Direttrice artistica CSC-Scuola Nazionale di Cinema-Sede Sicilia, Costanza Quatriglio presenta Sotto lo stesso tempo, film documentario in cui gli allievi del Centro dirigono un’opera che racconta il tempo della pandemia interrogandolo con la medesima urgenza, ma con una molteplicità di sguardi. Presentato al Torino Film Festival 2021 e visibile su RaiPlay, di Sotto lo stesso tempo abbiamo parlato con i giovani registi.
I registi di Sotto lo stesso tempo
Può sembrare paradossale, ma forse neanche troppo partire da una frase tratta dall’ultimo film di Paolo Sorrentino per iniziare a parlare di Sotto lo stesso tempo, il film collettivo di cui siete autori e registi. Citare È stata la mano di Dio, ovvero un’opera nel corso della quale Sorrentino fa dire ai personaggi che “la realtà è scadente” potrebbe sembrare irrispettoso nei confronti del vostro lavoro. A me però sembrava interessante farlo perché in una della sue scene più significative – quella in cui Fabietto dialoga con Antonio Capuano -, si dice che i film hanno ragione di esistere quando il regista ha qualcosa da dire. Volevo chiedervi se anche per voi è stato così, se a spingervi alla realizzazione del vostro film c’è stata questo tipo di urgenza?
Tito. Prendendo spunto dalla citazione di Paolo Sorrentino mi ricordo che durante il periodo delle riprese dei cortometraggi del secondo anno avevamo assistito alla presentazione de La città dei vivi, romanzo di Nicola La Gioia, in cui la fonte documentaria non impedisce allo scrittore di superare i cosiddetti limiti del reale. Sia io che Gianfranco rimanemmo colpiti dalla domanda di una ragazza che si chiedeva se paradossalmente fosse proprio la finzione a creare costrizioni che invece non ci sono quando si lavora con la realtà. Io credo che il concetto espresso da Sorrentino non corrisponda a quello che fin qui è stata la mia esperienza. Se anni fa avessimo letto che il Papa avrebbe dato la benedizione pasquale in una Piazza San Pietro completamente vuota nessuno avrebbe creduto che potesse accadere. Ma c’è di più, la complessità del reale spinge sempre chi narra a trovare soluzioni narrative, a inventare linguaggi diversi dove la realtà è una ricchissima fonte a cui attingere.
Il cinema in generale, il vostro film in particolare, offrono alla realtà la possibilità di manifestarsi con gli imprevisti del suo divenire. In un’epoca in cui, come spettatori del mondo, siamo sempre più distratti dalla verità delle cose, Sotto lo stesso tempo è capace di mettersi in ascolto della vita e delle sue molte trasfigurazioni. In certi momenti ci restituite un paesaggio che sembra uscire fuori da un film di fantascienza.
Matteo. La trasfigurazione di cui ci domandi è dovuta al fatto di aver vissuto un trauma collettivo dal quale non siamo ancora usciti. Questo non ci ha dato la lucidità sufficiente per elaborare un’esperienza come quella dell’isolamento sociale che è stata pesante da sopportare anche dal punto di vista fisico. A salvarci è stata la possibilità di relazionarci con l’altro grazie all’aiuto del supporto informatico. Lo scenario da fantascienza che ne viene fuori è conseguenza del modo con cui ci siamo relazionati al flusso proveniente dal mondo esterno. Quello che si vede nel film non è nient’altro che la realtà del momento, ripresa così come si mostrava davanti a nostri occhi, anche – soprattutto nella prima parte del film – attraverso i supporti mediali che filtravano tra noi chiusi in casa e il mondo fuori. C’è comunque sempre un dialogo tra finestre sulla realtà che sono digitali, o comunque che ci costringono a fare i conti con qualcosa di distante che tentiamo di avvicinare.
