La casuale distribuzione in concomitanza di Belfast (2021) e Assassinio sul Nilo (Death on the Nile, 2022), uscito soltanto ora dopo ben due anni d’attesa causa pandemia, permette una comparazione tra le due anime registiche di Kenneth Branagh: quella sfarzosa, da blockbuster hollywoodiano, e quella intimista e umana, riconducibile alle prime pellicole. Due produzioni certamente agli antipodi, che confermano però le qualità della messa in scena e la capacità nel dirigere gli attori.
In un’intervista Branagh ha confidato, con humour:
“Ci ho messo due mesi e 50 anni! Due mesi per girarlo, intendo, e una vita a concepirlo”
Belfast pesca dai ricordi di quella preistorica infanzia del regista, ma è un’opera semi-autobiografica, poiché soltanto pochi aspetti narrati riguardano la vera infanzia di Branagh (ad esempio nella realtà aveva anche una sorella, il padre era un idraulico). Il lungo iter di ponderazione per plasmare la storia evidenzia proprio il faticoso lavoro di allontanamento, per passare da una visione personale a un racconto oggettivo. Vediamo la Belfast del 1969 attraverso gli occhi di Buddy (Jude Hill), ma non sono quelli di Branagh, perché il suo sguardo è incentrato nell’inquadrare Buddy, la cittadina e gli abitanti che lo circondano.
Pertanto, messi da parte i ricordi personali, che fungono da perimetro, con Belfast Branagh applica nuovamente quell’universalizzazione del discorso, di radice shakespeariana, e che il protagonista rappresenta: Buddy, nome che già sottintende generalità, è un qualunque bambino irlandese che ha visto e vissuto un determinato periodo storico. I Troubles, scoppiati nella notte del 14 agosto 1969, benché rievochino i disordini di Belfast, possono rappresentare anche altri tipi di guerriglie urbane, come ad esempio quella rappresentata in Fa la cosa giusta (Do the Right Thing, 1989) di Spike Lee.
Non a caso nel finale Branagh dedica il film a tutti quegli irlandesi che sono andati via e a tutti quelli che sono restati. La scelta della famiglia di Buddy di emigrare in Inghilterra non è giusta o sbagliata; è solamente un opzione.
Belfast, ritorno alle – proprie – origini
In quest’ultimo decennio molti critici e/o cinefili avevano pensato che il raffinato Branagh si fosse ormai (s)venduto al cinema di Hollywood, prestando il suo talento registico a opere prettamente commerciali. Un Sir inglese che ha posto le sue onorate credenziali in Thor (2011), Jack Ryan – L’iniziazione (Jack Ryan: Shadow Recruit, 2014), Cenerentola(Cinderella, 2015), Assassinio sull’Orient Express (Murder on the Orient Express, 2017) e Artemis Fowl(2019), riprendendo anche in mano il Bardo, con lo sfortunato biopic Casa Shakespeare (All Is True, 2018).
L’arrivo di Belfast, quindi, si rivela come una sorpresa. Un ritorno alle origini, non in riferimento ai temi prediletti (a esclusione della già menzionata universalità), essendo Belfast – al momento –un unicum nella sua carriera, ma in riferimento al tipo di produzione.
Storia di formazione prettamente intimista (il centro è Buddy e il suo nucleo familiare), la pellicola si affianca a quelle precedenti opere intimiste incentrate su piccoli gruppi assortiti che vivono “stretti” in un presente reale: Gli amici di Peter (Peter’s Friend, 1992), Il canto del cigno (Swan Song, 1992), Nel bel mezzo di un gelido inverno (In the Bleak Midwinter, 1995), Listening (2003). A cui bisognerebbe aggiungere Un mese in campagna (A Month in the Country, 1987) di Pat O’Connor, storia ambientata in un piccolo paese di campagna, in cui però Branagh era soltanto attore.
Gli amici di Peter e Nel bel mezzo di un gelido inverno sono accomunati dalla messa in scena circoscritta in un piccolo spazio (una villa o le sale teatrali) di un gruppo di persone. In entrambi i film c’è un protagonista (Peter nel primo, il regista Joe Harper nel secondo) come in Belfast, ma i personaggi che ruotano intorno sono ugualmente fondamentali, per confronti e conflitti. Con queste opere Branagh ha potuto maggiormente lavorare sulla gestione di un cast corale.
