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I capisaldi del cinema indipendente americano

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L’essenza del cinema indipendente trova la sua ragion d’essere soprattutto nella necessità di poter narrare nella maggior libertà di cui si possa disporre. Infatti, per un narratore come si ritrova ad essere, a tutti gli effetti, e non meno di uno scrittore, il regista, ovvero il responsabile di un’opera cinematografica, la possibilità di concepire in piena autonomia una propria opera basata su fatti, veri, reinterpretati o di fantasia, si è sempre rivelata come uno dei fattori determinanti per la riuscita di un film.

Spesso la “formula magica” che fa la differenza tra un film compiuto, e in grado di mettere alla prova la sensibilità dello spettatore stuzzicandogli le corde dell’emozione, e un film che invece fallisce clamorosamente in questa complessa opera di persuasione e seduzione emotiva, risiede proprio nella libertà d’espressione di cui dispone colui che ha la responsabilità di tradurre in immagini un racconto altrimenti sviluppato oralmente o trascritto su volumi.

La storia della “settima arte” è colma di esempi di opere che, sulla carta, parevano destinate a rasentare la perfezione, e che poi invece si sono arenate tra l’incudine ed il martello di una disputa senza fine. I contendenti di questo conflitto si identificano quasi sempre da una parte nel regista, ovvero in colui che è rivestito della responsabilità di esprimersi e comunicare un proprio concetto, e dall’altra nel produttore, figuro sovente meno ispirato e anzi spesso incline a tendere a modificare ed addomesticare il messaggio espresso con passione dall’autore, per renderlo più incline ad essere recepito più semplicemente dal pubblico, unico vero garante di un eventuale ritorno economico. Risultato che, effettivamente, nessuna critica positiva o lode sperticata riesce di norma ad assicurare con la medesima efficacia di un consenso plebiscitario da parte dell’utente finale.

I cancelli del cielo

Si è sempre parlato di “cinema indipendente americano” o di “autori” indipendenti americani”, perché è proprio negli States che l’industria del cinema ha dato vita, già dalla seconda metà degli anni ’30 (si pensi a produzioni come Il mago di Oz o Via col vento), a una vera e propria industria milionaria, in cui il budget di un singolo film è in grado di assicurare i guadagni di un anno intero di lavoro di una nemmeno troppo piccola comunità di anime, o, al contrario, di compromettere per sempre la solidità di una casa di produzione di prima grandezza.

L’esito nefasto ed epocale di un film peraltro meraviglioso come è considerato, oggi più che mai, I cancelli del cielo dello straordinario autore Michael Cimino, ai tempi lanciatissimo dopo il successo planetario riscontrato con Il cacciatore, e giunto alla conferma della sua fama proprio con questa sua mastodontica opera terza datata 1978, si rende responsabile non di meno del quasi fallimento della United Artist, per questo ceduta alla MGM onde scongiurare il tracollo.

D’altro canto i due ruoli antitetici in questione (regista vs. produttore) rispondono ad esigenze così differenti che spesso non riescono a collimare, né a trovare una soluzione di ripiego: il regista cerca di trasformare in arte, fino ad arrivare a sublimarla, una narrazione di fatti ed eventi, mentre il produttore cerca di fare in modo che il lavoro del regista, nel quale ha riposto fiducia e speranze investendo una certa somma di denaro, si traduca il più possibile in un affare lucroso, per continuare e dare un senso al proprio lavoro e alla relativa propensione al rischio ostentata dando corso al progetto al centro dello sforzo collettivo.

Ecco pertanto che, da questa eterna diatriba, spesso di difficile o impossibile soluzione, è nata, già dagli anni ’50 in avanti, una tendenza di una piuttosto fitta schiera di autori più integralisti e meno condizionabili, ad arrangiarsi a produrre i rispettivi film con fondi limitati, facendo in modo di sostituire l’opulenza produttiva con una più svincolata libertà creativa che prediligesse il contenuto alla ridondanza di mezzi, ovvero la sostanza alla forma.

Ci sono stati, e ci sono tuttora più che mai, autori che nascono indipendenti, e si convertono al potere seducente del budget e della sostanza, pregiudicando o mettendo un po’ da parte la loro autentica ispirazione; al contrario c’è chi nasce indipendente e tende a rimanere tale anche a costo di dover aspettare anni per concludere un progetto secondo il proprio insindacabile gusto estetico.