Le immagini di Sotto lo stesso tempo secondo i registi
A proposito di trasfigurazione, la prima e l’ultima sequenza sono un esempio di quanto vi domandavo. In particolare quella che apre il film dimostra ancora una volta la possibilità di superare i limiti del reale cogliendone in questo caso il suo lato più poetico. Il gioco di luci e di ombre disegnato dal movimento delle mani proiettano sullo schermo una fantasmagoria che si rifà all’essenza più pura del cinema, collegandosi a un immaginario condiviso che per questo non ha bisogno di essere spiegato. È la potenza del cinema e delle sue immagini, capaci di arrivare al cuore dello spettatore senza bisogno di aggiungere altro.
Alice. Sono cosciente del rapporto che le immagini di quella sequenza stabiliscono con l’essenza più pura del cinema. Quella è stata la prima clip che ho montato non appena abbiamo iniziato a ragionare sul film. Non l’avevo pensata come inizio, ma è arrivata a esserlo durante il montaggio. La sequenza nasceva da un impulso anche fisico di arrivare a immagini che non fossero simili a quelle a cui ci costringeva l’isolamento. La mia è stata una reazione a una bulimia di visioni cinematografiche e televisive che si ripetevano giorno dopo giorno. A un certo punto ho deciso di staccarmi da quel mondo. Da lì la scelta di rinunciare a quel tipo di narrazione per inventarmene una io.
La parola ai registi di Sotto lo stesso tempo
Sotto lo stesso tempo ha due eccezionalità: oltre a essere il vostro primo film destinato a incontrare un pubblico così numeroso come quello di Rai Play è anche il risultato di uno sforzo collettivo in un mestiere in cui di solito il regista è chiamato a decidere da solo e in prima persona. Credo che per voi si sia trattato di un passaggio tanto formativo quanto complesso per l’eterogeneità dei materiali che vi siete trovati a gestire.
Naomi. Secondo me questa è stata la cosa più difficile. Il corso era appena iniziato: avevamo fatto meno di due mesi di lezioni e in quel momento eravamo ancora pieni di cose da dire e da condividere, e anche per questo è stata una situazione spiazzante. Poi, con il passare del tempo, attraverso incontri on line più volte a settimana e un costante lavoro di elaborazione, scrittura e riprese guidato da Costanza Quatriglio. ognuno ha iniziato a sviluppare il proprio linguaggio, le proprie idee. All’inizio del montaggio c’è voluto un po’ per capire come far coesistere questa eterogeneità. Eravamo undici persone provenienti da esperienze diverse per cui non è stato semplice. Insieme a Letizia Caudullo. (montatrice e docente di montaggio) abbiamo iniziato a trovare anche i collegamenti visivi e di pensiero, ma il processo è stato molto lungo.
Gianfranco. Il significato di film collettivo è centrale rispetto al montaggio. Il primo lockdown è stata la fase in cui i nostri linguaggi si sono formati, quella in cui si sono materializzati i fili narrativi che intendevamo sviluppare. Non abbiamo mai lavorato separatamente. Durante quel periodo così sofferto i nostri incontri on line rappresentavano sia una resistenza all’isolamento quotidiano, sia un modo per trovare le associazioni capaci di legare i nostri percorsi cinematografici. Conoscendoci solo da due mesi questo passaggio è stato ancora più importante. Vedere il materiale degli altri ha permesso di scoprirci uno con l’altro. Le associazioni e le discontinuità di cui parlava Costanza sono il riflesso dello stato d’animo di quel periodo.
Il montaggio
Per forza di cose in un lavoro come questo il montaggio è ancora più importante e quello del film vostro lo è anche nel suo essere antididascalico con le associazioni tra le singole sequenze pensate in termini di continuità, ma anche in senso opposto. Ne è esempio il passaggio tra il dettaglio coloristico del disegno di Naomi e il bianco e nero della lavatrice che introduce la scena successiva. In quel caso lo scarto cromatico annuncia anche il passaggio dalla vita ideale a quella pratica.
