torture fisiche che Krueger impone alle sue vittime (tutte adolescenti).
Un discorso molto teoretico che rimanda alle eruzioni- mutazioni- erezioni adolescenziali. In un’epoca che ha fatto della cultura del corpo una religione (un edonismo politico ed estetico che rimanda alla malattia, e che verrà indagato meglio da Clive Barker, vedi capitolo successivo), Nightmare destruttura tutto e con un colpo di rasoio affetta la bellezza: anche perché è proprio il 1980, abbiamo visto, il decennio che vedrà la nascita del cinema decerebralizzato degli action-horror movie, quelli che impediscono allo spettatore di pensare e/o riflettere su qualsiasi cosa.
Confermando allo stesso tempo quello che ormai è storia nota: il cinema horror americano è una continua dissezione della famiglia americana, “luogo di repressione e inibizione, bubbone purulento nascosto dietro un’aura di rispettabilità” (R.Curti)
Hellraiser (id., 1987)
Elegante. Sontuoso in alcuni passaggi, levigato: Hellraiser di Clive Barker anticipa in qualche modo il melò sanguinario di David Cronenberg, anticipandone anche la sessualità malata e perversa, l’attitudine sadomaso e la concupiscenza verso il sangue e il dolore come forma estrema di piacere.
Raffazzonato in alcuni passaggi di sceneggiatura (Barker è uno scrittore, non uno sceneggiatore, e si sente); geniale invece in altri, perché quando si tratta di mettere in scena i mostri partoriti dalla fervida fantasia dello scrittore britannico, Hellraiser non ha rivali. Pregi e difetti di avere lo scrittore dietro la macchina da presa: il film non è riuscito in tutte le sue parti, ma ha dalla sua un fascino perverso e malato che viene sprigionato da ogni fotogramma, riuscendo a restituire quell’aria di inquieta e inquietante lussuria di cui trasudano le pagine di Barker.
Promesse infrante, paradiso perduto
Hellraiser è l’eccezione che conferma la regola: il film viene distribuito dalla New World britannica, il regista è inglese: ma il retroterra culturale si lega perfettamente all’evoluzione cinematografica che stiamo seguendo, e ci permette di passare agevolmente dagli anni ’70 ai ’90. Hellraiser è una cesura e un punto di incontro: se la politica mondiale degli anni ’80 è stata dominata dall’edonismo reaganiano, era ovvio che il decennio si chiudesse degnamente.
Coltivando come un cancro una malattia al suo interno, covando dietro l’apparente facciata sorridente e benestante delle famiglie un Male che stenta a morire ma che si nutriva del disagio celato dietro sorrisi e sogni. La fine del sogno è coincisa con Nightmare, nel momento in cui il Sogno Americano si è trasformato in un Incubo: ma è con Hellraiser che la malattia implode ed esplode, trascinando e bruciando nelle sue fiamme ogni cosa e ogni speranza, rivelando un mondo sempre più marcio e un regno oscuro.
Non per niente, come abbiamo detto, nel passaggio dagli ’80 ai ’90, la consegna prevede anche la nascita dell’AIDS (anticipato anche dal mostro strisciante di Alien, e ugualmente trasudante metaforica sessualità), un morbo che si trasmette attraverso il sesso.
Un lampo e l’inferno. È questo quello che resta dalla visione di Hellraiser, uno degli horror più cupi e angosciosi di tutti gli anni ’80, nonché esordio dietro la macchina da presa di Clive Barker, uno dei talenti artistici più genuini e originali degli ultimi scorci del ventesimo secolo, autore di libri (come Cabal e il suo capolavoro Apocalyspe), franchise di fumetti (per la Marvel Comics), e appunto regista.
Indicato più volte come l’erede di Stephen King, in realtà con il genio del Maine ha ben poco a che spartire, se non uno straordinario successo che nelle classifiche di vendita li vide testa a testa sul finire degli ’80: là dove King indaga nelle pieghe più insospettabili del quotidiano, scovando scorci del Male, Barker invece è più visionario, più apertamente lovecraftiano, aprendosi ad una dimensione altra dove a farla da padrone è il Dolore inteso come congiungimento con l’Infinito, con la Divinità.