L’indipendenza nel cinema di genere, ovvero nell’horror

Il cinema è iniziato all’insegna della “indipendenza” per molti maestri del cinema horror americano: basti pensare alla triade di re del cinema di genere, come lo sono stati (e sono tuttora) geni del calibro di George A. Romero Wes Craven e John Carpenter.

George A. Romero, con il suo piccolissimo cult assoluto La notte dei morti viventi, del 1968, ha aperto le porte a un genere che ha fatto nascere un vero e proprio capitolo a parte nel mondo del cinema horror, permettendo allo stesso autore di sviluppare ben 4 seguiti nell’arco di un lungo quarantennio. Romero ha tentato anche le vie di produzioni più sostenute, ma non sarà certo mai ricordato per film pur dignitosissimi come Monkey Shines o La metà oscura, quanto invece resterà immortale per la sua meravigliosa e straordinaria saga incentrata sui morti viventi, che saprà aggiornarsi e adeguarsi ai cambiamenti sociali ed economici, sociali e civici, affrontando vieppiù dinamiche mature e insolite all’interno del cinema di genere, come quella delle pari opportunità e dell’intransigenza nei confronti dei “diversi”. Toccando in tal modo connotati politico-etici che non avrebbero mai attratto il portafoglio degli esigenti produttori di colossal hollywoodiani.

Se Wes Craven, geniaccio non meno di Romero, ha iniziato con gioielli horror indimenticati a basso budget come L’ultima casa a sinistra (1972), e Le colline hanno gli occhi (1977), passando nel mezzo attraverso il soft-porno sempre rigorosamente low budget di La cugina del prete (1975), verso la metà degli anni ’80 ha imparato a scalare le vette della notorietà con il basilare incubo ad occhi aperti Nightmare – dal profondo della notte (1984): un cult che lo porta al culmine della fama e degli incassi, ma anche un fenomeno che gli scappa di mano, generando una serie infinita di sequel – più o meno riusciti, nessuno all’altezza del capostipite, riacciuffando l’occasione di tornare in regia di uno di essi solo nel 1994 e passando, con alterne fortune, a produzioni di serie A che lo allontanano, seppur solo momentaneamente, dal mondo di genere, come avviene con l’insipido Vampiro a Brooklyn (1996) o lo smielato La musica del cuore (1999) costruito più che altro sul carisma di Meryl Streep, nonché più unica che rara incursione di Craven al di fuori del genere horror. Il cineasta tuttavia saprà reinventarsi con una lezione sul mondo del cinema horror grazie ai quattro capitoli ispirati ed ironici, oltre che sadici e sbruffoni, della serie Scream: tutti mediamente piuttosto riusciti, a metà strada tra horror e farsa, ma tutti di fatto estremamente poco indipendenti.

Halloween film

John Carpenter invece ha sempre giocato a rimpiattino con le majors hollywoodiane, entrando e uscendo attraverso un mondo che lo ha sempre attratto, ma in cui mai è riuscito veramente a trovare quell’equilibrio e quella serenità produttive e professionali tali da poterlo assicurare saldamente alla sponda delle produzioni a largo budget.
Trovando però molto più lui, rispetto ai due illustri colleghi precedenti, l’occasione per risultare grande anche con i grossi capitali e lo scotto di sopportare l’alito pesante dei finanziatori-aguzzini alle calcagna.

I suoi esordi, con l’esilarante farsa fantascientifica di Dark Star del 1974, seguita dal memorabile e tesissimo thriller Distretto 13: le brigate della morte, lo hanno reso celebre aprendogli le porte per il suo horror seminale, ovvero l’inarrivabile Halloween. La notte delle streghe (1978), da cui ebbe inizio una interminabile serie di sequel, reboot e remake, alcuni dei quali prodotti dal regista stesso, e in grado di aprirgli le porte di Hollywood.

Ma saranno sempre luci ed ombre ad alternarsi: a successi come il cupo fantascientifico e già un po’ distopico 1997: Fuga da New York, si succederanno meraviglie come La cosa, tormentate tuttavia da tribolate vicissitudini produttive che spingeranno, dopo qualche altro film diretto più per obblighi contrattuali che per pura convinzione (tra questi il riuscito Christine. La macchina infernale, ma pure il fantastico-romantico Starman, nonché il bellissimo e smargiasso flop rappresentato da Grosso guaio a Chinatown), a cambiare aria e a darsi all’indipendenza.