Gli amici di Peter (1992)
Il canto del cigno e Listening sono due cortometraggi, le cui storie vertono sul confronto tra due soli personaggi. In Belfast Buddy spesso si trova in scena con un altro personaggio soltanto (uno dei nonni, la mamma, il padre, un’amica). Sono confronti tra due generazioni differenti, oppure tra due generi (maschio femmina). In questi rapporti riappare l’universalità del discorso, in cui i personaggi sono figure riferibile a qualsiasi individuo. Ad esempio, quando Buddy cerca di conquistare la sua compagna di banco, molti spettatori possono riconoscersi in quel tentativo.
Il canto del cigno è un omaggio di Branagh a John Gielgud e a Richard Briers; però gli attori vestono i panni di due anziani interpreti, andando a rappresentare tutto il mondo del teatro che fu. E Listening mette in scena il casuale incontro tra un uomo e una donna, che rappresentano, dietro alcune differenze, qualunque persona. Questi due cortometraggi sono anche delle rarità, poiché nella filmografia di Branagh prevale la lunga durata, mentre in questi casi ha lavorato sull’essenziale, sull’intimo.
In questo discorso, bisognerebbe aggiungere anche Sleuth – Gli insospettabili (Sleuth, 2007), pellicola che mette a confronto due uomini (Michael Caine e Jude Law). Storia incentrata su due personaggi, ma non universali, essendo ben marcati nella fisionomia e dalla derivazione teatrale e cinematografica: è il remake dell’omonimo film di Joseph L. Mankiewicz, che a sua volta era l’adattamento della pièce di Anthony Shaffer.
Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995)
Kenneth Branagh in bianco e nero
Belfast si apre su smaglianti colori odierni, con scene montate, e commentate dalla musica, come se fossero l’incipit dell’ennesimo episodio fico della Marvel. Avvicinatosi a un muro in cui c’è un vivace graffito, Branagh lo scavalca con la macchina da presa, con un movimento simile a quello de Il pianista (The Pianist, 2002) di Roman Polanski (altra opera su un lontano passato), e la pellicola si tramuta in bianco e nero, sottolineando il salto nel passato.
Una delle qualità presente in tutti i film di Kenneth Branagh è la fotografia, di volta in volta declinata a seconda delle sfumature delle storie. Cupa e selvaggia in Enrico V (Henry V, 1989); ariosa in Molto rumore per nulla (Much Ado About Nothing, 1993); livida in Frankenstein di Mary Shelley (Frankenstein, 1994); regale in Hamlet (1996); da musical classico in Pene d’amor perdute (Love’s Labour’s Lost, 2000); pucciniana in As You Like It – Come vi piace (As You Like It, 2006); fiabesca in Cenerentola.
Anche i due adattamenti cinematografici dei romanzi di Agatha Christie hanno una confezione raffinata, con una fotografia che rimanda ai serial cinematografici degli anni Trenta.
Pene d’amor perdute (2000)
Con Belfast il bianco e nero, a cura di Haris Zambarloukos (stretto collaboratore di Branagh a cominciare da Sleuth) riappare nella filmografia del regista inglese per la terza volta. Un utilizzo che si differenzia in tutti e tre i casi. La prima volta, venne usato ne L’altro delitto (Dead Again, 1991), per evidenziare nel classico linguaggio cinematografico i flashback.
In Nel bel mezzo di un gelido inverno, il bianco e nero ammanta tutto il film. Un bianco e nero che rafforza quel senso di “povertà” produttiva nella quale si barcamena il piccolo gruppo di attori, trasformando la pellicola anche in un atto di commemorazione (vedendola oggi, effettivamente il film è un reperto di un altro secolo) di questi piccoli individui temerari e coraggiosi.
In Belfast il bianco e nero è meno cupo, più tendente al grigio, ed è la rievocazione di un lontano passato, tanto malinconico (l’emigrazione, la morte) quanto sentimentale (il primo amore, le prime avventure). Se si leggono i gusti cinefili di Kenneth Branagh, tra i titoli spuntano Manhattan(1979) di e con Woody Allen e Toro scatenato (Racing Bull, 1980) di Martin Scorsese. Nel film di Allen, la fotografia (curata da Gordon Willis) accentua l’afflato del regista verso la città, mentre in Toro scatenato (creata da Michael Chapman) le fosche sfumature ricreano cinematograficamente gli anni Quaranta.
Belfast si può connettere agli umori fotografici di Manhattan, e tra l’altro Branagh recitò in Celebrity (1998) di Allen, altra commedia confezionata con il bianco e nero.
La – particolare – cinefilia braghiana
In Belfast, salta subito all’occhio l’ironica (auto)citazione di Thor, nella scena in cui Buddy sta leggendo l’omonimo fumetto, che si ricollega ai manifesti e alle scene iniziali, quando Buddy ha il coperchio di un bidone della spazzatura e lo usa come scudo (sarà poi utile alla madre per proteggersi, quando ha inizio la sassaiola). A suo tempo, fece storcere il naso a molti il fatto che Sir Branagh avesse accettato di dirigere un blockbuster.