Appunto da questa visione arriva Hellraiser, e soprattutto il suo personaggio simbolo, che in realtà nel film (nel primo, quello ad opera di Barker) appare pochissimo e non ha neanche un nome, ma è stato ribattezzato da fan e pubblico come Pinehead, leader dei Supplizianti. “Pinehead” per il suo look inconfondibile (ha il volto pieno di spilli geometricamente disposti sul viso e sul suo cranio calvo): “supplizianti” per l’attitudine che hanno, queste creature infernali, a cercare e donare quel lussurioso Dolore di cui parlavamo sopra.
E proprio Pinehead, con i suoi modi aristocratici e la sua capacità di rigenerarsi in una immutabile giovinezza è divenuto, con il trascorrere del tempo e delle pellicole e dei fumetti a lui dedicati, una vera e propria icona horror -forse una delle ultime, cronologicamente- al pari quasi di Freddy Krueger (Nightmare) o Michael Myers (Halloween), e persino una sorta di sex symbol per tante ragazze ammaliate dalla sua natura così ambigua e sfuggente ma perversamente se(n)ssuale.
La trasgressione: unita ad una identità sessuale ambigua, rende affascinante il personaggio partorito dalla fantasia di Barker, con un vestiario costituito essenzialmente da capi in pelle nera fasciante, catene e borchie, che rimandano direttamente ad un immaginario post punk e sadomaso, associando indissolubilmente dolore e piacere, eros e thanatos (il look dei Cenobiti è un mix fra la cultura sadomaso e i vestiti degli inquisitori spagnoli; e il titolo di lavorazione di Hellraiser era il bizzarro Sadomasochist from beyond the grave, ovvero Sadomasochisti dall’Oltretomba).
L’esperienza suprema, il superamento dei limiti: è questo che offrono i Supplizianti (chiamati ance Cenobiti) agli ignari possessori del cubo di Leviathan -altro oggetto feticcio nell’universo barkeriano: infatti tornerà come catalizzatore di umanità varia e dolente, mentre intorno a lui saranno costruite storie di ogni genere. Tale connotazione apertamente sessuale associa la pratica della trasgressione erotica a quella dell’autodistruzione, in un impasto a volte anche superficiale di varie culture e filosofie (epicureismo, nichilismo, anarchia, edonismo), ma che porta alla luce una delle grandi paure degli anni ’80, che inevitabilmente sfocia nel cinema dell’orrore, l’AIDS. Ed è sintomatico che a parlarne sia proprio un artista dichiaratamente omosessuale come Clive Barker.
Il suo lavoro allora assume un rilievo ancora maggiore nel momento in cui si sottolinea che, attraverso questo tipo di estetica, il regista britannico ridona contemporaneità al tema della sessualità nell’horror, annacquato nei primi anni ’80 da tante pellicole meramente commerciali ma senza uno scopo teorico dietro, dopo l’exploitation seventies grazie ai vari Hooper, Craven, Carpenter. Ed esplicitando uno dei grandi sottintesi del cinema e della letteratura gotica: la contemporanea attrazione/repulsione verso ciò che è malvagio e proibito.
Quando Kristy, nel film, sottrae allo zio la strana scatola, non resiste poi alla tentazione di aprirla; così come la zia Julie non aveva resistito all’attrazione per l’adulterio. Mettendo così il destino del mondo nelle mani delle donne, troppo deboli e curiose in un universo fin troppo misogino, Barker attualizza l’eterno mito di Pandora, sostituendo il vaso con la scatola. Senza dimenticare l’altro aspetto fondamentale dell’universo di Barker: la sua totale, assoluta laicità. Dio non è contemplato (Kristy chiude molto simbolicamente la statua di cristo in un armadio); l’inferno dei Cenobiti non prevede alternative, non esiste un Dio buono e redentore al quale appellarsi, e il manicheismo dogmatico cristiano non porta la minima consolazione alla dolce sofferenza promulgata da Pinehead, come confermerà la stessa Julia in Hellraiser II- Hellbound: “Qui domina il Dio della carne, del sangue e del desiderio!”.
Cinema Horror Scream e altro
Scream, 1995
Programmaticamente sull’orrore più che dell’orrore, quando guarderemo al genere horror ripenseremo agli anni ’90 e troveremo in Scream un punto di svolta storico.
La storia è liberamente ispirata agli omicidi operati da Danny Rolling nel 1990 (conosciuto come lo squartatore di Gainesville, ha confessato la mutilazione e l’omicidio di cinque studenti della cittadina della Florida nell’agosto del 1990, le violenze sessuali su alcune sue vittime, un triplice omicidio a Shreveport nel 1989 e il tentato omicidio del padre nel maggio del ’90).