Essi vivono, Il signore del male, Villaggio dei dannati, Vampires, Fantasmi da Marte, ne sono esempi lampanti: produzioni tutte idee e voglia di raccontare alla propria maniera, rinunciando per questo alla possibilità di poter contare sulle tecniche più all’avanguardia, in un genere come l’horror o il fantastico che ne prevedono un frequente ricorso.

Cinema indipendente: giovani futuri grandi maestri che nascono liberi, sfondano nel cinema di serie A, e a volte tornano nei ranghi del cinema “fai da te”

Coppola, Scorsese, De Palma, oltre ad essere accomunati dalla circostanza di rivendicare, quasi platealmente, origini italiane, e di rientrare senza esitazione tra i migliori cineasti in assoluto della storia del cinema, possiedono un’altra singolare caratteristica in comune: nascono e si fanno notare grazie al cinema indipendente.

Francis Ford Coppola muove i suoi primi passi cinematografici sotto l’ala protettrice di Roger Corman, regista e produttore simbolo del cinema di genere a bassissimo costo e, nonostante ciò, di buona fattura. Dopo il non proprio esaltante nel ’62 con Tonight for Sure, eccolo coinvolto in un horror bizzarro quanto curioso: Dementia 13 – Terrore alla tredicesima ora dove l’influenza carismatica di Corman è palpabile. Inizierà a farsi notare come autore nell’ancor indipendente Buttati Bernardo!, con cui regala a Geraldine Page una nomination come miglior attrice non protagonista agli Oscar del 1967.

Basteranno cinque anni è sarà tempo de Il padrino e della serie A, che abbandonerà solo dopo l’insuccesso del suo tenerissimo Un sogno lungo un giorno, a causa del quale tornerà al budget “fai da te” e al dittico indimenticabile dei ragazzi perduti: The outsiders e soprattutto Rumble fish. Entrambi risalenti al 1983, i film sono stati tradotti da noi come I ragazzi della 56° strada e Rusty il selvaggio. Grazie a queste due produzioni indipendenti, Matt Dillon spicca il volo e diventa un divo di serie A. Cose che capitano solo a Hollywood e dintorni.

Martin Scorsese, nipote di immigrati palermitani trapiantati nel quartiere newyorkese del Queens, scampato alla tentazione di divenire prete, studia cinematografia alla New York University e, dopo aver diretto alcuni cortometraggi in 16mm, con una borsa di studio della medesima scuola, nel 1965 inizia a lavorare al suo tormentato lungometraggio di esordio, Chi sta bussando alla mia porta, che verrà terminato due anni dopo, per uscire in sala solo nel 1969.

Oltre a fargli incontrare l’attore Harvey Keitel, il film gli diede la possibilità di farsi notare, pure lui, da Roger Corman, che gli produsse, sempre a budget risicati, l’apprezzato gangster movie America 1929 – Sterminateli senza pietà.

Corman avrebbe voluto affidargli un altro dei suoi progetti, ma Scorsese rifiuta per girare, sempre nel circuito indipendente, il folgorante noir Mean Streets. Dopo questo film, fu la volta di un apologo critico sul sogno americano con lo struggente Alice non abita più qui, che anticipa Taxi driver e una carriera costellata quasi solo di capolavori indimenticati ed indimenticabili. Resterà accanto alle majors, il nostro Scorsese, anche se, recentemente, per riuscire a trovare i fondi per dirigere il titanico The Irishman, accetterà di farsi produrre da Netflix e, di conseguenza, a malincuore, rinunciando, almeno in via esclusiva, alla distribuzione massiva al cinema, aprendo la strada alla nuova esperienza “ibrida” tra streaming e sala d’essai tipica del noto brand di distribuzione via internet.

Cinema indipendente: gli irriducibili – ragazzacci come Cassavetes, Jarmusch, Waters, Jost, Solondz & c.

Ci sono infine registi che, per coerenza ed impossibilità di conciliare la tematica cardine delle rispettive argomentazioni, hanno potuto trovare soddisfazione e giusta vena d’ispirazione, dedicandosi unicamente alla produzione e direzione di opere indipendenti.

L’intransigenza di questi capisaldi del cinema d’autore indipendente ha anche creato carriere spesso inimitabili e percorsi pervasi da coraggio e coerenza, in grado di generare carriere dalla purezza talvolta cristallina.

