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Black Images Matter. La Blaxploitation da vedere

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Cinematografia ampiamente dibattuta e di enorme successo, a distanza di cinquant’anni la Blaxploitation resta un fenomeno di nicchia tra i più significativi dell’industria hollywoodiana degli anni Settanta.

Quando nel 1969 il conservatore Richard Nixon è eletto alla presidenza americana, i tagli apportati dal suo Governo ai programmi di walfare pongono un grosso stallo al progresso del Paese, provocando una profonda crisi economica e una nuova ondata di razzismo e violenza che investono prevalentemente la popolazione afroamericana. Stavolta, però, dopo gli anni di battaglie per i diritti civili, il nuovo disagio è vissuto con maggior coscienza di sé, una più precisa visione della realtà e obiettivi da raggiungere collettivamente.

Sweet Sweetback’s Baad Asssss Song

La Black Art diventa espressione di una critica di classe verso la condizione attuale, veicolo cultuale di ideologie e messaggi di resistenza e lotta, e il cinema – arte popolare per eccellenza – si fa mezzo ideale di protesta con Sweet Sweetback’s Baad Asssss Song (1971) di Melvin Van Peebles, regista già noto per il corto La permission (1968) e il graffiante L’uomo caffellatte (1970). L’autore si afferma come figura di culto nella comunità giovanile ghettizzata che in breve elegge a manifesto il film, storia di un ragazzo del ghetto di Los Angeles noto per le sue ottime doti sessuali che, uccisi due poliziotti bianchi per difendere un “fratello”, si dà alla fuga verso il Messico diventando una simbolo per la sua comunità.

La dedica d’apertura “a tutti i fratelli e sorelle che ne hanno abbastanza dell’uomo bianco” diventa una chiara presa di posizione contro l’establishment a stelle e strisce e il ruolo sociale di vittima destinato agli afroamericani. Tratteggiando il suo personaggio, Van Peebles crea un nuovo eroe e modello nero. Per la prima volta nel cinema il protagonista è un uomo fortemente sessualizzato, intento in espliciti rapporti con donne bianche e nere oltre che forte e aggressivo, capace di reagire alla violenza arrivando a uccidere per la salvezza sua e altrui.

Criticato dalla borghesia e dai pacifisti neri e invece osannato dai movimenti di lotta come le Pantere Nere, il film, pur se con buoni intenti, non manca di alcuni tipici stereotipi legati all’afroamericano e alla sua realtà. Prime fra tutte la rappresentazione del maschio antieroe negativo violento e sessualmente iperdotato e il ghetto caratterizzato da uno stile di vita basso e degradante, limbo sociale da una ristretta prospettiva di vita basata su leggi non scritte di prevaricazione e violenza. Nonostante questo e grazie a un’accurata auto-distribuzione che – come il pioniere dei race films Oscar Micheaux – vede lo stesso regista portare le copie da una sala all’altra di città in città incassando la propria percentuale a proiezione finita, Sweetback incassa circa 15 milioni di dollari. Una cifra sorprendente per un film afroamericano indipendente, che consacra autore, stile e tematiche portandole all’attenzione dell’industria hollywoodiana al tempo in grave crisi, che trova proprio in quel cinema a basso costo e destinato a un pubblico nero e tendenzialmente di estrazione bassa una via di rilancio economico.

Nasce così la Blaxploitation, da black (nero) ed exploitation (sfruttamento), film di tipo indipendente ma finanziati da Hollywood, scritti e girati da autori e registi bianchi e neri che al ritmo funky delle colonne sonore epicizzano il degrado e la violenza dei quartieri afroamericani più poveri, facendone scenari ideali di avventurose storie di criminalità mirate a intrattenere prevalentemente gli spettatori provenienti da quel medesimo contesto etnico-sociale.

Stili, temi e personaggi

Shaft il detective (Gordon Parks, 1971) e Superfly (Gordon Parks jr., 1972) inaugurano i due filoni principali di questa produzione: quello dei superdetective, un misto tra James Bond, Marlowe e l’ispettore Callaghan che si muove in costante bilico tra legalità e illegalità, protagonisti di Pupe calde e mafia nera (Ossie Davis, 1970), Detective G (Ivan Dixon, 1972), Black Gunn (Robert Hartford-Davis, 1972) o Rubare alla mafia è un suicidio (Barry Shear, 1972), e quello degli spacciatori/papponi, che ostentano un lusso pacchiano muovendosi in un contesto di parassitismo e prostituzione, come Black Cesar, il padrino nero (Larry Cohen, 1973), The Mack – Il marciapiede della violenza (Michael Campus, 1973) e Disco Godfather (J. Robert Wagoner, 1979).