Dopo l’abbuffata dei decenni precedenti agli anni Novanta, dove l’horror americano la aveva fatto da padrone inventando stili, canoni e canonizzato il genere, oltretutto mostrandolo apertamente come luogo perfetto per poter riflettere sul presente quindi genere politico per eccellenza; nell’ultimo decennio del secolo scorso si brancolava nel buio alla ricerca di un’identità precisa e ben definita.
In questo senso, Craven decide di riflettere sull’orrore l’orrore stesso in un gioco metaletterario che oggi sappiamo essere slancio postmoderno: lo aveva già fatto nel 1993 con Nightmare – Nuovo incubo, ma il brand era fin troppo celebre e le profondità cinefile e filosofiche non furono viste né tantomeno apprezzate. Ecco che allora il 1995 viene lacerato e il cinema si accartoccia all’improvviso con l’urlo simbolico di Munch riprodotto sulla maschera di Ghostface: la riflessione si adagia allora su terreni più tradizionali e di facile presa sul pubblico, ma il risultato è lo stesso. Se allora venticinque anni fa la critica andava -ovviamente- in estasi per la componente metacinematografica, oggi guardiamo Scream ma siamo ugualmente sconvolti dalla rappresentazione dell’abisso sociale, culturale che inondava le coscienze in quegli anni.
Craven non si limitò ad innestare il metacinema nell’horror, bensì ibridò il genere stesso con il teen movie: in questo modo, Scream diventava una lama che squarciava ogni regno di appartenenza, e si dimostrava in grado di oltrepassare i confini tra timbri, mood, ombreggiature, senza però mai scadere nel puro esercizio pop. Il metacinema nelle mani del regista non è mai sterile, perché dove l’intercapedine tra sogno e realtà, verità e finzione permetteva un punto di incontro, il cinema aggiungeva un ponte, un passaggio.
Con il progredire della saga, Scream sembra adeguarsi al tempo che lo genera: e allora l’immagine trionfa, e la gioventù è mandata al macello da ciò che considera la sua comfort zone, le certezze occidentali, ovvero cellulari, telecamere, televisioni, l’agiatezza borghese delle ville. Scream è allora una danse macabre degli Stati Uniti post reaganiani, alla ricerca di un’identità e scossa dal post orgasmic chill dei rigurgiti bacchettoni di un’epoca liberista in economia e reazionaria nella vita quotidiana: sono le regole del cinema di genere horror a mettere le sbarre intorno ad una morale asfissiante. È proprio nella frattura generata da una generazione che persegue il desiderio dell’atto più che l’atto stesso che la ferocia granguignolesca del killer è una liberazione.
Saw (id., 2004)
Cosa sarebbe oggi il torture porno senza Saw? Magari neanche sarebbe. Nel 2003, il talentuoso ed esordiente James Wan sfonda con la potenza di un maglio il cinema dell’orrore spostando di molto, e all’improvviso, i limiti (che potevano sembrare invalicabili) non tanto del mostrabile, quanto della estetica della crudeltà e della visione. Saw era una piccola idea con sfaccettature geniali: due uomini incatenati ad un muro, in un lercio scantinato, la stanza piena di sangue e un cadavere in mezzo a loro.
Un gioco nel quale le vittime-giocatori devono risolvere dei rebus letali preparati per loro dall’ideatore di tutto, il Jigsaw che ha il volto del mefistofelico Tobin Bell, e sono costretti a salvare la propria vita -o quella dei propri cari- compiendo dolorose scelte morali e materiali: il film ha di buono e innovativo il coraggio di essere cattivo e di spingersi fino in fondo, con al seguito un còte di tutto rispetto fatto di trucide efferatezze incastonate in un meccanismo fulminante che sfuma nel giallo.
Non è certo perfetto, ha falle di sceneggiature (ma analizzarle e deprecarle lascia il tempo che trova), e molto spesso non è leale fino in fondo con lo spettatore quando mostra gli indizi: eppure il meccanismo è affascinante, si lascia vedere che è una bellezza e si imparenta stretto stretto con la fotografia plumbea e livida di Se7en senza però sbrodolarsi in facili assonanze. Il regista ha intuito, ritmo e passione, ma soprattutto copia con discrezione (qua e là ci sono dissimulati, disseminati, riassemblati e a tratti migliorati spunti da vari thriller di fine secolo) costruendo un mosaico che, anche se non è sempre facile tenere sotto controllo, intriga e si insinua sotto pelle.