Maria Francesca. In realtà nel passaggio dai colori del disegno al bianco e nero della lavatrice non c’è stato questo tipo di pensiero. Le prime tre sequenze sono state concepite ragionando su come fare entrare la realtà in maniera non informativa. Per questo abbiamo deciso di non partire dall’inizio del lockdown, ma di iniziare a raccontarci quando l’isolamento era già iniziato. La sequenza di Alice, ma anche la seguente, quella in cui Naomi e Matteo parlano tra di loro ci permettevano di presentare un momento della loro vita in cui il lockdown era già diventato quotidianità. L’inquadratura della lavatrice è il modo che abbiamo scelto per contestualizzare la storia di Mario, tanto più che in sottofondo si sente anche il telegiornale. Nel montaggio finale abbiano sacrificato sequenze alle quali eravamo affezionati, ma che non avrebbero legato con le altre selezionate per far parte.
Costanza Quatriglio. A proposito di montaggio, mi pare interessante dire che fin dal principio abbiamo parlato di discontinuità. Questa parola è entrata da subito nel nostro lessico perché era quella che ci avrebbe aiutato a restituire gli attriti e la complessità del reale che in questo caso aveva a che fare con la molteplicità delle vite di chi stava lavorando al film.
Il tempo
Una discontinuità che influisce sulle caratteristiche del tempo che in taluni passaggi appare contratto – per esempio quando mette insieme le immagini più emblematiche della cronaca di quei giorni -, in altri dilatato. In altri ancora diventa puro flusso perché i dialoghi che iniziano in una scena esondano su quella successiva, sovrapponendosi a immagini che di fatto non gli appartengono.
Mario. Si trattava di rendere omogeneo un discorso composto da sguardi diversi, considerando che il tempo scorreva in maniera diversa perché una giornata da solo durava una settimana mentre due ore con gli amici, un secondo. Penso che il film porta avanti questo sentimento di non esistenza del tempo.
Lo fate sentire nello stesso modo in cui lo si percepiva nella fase del lockdown. Abituati a non accorgersi di lui, il tempo diventa il grande protagonista della sospensione esistenziale di quel periodo.
Alice. Sì, penso che siamo tutti d’accordo su questo, e cioè che nel film il rapporto con il tempo sia fondamentale. È interessante che tutti questi ragionamenti così come la forma della trasposizione siano arrivati definitivamente con il montaggio. Mentre giravamo non riuscivamo a capire il tipo di materiale che avevamo in mano perché giravamo molto e avevamo consegne molto strette. La consapevolezza è venuta dopo, quando abbiamo dovuto sudare non poco per cercare di capire come unire questo materiale filmato in modo così diverso.
I registi di Sotto lo stesso tempo alle prese con il montaggio
Ci sono registi che girano avendo già in testa l’ordine delle sequenze. Per sua natura nel cinema documentario questo non è possibile, dunque, continuando a parlare di montaggio, volevo chiedervi quanto materiale avete girato e quanto avete impiegato a montarlo?
Mario. Penso che una delle tipicità del documentario sia che la fine dipende dalla vita. Per questo si gira e si scatta tanto materiale: in questo caso il triplo e il quadruplo di quello entrato nel film. C’erano tante belle immagini che poi sono state scartate perché non entravano nell’arco del racconto che abbiamo scelto al montaggio.
Gianfranco. Abbiamo incominciato a montarlo nel giugno del 2020 mentre stavamo ancora finendo di girare.
Alice. Montavamo quello che avevamo, tenendo conto di quello che poteva arrivare. Inventavamo situazioni di cui poi dovevamo verificare il funzionamento all’interno della parte di montaggio già allestita.
