The Eye of the Storm, è un film del 2011 diretto dall’australiano Fred Schepisi. Si tratta di una danza elegante e spietata tra commedia e dramma famigliare borghese dove la triade attoriale Charlotte Rampling – Geoffrey Rush – Judy Davis, rispettivamente madre-figlio-figlia, trova lo spazio ideale per un’interpretazione memorabile.
Elizabeth Hunter (Rampling) è stata una madre anaffettiva e narcisistica, tanto egoista da aver inflitto impietose sofferenze ai figli scappati in Europa per proteggersi da lei e per dimenticare l’arida infanzia: Londra per Basil (interpretato dal premio Oscar Rush – Shine, 1996), attore teatrale stroncato dalla critica che ha guadagnato l’orpello del titolo di Baronetto, e Parigi per Dorothy (Davis), reduce di un matrimonio fallimentare con un principe che le ha lasciato soltanto un titolo.
Elizabeth sta per spegnersi, i figli fanno ritorno in Australia per stringersi intorno al suo capezzale e reclamare l’eredità dovuta. Complessi, affettivamente deficitari, fragili, nonostante le apparenze, i tre protagonisti, squisitamente respingenti, sono una costruzione letteraria – e cinematografica – di fine fattura. Il ritorno a casa li costringe a fare i conti col dolore che riaffiora dal ricordo di un passato vuoto vissuto in un presente appesantito dal cinismo di una madre primadonna e senza freni. Guidati confusamente tra memoria e istantaneità dalla mente delirante di Elizabeth, ripercorriamo i danni provocati dalla sua rapacità voluttuosa a tutti i membri della famiglia, rimasti invece a secco di amore e comprensione, fino a prendere parte al fatidico giorno in cui indenne superò l’uragano, non solo meteorologico. È un flashback chiarificatore dove vibra tutta la ferocia e la forza di una donna che si imbelletta ancora per accogliere tagliente i suoi pargoli ammaccati all’ultimo atto della rappresentazione, la sua uscita di scena trionfale. Al teatro posticcio allestito nelle camere private partecipano tutti, figli, notai, cameriere-sciantose, con o senza consapevolezza del ruolo attoriale attribuito dalla caustica regista Elizabeth.
Nonostante Basil e Dorothy siano il prodotto difettato di una madre irresponsabile a cui far risalire la goffaggine dell’uno e il disagio sociale dell’altra – resi attraverso dettagli visivi ed espressivi – la sgradevolezza emanata dalla loro presenza in scena occulta catastroficamente ogni barlume di umana debolezza. Il gusto barocco che serpeggia in ogni aspetto della messa in scena rafforza il senso di stucchevolezza provocato dal rapporto di forza che lega i tre protagonisti fra loro e con il mondo circostante. Ossessionati dai loro devastanti vizi, Elizabeth, Basil e Dorothy sono intrappolati nella struttura convenzionale che hanno deciso di abitare, si aggrappano alla forma che li asfissia e, al contempo, li tiene in vita, anche nel momento della capitolazione, scoprendo per un attimo la fragilità per nasconderla subito dopo, feriscono con sprezzante crudeltà mentre barcollano rovinosamente.
Adattamento dell’omonimo romanzo del Nobel per la letteratura Patrick White (1973), il melodramma sulla decadenza morale, personale, famigliare, di una classe sociale The Eye of the Storm mette nell’occhio del ciclone figure volutamente prive di empatia costrette a rivivere il rimosso senza nessuna soluzione catartica, mentre gioca sulla mortifera opposizione tra lo spreco materiale e l’avarizia spirituale. Difficile partecipare al dramma, faticoso anche solo entrare nell’atmosfera nera di questa commedia degli eccessi.
Francesca Vantaggiato