Tra questi autori inizierei a citare John Cassavetes, quintessenza del cinema indipendente: il padrino della improvvisazione, appannaggio di un cast che, nel corso della sua carriera, si è dimostrato quasi come una famiglia per la costanza nell’esser scelto quasi sempre nei suoi abituali, straordinari interpreti: a partire dalla moglie Gena Rowlands, per arrivare ai prediletti Peter Falk, Seymour Cassel, Ben Gazzarra.

I suoi film sono quasi tutti memorabili: scomparso troppo prematuramente, va ricordato per quasi tutti i film di cui fu regista. Citandone almeno uno per decennio, non si può esimersi da: Faces del 1968, logorroica e furente fine di una storia di coppia, L’assassinio di un allibratore cinese del 1976, noir coinvolgente e cupo incentrato su un assassinio su commissione necessario per far uscire indenne il protagonista da una storia di debiti e scommesse avventate; e infine Gloria. Una notte d’estate, del 1980, storia di una madre-non-madre in fuga col suo piccolo protetto, forte di una inarrivabile Gena Rowlands da cardiopalma e dalla pistola facile e sempre carica.

Ci hai lasciato troppo presto John… davvero troppo presto.

Se dovessimo stilare una classifica dei registi irrimediabilmente più indipendenti, Jim Jarmusch – classe 1953 – risulterebbe certamente tra i primissimi posti.

Figlio di immigrati di origini irlandesi e ceco-tedesche, studia giornalismo a Chicago, ma si innamora del cinema durante una trasferta-studio a Parigi, ove frequenta le più storiche cineteche della capitale. Dopo il mediometraggio d’esordio, nonché tesi di laurea, intitolato Permanent Vacation del 1980, già con l’opera seconda riesce a farsi notare e premiare presso alcuni prestigiosi festival: ottiene la Camera d’Or al Festival di Cannes del 1984 per la migliore opera prima, e vince persino il Pardo d’Oro al Festival di Locarno. Da quel momento diventa autore culto dei cinefili, incrociando lungo il suo cammino pure il nostro Roberto Benigni, che coinvolgerà nella sua favola poetica e surreale intitolata Down by law (o semplicemente Daunbailò nelle nostre sale). Seguiranno altri film culto come Mystery Train, il magnifico western crepuscolare ed ironico Dead Man con Johnny Deep, l’ancor più convincente Ghost Dog, fino ad arrivare alle più recenti introspezioni del genere nell’affascinante Solo gli amanti sopravvivono con Tilda Swinton e il sarcastico I morti non muoiono, che ha aperto il Festival di Cannes tre anni orsono, inframmezzati dalla commedia delicata ed incantevole Paterson, forte di un Adam Driver mai così in parte ed ispirato, in Concorso a Cannes ed assai apprezzata dalla critica. Con o senza attori famosi, Jarmusch rimane un regista ostile alle majors, deciso a percorrere sentieri personali senza preoccuparsi di farsi ammaliare dalla lusinga di vedersi offrire cachet inarrivabili, e certo di poter contare su un piccolo stuolo di star disposte a lavorare per lui a compensi da minimo sindacale.

Altro regista cardine del cinema indipendente americano, è certo il pittoresco e dissacrante John Waters, re del cinema trash, dello scandalo senza limiti, degli eccessi, e addirittura del cinema in “odorama”, ovvero con gli odori – ovviamente sgradevoli – che dallo schermo si rendono “respirabili” pure in sala, a maggior pena o sadico compiacimento di spettatori eccentrici o in vena di trasgressioni folli.

Con il suo attore feticcio, il travestito pingue e sessuomane Divine, scientemente eccessivo e sgradevole, Waters ha girato i suoi primi film in super 8, raggiungendo la fama con lo scandalosissimo Pink Flamingos, risalente al 1972. Il film-shock diviene celebre per alcune scene impossibili, ora impensabili anche solo da concepire: tra esse il sesso-tortura di una gallina e un energumeno (una scena inevitabilmente sprovvista di ogni effetto speciale che possa non compromettere la sorte del povero animale), o la stessa Divine che, per scommessa, si ciba di escrementi di cane (e la leggenda vuole che si tratti di atto compiuto senza alcun trucco o finzione al riguardo).

Dopo questo film, la sua dissacrante verve non smette di colpire, anche se i film che seguono, alcuni davvero notevoli come Polyester (ultimo film della celebre icona Divine, morta di eccessi poco dopo le riprese del film), o più addomesticati come Grasso è bello, Cry baby (con un poco più che esordiente Johnny Deep) e Serial mom (con la splendida Kathleen Turner, mamma assassina per ripulire il mondo dal disordine e dalla imprecisione), non raggiungono la capacità di stupire, stordire e sin schifare i suoi più affezionati ed irriducibili fans.