Sostanzialmente Saw è quindi un mistery al sapore di frattaglie, ma come dicevamo sopra l’energia che lo fa sbancare (tanto che il secondo capitolo viene messo in cantiere mentre ancora il primo gira nelle sale) è quel coraggio del mostrare. Mostrare una donna che deve cercare la chiave per la propria salvezza negli intestini di un ragazzo, un uomo che si sega via il piede pur di liberarsi e andare a salvare moglie e figlia, un altro che si aggroviglia dentro una matassa di filo spinato, un altro ancora che cosparso di liquido infiammabile deve andarsene in giro con una candela in mano… tutto senza lesinare nei particolari, e senza aver paura di mettere in scena emoglobina in quantità spruzzata a dovere da e su interiora esteriorizzate.
L’essenza del porno viene rispettata e declinata secondo un’ottica da cinema dell’orrore: gratuità nel mostrare ciò che dovrebbe rimanere nascosto. In fondo, il titolo stesso diventa un giochino con rimandi e ramificazioni: saw vuol dire sega (e quindi tagliare), ma anche visto – e l’aver visto rimanda direttamente al giudicare. Visto e giudicato: sono questi i due poli tra i quali il film si dipana, di certo ancora inconsapevole di ciò che ha creato.
Sembra, ma non è bassa macelleria quella che Wan mette in scena (e contemporaneamente a lui, Roth in Hostel, che approfondiremo nel prossimo capitolo, altro caposaldo del torture): sotto la patina lercia, imbrattata e inzuppata di sangue ci sono robusti sottintesi, a volte involontari, ma forse per questo proprio più decisivi ad inquadrare uno stato d’animo (del regista, del pubblico).
Saw è figlio legittimo dell’horror del nuovo millennio, horror che anzi viene appunto inaugurato da quest’opera e germina su di essa; conseguentemente, figlio di Bin Laden, di Abu Grahib e dell’11 settembre. Una serie di brutture che hanno influenzato la cultura “giovanilistica” degli spettatori più inesperti, che accorrono al cinema per assistere alle torture del Jigsaw, a loro volta figli della paura. Saw, con il suo labirintico gioco di specchi e scatole cinesi, tesse una serie di relazioni che fanno imparentare sconosciuti; e realizza nuovi rapporti fra mariti e mogli, padri e figli, amici e conoscenti.
Perché, in America, chi si fida più di nessuno? Il nemico è inesorabilmente, definitivamente, totalmente il vicino, il parente, l’amico, quello che passa per strada e magari ti spara in faccia. Fulminante la rinascita dell’assassino sul finale, quando un Bell fra lo zombesco e il solenne si rialza e si contorce carponi (come se fosse appena uscito dal ventre materno, sozzo di liquidi e sangue) in mezzo a schegge di ossa e pezzi di cervello: il nemico, quello riconoscibile perché chiaramente cattivo, che faceva bella mostra di sé e della sua fiera malvagità, è morto.
Al suo posto ne è venuto fuori uno nuovo, più oscuro, più minaccioso, più letale e spaventoso perché non lo riconosci se non quando decide di mostrarsi come tale. Il debito dell’11 settembre al torture e alla mitologia di Saw è lampante e dichiarato da quella locandina del secondo capitolo, censurata in più parti: due dita mozzate (nere, necrofizzate) vicine e messe dritte a segnare il capitolo II. Oppure, a guardarle meglio, vicine e messe dritte a simboleggiare le Torri Gemelle. Quelle due dita campeggiano come sottofondo alla definitiva distruzione e demolizione del Sogno Americano, trasformato e scivolato in un incubo senza redenzione dai colori infernali, dove il cattivo muore e risorge ormai come reiterazione eterna ed eterna dannazione, mentre dei buoni (ammesso che ce ne siano) non ne rimane traccia.
Saw II, lo accennavamo sopra, è stato messo in cantiere in fretta e in furia per sfruttare l’onda cultissima del precedente: questo in più maniere ha influito negativamente non tanto sulla qualità, ma sulla rendita del film. Perché l’opera di Darren Lynn Bousman (anche lui alla sua opera prima e da adesso in poi unico artefice e demiurgo della saga) è un film potente e a modo suo sconvolgente, ma è come un ponte fra quello che Saw ha creato e quello che Saw III rappresenta e definitivamente sancisce; il pubblico non lo capisce fino in fondo, viene frainteso da quelli a cui piace, e la critica non lo inquadra subito.