Matteo. L’inizio delle riprese è stato preceduto da un lavoro di scrittura confluita nei cosiddetti Diari della Quarantena su cui ognuno annotava pensieri su quello che gli sarebbe piaciuto raccontare durante l’isolamento. Da lì siamo passati a tracciare una linea di temi a cui abbiamo tenuto fede durante il montaggio. In corso d’opera qualcosa è cambiato. Io per esempio volevo raccontare la vita dei clochard che dormono sotto casa mia, poi mi sono reso conto che quella narrazione faceva fatica a stare dentro al film. Da lì la decisione di proiettarmi di più sull’interno, filmando quello che succedeva in casa. Vivendo insieme a Naomi, secondo me era naturale che succedesse.
Naomi. Io e Matteo vivevamo a casa dei suoi genitori, per cui il fatto di ritrovarmi da un giorno all’altro con persone che non conoscevo è stata una vera e propria rivoluzione. Una condizione spiazzante ma anche di conoscenza di uno spazio per me nuovo. Osservandolo e abituandomi a viverlo insieme agli altri è scattato il nostro meccanismo di linguaggio, quello di riprenderci a vicenda.
Mario. La mia esperienza si collega a quella di Naomi, nel senso che sono arrivato in Italia dal Messico il 27 febbraio, cioè qualche giorno prima che scattasse il lockdown. Venivo da un altro continente, non conoscevo nessuno e vivevo da solo in una casa in cui non ero mai stato prima. Filmare per me ha voluto dire non rimanere solo e soprattutto incontrare gli altri. Nella mia condizione non c’erano molte cose da riprendere per cui era necessario pensare a qualcos’altro. Parlavo spesso con i miei genitori, aggiornandoli su quello che stava accadendo in Italia e a un certo punto ho deciso di fare entrare questi dialoghi all’interno del film. Il fatto di lavorarci sopra, sentire più volte le loro voci me li faceva percepire più vicini.
Un film sulla parola
Fin qui abbiamo raccontato il vostro lavoro dal punto di vista delle immagini e del montaggio, ma Sotto lo stesso tempo è anche un film sulla parola. Nel corso della storia affermate che in quei giorni a molti di voi è venuta a mancare e questo lo fate sentire nel modo in cui alternate i dialoghi ai silenzi. Come avete raggiunto un equilibrio tra immagine e parola?
Giuliana Come dice Matteo tutto è iniziato dalla scrittura dei diari, per cui la parola è stata l’origine di tutto. In sostanza si trattava di mettere per iscritto come ci sentivamo. La traduzione in immagini è stato un modo per dare vita alla parola. Di farla entrare nel film in modo che potesse trasmettere le nostre emozioni.
Quindi i Diari hanno assunto la funzione di una sorta di sceneggiatura?
Giuliana. Sono stati una base per ragionare sia sui sentimenti che volevamo esprimere, sia per trovare ciascuno il proprio filo narrativo e nello stesso tempo per trovare i punti di congiunzione tra tutti noi.
Piero Li Donni (tutor didattico). Averli in qualche modo oggettivati e conservati ha dato la possibilità ai ragazzi di ricordarsene a distanza di tempo mentre stavano girando. Non sono stati utilizzati come una sceneggiatura. Noi li consideriamo dei diari di bordo, ovvero la rotta di quello che i ragazzi avevano pensato all’inizio. Ricordare mesi dopo le sensazioni e le discussioni intorno a quello che stava accadendo è servito a trovare l’equilibrio nel montaggio .
CQ. L’esempio già lampante può essere la linea narrativa di Maria Francesca. Lei aveva appena perso il nonno per cui all’inizio non si sentiva di far emergere il lutto vissuto da lei e da sua nonna. La fase di elaborazione della perdita è coincisa con l’obbligo di isolamento imposto dal lockdown, dunque anche qui è stata la realtà a scegliere il soggetto da filmare, quello che sarebbe diventato materiale narrativo.