Tra gli interpreti più significativi vanno menzionati Richard Roundtree, Fred Williamson, Jim Kelly, Rudy Ray Moore e Max Julien. Ma è Jim Brown a incarnare la vera icona di questo cinema. Atleta e attivista, sul finire degli anni Sessanta abbandona il football reinventandosi attore. In pochi ma azzeccati film, tra cui Quella sporca dozzina (Robert Aldrich, 1967 dove un soldato nero è posto per la prima volta sullo stesso piano dei commilitoni bianchi, affianco ai quali combatte con medesima tenacia e coraggio), El Verdugo (Tom Gries, 1969), Slaughter, l’uomo mitra (Jack Starrett, 1972) e Dinamite, agguato, pistola (Gordon Parks jr., 1974), Brown assume il ruolo di “black John Wayne”. Eroe coraggioso della causa afroamericana, infrangitore di tabù, primo sex-symbol protagonista di scene amorose interrazziali, è l’anti-Sidney Poitier che viene a incarnare l’opposto del bravo ragazzo nero. Poco colto, poco educato e poco raffinato, il nuovo personaggio incarnato dall’ex-atleta è un uomo d’azione e amante sopraffino, forte di una propria identità sessuale ben definita: tutto quello che finora agli afroamericani era stato negato di vedere al cinema.

Altro fortunato filone è quello della donna bella e letale che utilizza il proprio corpo per sedurre il maschio di turno e raggiungere lo scopo di conquista o vendetta che sia, come in Donne in catene (Eddie Romero, 1972), Cleopatra Jones (Jack Starrett, 1973) Coffy e Foxy Brown (Jack Hill, 1973 e 1974) o Velvet Smooth (Michael Fink, 1974) che fanno la fortuna delle giunoniche interpreti, Pam Grier, Tamara Dobson e Johnnie Hill. Una lettura certo retrograda e sessista che non nasconde un certo timore maschilista verso i movimenti d’indipendenza femminile legati alla questioni razziali, che in quegli anni stavano diffondendosi anche tra le donne afroamericane.

Sviluppo e declino del genere

Il fenomeno della Blaxploitation si estende rapidamente agli altri generi classici del cinema americano in un vero e proprio sfruttamento intensivo della moda e dello style nero, in quegli anni così in voga tra gli afroamericani come tra i giovani bianchi contestatari. Dal western (Non predicare… spara!, Sidney Poitier, 1972; Boss Nigger, Jack Arnold, 1974) all’horror (Blacula, William Crain, 1972; Ganja & Hess, Bill Gunn, 1973), passando per animazione (Coonskin, Ralph Bakshi, 1975), fantascienza (The Thing With Two Heads, Lee Frost, 1972; Space Is The Place, John Coney, 1972), film d’azione e arti marziali (Hot Potato, Oscar Williams, 1976; Black Samurai, Al Adamson, 1977), commedia (Uptown Saturday Night, Sidney Poitier, 1974; Petey Wheatstraw, Cliff Roquemore, 1977), comico (Car Wash e Which Way Is Up?, Michael Schultz, 1976 e 1977) e musical con The Wiz (Sidney Lumet, 1978), grande flop al botteghino che ridimensiona il fenomeno cinematografico fino al suo naturale esaurimento.

Apprezzabili per il tentativo di rottura e rinnovamento dell’immagine del nero sul grande schermo finalmente scevra dal buonismo progressista hollywoodiano, questi film finiscono per fungere da mero palliativo per la causa nera, distogliendo l’attenzione dalle lotte comunitarie in favore di un individuale raggiungimento di benessere materiale. Elementi di coscienza di classe, militanza e rivolta sono sì presenti ma sottotraccia, delegittimati da aspetti più superficiali e di folklore che fanno delle pressanti questioni afroamericane più che strumenti di riflessione, oggetti di una mera e superficiale derisione, proprio attraverso quei medesimi stereotipi apparentemente superati dalle pellicole interpretate da Harry Belafonte e Sidney Poitier solo un decennio prima. Pur nella sua negatività di fondo, è comunque innegabile il contributo che la Blaxploitation ha apportato nel cinema statunitense sdoganando l’iconografia dell’universo criminale nero facendone, come per la mafia italoamericana, materia narrativa e di immaginario collettivo che ancora oggi caratterizza buona parte della produzione nazionale mainstream.

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