Andando con ordine: viene trovato un cadavere che porta la chiara firma di Jigsaw. Il detective Matthews si mette allora sulle sue tracce, inizia le indagini e lo cattura fin troppo facilmente. Chiaro che l’inizio è solo un dettaglio di un piano molto più articolato e silenziosamente feroce, dove otto persone sono utilizzate come altrettante pedine per continuare quel gioco con la vita e la morte.
Quello che Saw II perde in originalità, lo acquista in vigore di senso: quel limite, già abbattuto da Wan, di ciò che si può mostrare sullo Schermo è spostato ancora più in avanti. Quello che però non lo fa apprezzare pienamente è che tutto viene fatto con scarna consapevolezza di quella ricchezza di significati che Saw aveva fatto intravedere: è in questo senso che Saw II è il film della pentalogia (nda: attenti, la definiamo pentalogia solo perché sono usciti cinque film, ma è in preparazione il sesto) che più si presta alla definizione di torture porno, rappresentando gli omicidi come puro atto rituale e spettacolare, da gran guignol.
Assimilabili al gusto di Dario Argento per una barocca messa in scena della morte, le brutalità ideate da Bousman si fanno più spietate e gratuite: una fossa piena di siringhe, un contenitore in cui infilare le mani dal quale non si tirano più via se non tagliandole, un forno crematorio, e via macellando. Se si pensa che negli anni ’90 il massimo dell’horror era Scream, c’è da impallidire.
Abbattute le barriere del buon gusto, non resta che l’Orrore. Saw II è carnalmente anarchico e oscuro, e gioca con lo spettatore anche se contribuisce a creare una sorta di mitologia interna alla serie: ritorna uno dei personaggi torturati del primo capitolo, Amanda, destinata ad assumere posizioni significative all’interno della logica complessiva, mentre la storia di Jigsaw si approfondisce e il personaggio viene dotato di una psicologia e di un background. Lo spirito dell’intero film risiede e si nutre della bassa macelleria praticata sui corpi delle otto vittime: ma è il sottofondo nichilista che devasta.
Nessuna speranza, l’orrore muore e rinasce, si riproduce e si moltiplica. E’ per questo che con il suo sadismo puro Saw II è tutt’altro che innocuo, un passaggio obbligato per arrivare al terzo capitolo, finora il più compiuto nel senso. Terzo capitolo scritto e diretto già con maggiore consapevolezza di quanto questo universo orrorifico stava diventando, e di quali significati si stava facendo latore. Il cinema horror, si sa, è il genere principe della Settima Arte, riflettendo nelle sue superfici oscure, molto più degli altri generi, la società contemporanea, il nostro modo di pensare e per forza di cose le nostre paure. Saw è paragonabile, come forza d’impatto sociale, agli incubi da pieno edonismo reaganiano che sprizzavano fuori da Nightmare.
Ora, il terzo capitolo in una trilogia, dovrebbe essere il più importante: sì, Saw non è (più) una trilogia, ma rimane che se il primo capitolo imposta delle coordinate, il secondo deve confermarle ed il terzo deve scompaginare tutto e alla fine tirare le somme della storia. Secondo quest’ottica, Saw III svolge il suo sporco lavoro alla perfezione: da una parte, costruisce e ribadisce alla perfezione la coerenza di una trama che ingloba/congloba le scarne sottotrame precedenti e le trasforma in tasselli di un puzzle che fa capo sempre a Jigsaw. Nel farlo, sfrutta alla perfezione due mondi contrapposti e combacianti, brillantemente classificati dalla rivista da edicola NocturnoCinema (ed. Cinema Bis) come quelli dei film con “forma ludica” nei confronti delle attese spettatoriali (ovvero: i film con il “tema dell’identità”, che trattengono fino in fondo il mistero sull’identità del Male, e quelli con “struttura narrativa attraverso cui affronatre il tema”, ovvero che mettono in scena un mondo narrativo dato e infine lo ribaltano completamente di segno.
In questo, il secondo film con firmato da Bousman è perfettamente postmoderno e pienamente millenaristico, utilizzando quella che ormai è una chiusa classica (ovvero il montaggio frenetico di immagini della storia con sottofondo la voce di Jigsaw che spiega retroscena e getta una luce nuova su tutta la storia) in maniera avvincente quasi come nel primo capitolo -mentre quella del secondo era un po’ appannata.