Maria Francesca. È vero, mi sono ritrovata a casa dei miei genitori per caso. Dopo i funerali del nonno ero tornata a Palermo portandomi dietro la nonna che aveva accettato di trasferirsi da noi. Questo succedeva una settimana prima della chiusura. Come gli altri compagni, anche io cercavo di accumulare materiale ma non riuscivo a trovare una linea narrativa. Mi ricordo che gli unici momenti di conforto erano quelli in cui parlavo con mia nonna che peraltro stava vivendo il suo lutto e faceva fatica a parlare. Filmare le nostre conversazioni non era facile perché mi sembrava di violare il suo spazio. C’erano giornate in cui lei non diceva nulla e paradossalmente la prima scena, quella in cui giochiamo a Scarabeo, è stato un escamotage inventato sul momento per invitarla al dialogo. A poco a poco si è abituata a essere ripresa e io ho cominciato a concentrarmi più sul mondo all’interno della casa che su quello esterno. Poi, coincidenza ha voluto che due mesi prima avessi fatto la conversione dei filmati girati da mio padre quando io è mia sorella eravamo piccole. Tra questi mi sono ricordata di uno che avevo consegnato alla scuola a luglio che in effetti è il primo di cui sono stata protagonista: c’ero io a otto anni che presentavo gli ambienti della casa e chi ci viveva. Compresi i miei nonni.
Diversi formati
Nei pochi minuti di quella sequenza sei riuscita a riassumere un’intera vita, non solo la tua, ma anche quella della tua famiglia. Ho trovato davvero emozionante lo scarto tra la bambina e la ragazza, oggi come allora unite dal desiderio di fare cinema. Guardando le immagini si capisce da dove nasce la tua passione.
Un’altra caratteristica del film è l’utilizzo di diversi formati perché nel corso della visione davanti a noi si alternano filmini amatoriali, fotografie, cinema documentario e in qualche modo anche quello di finzione. Rispetto ad altre opere sullo stesso argomento anche questa è una peculiarità che concorre a dare al film una precisa identità. Peraltro si tratta di un’eterogeneità capace di tenere sempre allerta lo spettatore, stimolandolo con immagini sempre nuove.
Tito. Quello che dici penso corrispondesse alla ricerca di ciascuno della propria identità. Un film collettivo è una cosa complessa e ognuno di noi doveva trovare al suo interno la propria riconoscibilità attraverso i linguaggi e i formati che sono entrati a fare parte del film. Penso sia bello anche per lo spettatore vedere che questa riconoscibilità esiste in maniera concreta. Come dici tu, non era una cosa scontata. Dopo mesi di montaggio in cui certe immagini perdevano di significato, mantenere chiara l’identità dei vari segmenti narrativi diventava importante.
Peraltro le fotografie presenti nel film sono bellissime non solo per il tema, ma anche per come riescono a lavorare sui visi e sui corpi dei loro soggetti.
Tito. Vivendo in uno spazio vuoto e isolato, i miei personali tentativi di trovare l’ispirazione giusta non erano andati a buon fine, La mia routine non penso sia stata diversa dagli altri, a cominciare dai bollettini giornalieri, dalle notizie dei telegiornali e dalla gente fuori con i megafoni. Per sfuggire a quel presente tutto uguale ho pensato potesse avere un suo valore voltarmi indietro per cui, attraverso le fotografie che avevo scattato, mi sono rifugiato nel passato immediatamente precedente che risaliva a poche settimane prima, e che però sembrava molto lontano rispetto a quello che stava succedendo. In aggiunta, questa scelta mi permetteva di fare un discorso sui corpi, sulla corporeità e sul distanziamento.
Le esistenze dei registi di Sotto lo stesso tempo
Il film è costruito anche nel rapporto esistente tra campo e fuori campo. Tra il dentro e il fuori della vostro esistenza psicologica e materiale. Mi piace come lo introducete con l’immagine poetica del vento che muove la tenda e la mdp esce che esce dalla stanza per inquadrare quello che succede all’esterno, con le persone sui balconi in attesa del tempo che verrà.