Ma nel film sono ravvisabili altre citazioni, tra cui due macroscopiche e fondamentali, perché si ricollegano alla biografia del regista: le scene al cinematografo e al teatro. In queste scene ritorna con forza il colore, proprio per evidenziare la magia immaginifica che può scaturire da queste due forme di spettacolo e affascinare la gente. In particolare, la fotografia nella rappresentazione di Canto di Natale di Charles Dickens assume pastosità più fiabesche, e marca fi più l’amore di Branagh per il teatro.
Chitty Chitty Bang Bang (1968)
I due film che Buddy e la famiglia vedono al cinema sono Un milione di anni fa (One Million Years B.C., 1966) di Don Chaffey e Chitty Chitty Bang Bang (1968) di Roald Dahl e Ken Hughes. Due produzioni prettamente commerciali, in cui prevale l’aspetto sessuale (Rachel Welch in bikini preistorici) nel primo e la fantasia (la macchina volante, che fa sussultare di tensione tutta la famiglia) nel secondo. È un omaggio a una forma di cinema popolare, e in un certo qual modo progenitore dei roboanti blockbuster odierni.
In Belfast, però, compaiono anche altri spezzoni di film, che riveriscono un’altra tipologia di cinema popolare, più attento alle sfumature psicologiche. Buddy e il fratello vedono in televisione Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952) di Fred Zinneman e L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) di John Ford. Tutte queste pellicole citate in Belfast non hanno connessioni con la futura carriera di Branagh, se si esclude la sua partecipazione al western tecnologico Wild Wild West (1999) di Barry Sonnenfeld, ma inserendole il regista accenna alla sua formazione cinematografica.
Volgendo lo sguardo alle sue regie antecedenti, affiorano alcune citazioni inserite nei film. L’altro delitto, certamente l’opera più cinefila poiché si rifà al cinema di Alfred Hitchcock, contiene due rimandi: a Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955) di Orson Welles e a Il terrore corre sul filo (Sorry, Wrong Number, 1948) di Anatole Litvak.
In Frankenstein di Mary Shelley, infausta trasposizione fedele del romanzo, viene aggiunta la figura della moglie fatta ritornare in vita, che è presente soltanto ne La moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein, 1935).
Branagh omaggia Judi Dench
In Belfast riluce l’interpretazione di Judi Dench, nel ruolo della borbottante ma dolce nonna di Buddy. L’ultimo primissimo piano sul volto, solcato dalle rughe ma con quello sguardo rimasto infante, della Dench è un amorevole ossequio alla grandezza recitativa dell’attrice.
Nata nel 1934, la Dench è riconosciuta come una delle maggiori attrici del cinema e del teatro inglese. Tra i moltissimi premi vinti, ha ottenuto anche l’Oscar per la miglior interpretazione in La mia regina (Mrs. Brown, 1997) di John Madden. É principalmente nota a livello planetario per aver incarnato, da Goldeneye (1995) di Martin Campbell fino a Spectre (2015) di Sam Mendes, il ruolo di M, il direttore del servizio segreto inglese di cui l’agente 007 fa parte.
Kenneth Branagh ha usufruito delle formidabili doti recitative della Dench diverse volte, in particolare per le trasposizioni shakespeariane. In Enrico V ha interpretato il ruolo di Nell Quikly, guardiana della taverna; in Hamlet è la figura mitica di Ecuba; in Assassinio sull’Orient Express veste i panni della Principessa Natalia Dragomiroff; in Casa Shakespeare è Anne Hathaway, la moglie del Bardo; in Artemis Fowl la fantasiosa Comandante Tubero.
Belfast, pertanto, è solo l’ultima dei sentiti omaggi di Branagh verso i mostri sacri del teatro del Novecento, già fatti con: John Gieguld, Ian Holm, Richard Briers, Derek Jacobi.
“La recitazione? La cosa più importante nella faccia sono gli occhi; se riesci a farli parlare sei già a metà strada.”
(Ian Holm)
Quell’ultimo primo piano sul volto e gli occhi di Judi Dench è direttamente ricollegabile all’atto di ossequio a John Gieguld e a Richard Briers ne Il canto del cigno.
In un teatro vuoto, la macchina da presa osserva con sguardo ammirato la recitazione dei due attori inglesi.
Belfast di Kenneth Branagh sarà al cinema dal 24 febbraio
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