Al confronto di Waters, certamente assai meno noto, ma non meno straordinario, appare Jon Jost, regista di Chicago, tra l’altro più o meno coetaneo del primo, e considerato dai cinefili uno degli autori per eccellenza del cinema indipendente.

Autodidatta e assai più di nicchia del collega, oltre che decisamente meno prolifico, Jost ha goduto di una certa notorietà tra i cinefili verso la prima metà degli anni ’90.

In quel periodo film come Tutti i Vermeer a New York (1990), The bed you sleep in – diventato Alla deriva da noi (1993) e l’italiano Uno a te, uno a me, uno a Raffaele (1994), circolarono ed ebbero un certo seguito di cinefili adoranti nei circuiti d’essai europei.

Se si mette da parte la curiosa ma sin troppo grottesca esperienza italiana compiuta con Uno a te, uno a me, uno a Raffaele, incentrato sulla deplorevole tradizione tutta italica del sistema delle tangenti e della corruzione che regnavano sovrane poco prima dei tempi di “Mani pulite”, i film davvero notevoli di questo regista sono senza dubbio i primi due citati.

Privi entrambi di una sceneggiatura realmente compiuta, ma semplicemente adagiati su una bozza di idee che si rivelano più sensazioni che punti fermi, i due film spaziano tra il percorso contemplativo suscitato dalla visione dei più celebri quadri del famoso pittore olandese Vermeer, che induce a riflettere sulla relazione che esiste tra l’arte, l’amore e la morte, ben espresse e rappresentate dalla vorticosa e potente pittura dell’artista, e la tragedia familiare che si consuma quando un padre operaio reputato onesto e tutto dedito alla famiglia, viene accusato di molestie sessuali da una figlia, forse plagiata da un gruppo di balordi…. o forse no.

Alla deriva” conduce lo spettatore ai margini di un abisso che il realismo sfrontato ed esasperante del film riesce a rendere palpabile sul pubblico, rendendo il film davvero sconvolgente, snervante, ed in fondo anche meraviglioso.

Per cercare di concludere con gli indipendenti più intransigenti, senza uscire molto dalle tematiche di Alla deriva, non possiamo non annoverare tra questo gruppo di consolidati amanti incondizionati della libertà d’espressione, il regista del New Jersey Todd Solondz.

Classe 1959, e da sempre interessato a sondare i fondali più cupi entro cui si celano esistenze all’apparenza trasparenti ed inappuntabili, il regista mira a scoprire le contraddizioni di facciata della classe borghese più bigotta e perbene. Solondz si fa notare alla più nota manifestazione dedicata al cinema indipendente: il Sundance creato e portato avanti per anni da Robert Redford.

Solondz riesce a farsi notare già col suo primo dissacrante e sarcastico Fuga dalla scuola media, del 1996, incentrato sulle vicissitudini di una goffa undicenne emarginata e presa di mira dai suoi compagni di scuola crudeli e bulli. Ma è con Happiness che lo studio dissacrante sulle ipocrisie criminose della borghesia apparentemente più tranquilla e benestante, finisce per esplodere in una serie di deliri che sfociano, tra le altre tragedie, in abusi sessuali a danno di minorenni, in reazioni violente che rispondono all’esigenza di vendicarsi di altri soprusi non meno devastanti, fino ad una resa dei conti in cui ci prende coscienza di non essere più in grado di provare vere emozioni che non rientrino in azioni o comportamenti improntati verso l’eccesso e la pura depravazione, opportunamente celate dietro una facciata di composto perbenismo.

Seguiranno ad Happiness, che vede tra gli interpreti anche il compianto Philip Seymour Hoffman in uno dei suoi primi ruoli di rilievo, diversi altri film, tutti o quasi notevoli, tra cui è doveroso citare almeno Storytelling, Palindromes, Perdona e dimentica, Dark Horse e Wiener-Dog.

Un grandissimo nome quello di Solondz, che non avrebbe mai potuto esprimersi così spudoratamente e genuinamente qualora si fosse trovato al soldo dei capitali e dell’opulenza hollywoodiane, così distanti ed antitetiche rispetto al suo stile di pensiero e di narrazione.

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