Alice. Essendo molto giovani ragionavamo sul fatto che per noi quello era stato il primo grande evento epocale a cui avevamo preso parte, l’unico capace di condizionare il seguito delle nostra vite. Quindi, per tornare al discorso sull’eterogeneità dei formati, le domande che ci facevamo riguardavano come si poteva raccontare un evento del genere e come avremmo potuto farlo in quanto ragazzi giovani che vivono in una condizione di privilegio mentre il mondo sta andando in fiamme. Ci interrogavamo su che risposta avremmo potuto dare alla violenza sulle strade e al sentimento negativo che ne scaturiva. Nella divisione dei ruoli, è stata Marta, insieme al nostro supporto, a guardare il mondo dei media, rivolgendosi a quelle immagini che mettevano insieme la messa solitaria di Papa Francesco in Piazza San Pietro e le carceri in fiamme. Ne abbiamo dato una traduzione cinematografica perché ci sembrava la più adatta a restituirne il pathos e l’eccezionalità.
Dicevo prima come mi aveva colpito la forma in cui avete reso la storia ufficiale di quei giorni vista attraverso i media. In quel caso avete deciso di contrarla mentre quella che vi vede protagonisti in prima persona è stata in qualche modo estesa. Rispetto all’andamento del film i pochi secondi che riguardano le immagini della cronaca colpiscono come un pugno in faccia.
CQ. La sequenza a cui ti riferisci raggiunge questa efficacia anche perché dialoga con Matteo che suona Ludwig van Beethoven al pianoforte. In qualche modo il tempo dilatato dal suono dello strumento, amplifica il senso di protezione insito nell’ambiente famigliare e nella presenza del padre. Peraltro questo si scontra – sempre a proposito di discontinuità – con l’esplosione del conflitto sociale presente nel mondo esterno, rimarcando la distanza tra l’interno e l’esterno attraverso l’attrito tra la diverse immagini. È un flusso da cui tu continuamente entri ed esci per guardarti da fuori. Non a caso nella scena successiva c’è Naomi che vuole dormire, quindi c’è il sogno, con lei che risponde di non sapere neanche più che giorno è. In quel momento finisce un capitolo del film perché è il momento della riapertura. In quell’attimo è come se la realtà esplodesse.
Alcune sequenze
Un’altra sequenza bella e particolare per contenuti e forma è quella girata in esterni e in ambiente notturno in cui per la prima volta vi trovate tutti insieme. La sua peculiarità è quella di vedervi insieme ma anche la scelta di trasformare l’energia di quel momento attraverso una serie di linee psichedeliche che attraversano le immagini testimoniando l’entusiasmo del momento.
Mario. Sì, per me quello è un momento molto personale in cui per la prima volta conoscevo i ragazzi dal vivo. Ciò comportava, anche dal punto di vista filmico, la necessità di trovare il modo di unificare la mia storia alla loro. Venendo da mesi di isolamento ritrovarci insieme mi sembrava una cosa bellissima.
CQ. Sempre dal punto di vista narrativo, all’inizio le linee sono tutte individuali poi, con l’apertura, abbiamo ragionato su come queste vite isolate potessero intrecciarsi nel momento in cui i ragazzi, smettendo di vivere nelle loro solitudini, iniziavano ad apparire come una classe di studenti. La scommessa era quella di raccontare i ragazzi come persone isolate fra loro e poi come una comunità di persone giovani che inizia a ragionare sull’uso dello sguardo e su come far diventare la loro, una voce collettiva.
Un’altra sequenza che mi ha colpito è quella in bianco e nero in cui vediamo delle strutture architettoniche di quella che dovrebbe essere una ferrovia. Per come è stata girata, in semi soggettiva, dal basso verso l’alto e con una restrizione del campo visivo, la scena rende bene l’idea di nuova realtà, ovvero quella sorta di smarrimento che accompagnava la ripresa di una vita quotidiana a cui c’eravamo disabituati.