A colpi di seghe e meccanismi perversi, assistiamo ad una ruota di nuovissima generazione che storce un uomo girandogli in senso opposto testa e gambe, una sorta di esoscheletro toracico che strappa via le costole, un annegamento in un mare di liquame composto da frattaglie di porci, un altro sventurato che ha nelle varie parti del corpo grossi anelli di acciaio e che non si può liberare se non strappandoli via tutti. La cosa migliore di Saw III è però la sapienza con cui Bousman lo dirige negli anfratti di regole etiche angosciose e insospettabili, che riportano alla ribalta la valenza sociologica del genere.
La vendetta, il perdono, la capacità dell’uomo di confrontarsi con i propri limiti e di vincere sui propri difetti: argomenti a forte rischio di banalità, ma resi come tracce morali che conducono alla fine del gioco. Attraverso i tre film, il baricentro si è allora spostato fino a posizionarsi praticamente a metà fra torture e favola (nera) morale. E’ per questo che si diceva sopra circa la possibilità di includere solo Saw II come effettivo torture-porno: la saga, nella sua interezza, perde di gratuità perchè si bilancia fra i due poli (disgusto e giustificazione etica) ed ha nell’insieme una sua compiutezza moralizzatrice.
Vedere, per credere, il dialogo finale fra Jigsaw e Amanda (“Io ho cancellato i tuoi errori e li ho perdonati, Amanda”, “Quello che fai non è diverso dall’uccidere: tu torturi le persone e le guardi morire!”, “Le persone non cambiano, maledizione! Nessuno può rinascere, è una grande stronzata ”, “La tua volontà di salvare una persona è stata messa alla prova”): la spinta etica non indifferente rende, allo stato attuale, il terzo capitolo il migliore nell’economia dell’intera produzione. Con uno scarto finale avvincente; che rinvia direttamente al quarto (e finora ultimo) segmento della folle storia di Jigsaw. Saw IV inizia con un letterale calcio in faccia: qualcuno di voi ha mai visto il veramente sconvolgente The act of seeing with one’s own eyes, di Stan Brakhage? Ecco, l’incipit di Saw IV si riallaccia alle basi teoriche di quel film e del primo Saw, aggiornandole.
Come per l’insostenibile film-documentario di Brakhage, nell’atto di vedere qualunque cosa, anche la più tremenda delle autopsie, c’è l’accusa e la critica: quest’atto di vedere (e per il cinema, di mostrare) è diventato nella società moderna -non si sa bene per colpa maggiore di chi, se dei film, dei video, di internet- non più uno sfizio, ma una necessità, una forma di bulimico bisogno, un dovere. Il film si apre, secco, funebre e necrofilo, su un tavolo della morgue (astenersi deboli di stomaco, per favore) e, con un guizzo di sceneggiatura non indifferente, riesce a continuare le gesta di Jigsaw nonostante quanto successo precedentemente, senza però cadere nel ridicolo o nel già visto.
Da qui in poi, una sequela di: due tizi -chiusi e cuciti ad uno gli occhi, all’altro la bocca- legati da una catena con in mezzo una specie di torchio; marito e moglie uniti da sbarre appuntite di acciaio che gli trapassano i corpi; una donna costretta su una sedia con dietro un meccanismo che le tira la pelle della faccia… Anche qui, il contorno di sadiche crudeltà sfiora la perversione e la morbosità, gioia per gli occhi degli appassionati. A dispetto delle previsioni, Saw IV non è un brutto film, diciamolo subito: ma come il secondo paga pegno di un illustre precedente, ed in questo modo, sotto tonnellate di sangue e schifezze, si rischia di perdere di vista le tracce sottocutanee e i sottintesi che vanno sempre verso la distorta visione del senso della vita da parte dell’omicida.
Partita con un tuono fortissimo che sembrava dovesse terminare il suo lampo nello spazio di un solo film, la saga di Saw si è trasformata in quello che Nightmare è stato per gli anni ’80 ed Hannibal Lecter per gli anni ’90: il riflesso più fedele di uno stato d’animo, il termometro delle paure del pubblico, con il valore aggiunto (tutto postmoderno) della riflessione cinefila sullo sguardo e sul significato del guardare.
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