Mario. Abbiamo parlato molto di questo perché la scelta del bianco e nero per la mia linea narrativa è stata molto forte. Prima di venire in l’Italia conoscevo il vostro paese solo attraverso il cinema e quello che vedevo era sempre in bianco e nero. Dunque, forse per me era questo il modo più adatto per parlare dell’Italia con la sua stessa lingua. Per quanto riguarda la scena del treno, in quel momento stavo andando all’ufficio immigrazione per fare dei documenti: era la prima volta che uscivo fuori dalla città e vicino a Palermo c’è questa stazione con colonne alte e imponenti. Hai ragione a dire che è un architettura strana perché è come essere all’aperto ma in qualche maniera all’interno di uno spazio coperto. È una sorta di gabbia attraverso cui passa il sole ma dalla quale tu non puoi uscire, dunque con le immagini volevano rendere la sensazione di costrizione che si prova a stare lì.
La sequenza conclusiva
Per concludere questo viaggio all’interno del vostro film volevo parlare della sequenza conclusiva in cui il tasto rotto del pianoforte rimanda come meglio non si potrebbe alla sensazione di aver vissuto un’esperienza che anche sotto l’apparenza di una ritrovata normalità ha comunque cambiato per sempre le nostre esistenze.
Matteo. Oltre a quel tasto, il pianoforte aveva avuto altri problemi per cui ogni volta che cercavo di suonare qualcosa mi arrabbiavo per non poterlo fare come volevo. Durante le riprese è capitato più volte che l’occhio andasse su quel tasto schiacciato verso il basso. Riguardandole abbiamo notato questo dettaglio e da qui c’è venuta voglia di inserirlo nel film. A livello di significati rappresenta una musica incerta, uguale all’incertezza che ancora ci portiamo addosso da quel periodo.
Alice. Un’altra dimensione che caratterizza il film e che per noi si è rivelata importante è stata, a un certo punto, man mano che la narrazione procede e che ci troviamo insieme come gruppo classe, la dimensione del gioco, ovvero di un senso di spensieratezza che ci piaceva tirare fuori perché ci caratterizza come persone. Penso che emerga in molti momenti del film, per esempio quando io Gianfranco e Tito guardiamo insieme le fotografie. Anche quello era un tentativo di alleggerire l’atmosfera che stavamo vivendo.
Costanza Quatriglio su Sotto lo stesso tempo e sui registi
A Costanza chiedo di fare un consuntivo finale sia come direttrice artistica del Centro Sperimentale di Cinema di Palermo che ha dato i natali al film, sia in termini di una prospettiva più personale.
CQ. Quando fai questo tipo di operazioni la sfida è sempre alta perché non ti puoi sostituire ai ragazzi. Devi rispettare i tempi di comprensione ed elaborazione che consentono di arrivare alle cose. È stato entusiasmante ma anche molto faticoso. Le call settimanali sono esperienze irripetibili perché non era mai accaduto una cosa del genere e ci siamo inventati un metodo di lavoro, che alla lunga ha premiato tutti i nostri sforzi. Ho vissuto quei momenti come una continua scoperta, consapevole di avere la responsabilità di un gruppo di persone che all’inizio era molto spaventato. Abbiamo lottato continuamente contro una tendenza generale al ribasso, una tendenza alla depressione e al rinchiudersi in casa a cui abbiamo risposto ritrovandoci a fare spesso, come adulti, discorsi motivazionali. A distanza di due anni questa esperienza mi ha dato la conferma di quello che sembra un atto di superbia ma che invece credo sia un atto di fiducia: se ci credi, le cose le fai, anche con sacrifici importanti. Abbiamo creduto nel potenziale dei ragazzi, nel nostro potenziale come gruppo di lavoro, nel cinema e nella vita.