Nelle sale dal 17 febbraio, grazie a DocLab, Caveman – Il gigante nascosto di Tommaso Landucci racconta la vita (e non solo) dell’artista Filippo Dobrilla. A spiegare meglio la realizzazione, la tematica e la figura del protagonista è lo stesso regista.
La genesi di Caveman – Il gigante nascosto di Tommaso Landucci
Com’è nata l’idea di realizzare questo film? Conoscevi già l’artista?
Tutto è nato mentre stavo girando il mio cortometraggio di diploma per il Centro Sperimentale. Stavo girando nel paesino di Gorfigliano, a Lucca. Essendo lucchese e conoscendo bene il territorio delle Apuane, anche perché è quello dove vado anche io in montagna, avevo deciso di ambientare lì il mio lavoro. Durante le riprese siamo diventati una sorta di attrazione con tante persone che venivano a parlare e vedere. Tra questi, i cacciatori della zona mi hanno parlato di un artista, Filippo Dobrilla. All’inizio sembrava una bufala, poi mi sono attivato per cercare informazioni e per parlarci di persona. L’ho conosciuto e lui effettivamente mi ha portato a vedere la statua della quale mi avevano parlato le persone del posto.
È stato un viaggio estenuante. Per esempio io mi aspettavo, in maniera inconsapevole, che fosse una passeggiata dentro una grotta e che la statua fosse più vicino all’accesso. E mi aspettavo un antro a sviluppo orizzontale come i cavernicoli. Invece quello che mi sono trovato davanti è stato un abisso a sviluppo verticale. Per far capire, ci vogliono circa dieci ore per arrivare giù e circa quindici/venti per risalire.
Quindi com’è stato fisicamente girare? Quanto sono durate le riprese? Quanto ti ha tenuto impegnato il film?
Lo definirei estenuante da questo punto di vista. Le riprese in grotta sono state molto faticose perché per girare trenta secondi ci vogliono sei ore, tra avvicinamento e puntamento macchina. Si deve cambiare a lungo anche perché si è appesi nel vuoto senza appoggi. Però lì sono anche stato aiutato da una super troupe di esperti speleologi che fanno riprese del genere. Sto parlando della troupe di Tullio Bernabei, uno speleologo e videomaker che negli anni ha coniugato queste due passioni e oggi realizza documentari anche per National Geographic.
In generale, però, la fatica più grossa è stata seguire il film per tutti gli anni. Conoscendo meglio Filippo, infatti, ho capito che con lui si poteva raccontare qualcosa di più universale e non fermarsi solo alla realizzazione delle opere. Poi c’è tutto il discorso della ricerca dei fondi che ha occupato una buona parte di tempo. Già di base si tratta di film lunghi. In più, se hai l’ambizione di fare un film su una persona è necessario passare dal filtro del tempo. Anche perché questa persona, per aprirsi, deve conoscerti.
Un documentario diverso
A me ha colpito perché l’ho trovato un film diverso dal solito, nel senso che è etichettato come “documentario”, ma, secondo me, ha un modo particolare di raccontare che lo fa, in parte, evadere dal genere. A tal proposito all’inizio del film c’è una frase pronunciata da Filippo Dobrilla che afferma «solo chi fugge dalla massa si salva». È una scelta casuale? O è un indizio di come leggere l’intero film?
È esattamente come hai notato. Tra l’altro è la prima cosa che sentiamo nel film, dopo un silenzio fatto di rumori e di gocce d’acqua. Questa frase è ripresa da un suo diario che lui ha scritto tra gli anni ‘80 e ‘90. Tutte le frasi sono prese da cose dette e scritte da lui. Un paio sono interviste dirette che avevo fatto io in fase di studio del soggetto, ma per la maggior parte sono lettere che lui ci ha consegnato quando stava per morire. È anche del materiale che è stato, quindi, integrato dopo, in fase di montaggio che, mentre giravo, non sapevo ci fosse. E poi la cosa bella è stata affidare queste parole ad Alessandro Benvenuti che fa le veci di Filippo nella lettura di questi testi. Quindi questa cosa che dici tu è vera, è una chiave di lettura: Filippo era un anarchico e anticonvenzionale.
E poi io ci credo molto in questa frase. Anche secondo me è vero che ci si salva solo fuggendo dalla massa.
Filippo Dobrilla: protagonista di Caveman – Il gigante nascosto di Tommaso Landucci
Visto che hai parlato di Benvenuti, perché hai deciso di fare ricorso alla voce fuoricampo? Sembra quasi conferire una sorta di evasione, discostando l’opera dal genere documentarista.
Sicuramente posso dire che, a livello di linguaggio, i miei riferimenti sono quelli di un cinema documentario cinematografico come quello di Minervini, Rosi, ma anche i primi film di Pietro Marcello. E sono riferimenti che hanno trasformato il documentario che si intendeva come interviste e speakeraggio. Non direi che è un tipo di linguaggio innovativo perché loro lo fanno ormai da dieci/quindici anni e non è un modo usato per raccontare la biografia di Dobrilla. Vuole, anzi, cercare di accedere a qualcosa di più poetico. Come detto, io non sapevo che esistessero questi testi, quindi la voce è una cosa trovata. Filippo non me ne aveva parlato finché la malattia lo ha un po’ cambiato. Prima lui si difendeva; con la malattia, invece, si è aperto. E ha giocato molto anche il fatto che questo poteva diventare un documento testimonianza della sua vita. Per questo ha dato accesso a questi materiali che, uniti alle riprese di repertorio, hanno ribaltato il montaggio del film. Ormai io non lo immaginerei più senza.
La sequenza in cui le statue sembrano animarsi e a queste si sostituisce la figura dell’artista sono state scelte da te o è un processo di realizzazione dell’opera da parte dell’artista Filippo Dobrilla?
La quasi totalità delle opere ritrae sé stesso. L’effetto che hai percepito nel film è veritiero con il suo tipo di arte. Questo per due motivi. Il primo è che Filippo era molto narcisista e il secondo è che aveva qualcosa di irrisolto nella sua personalità. Un po’ il fatto di stare da solo e un po’ il non riconoscimento di un’élite artistica rispetto ai suoi lavori.
Silenzio e musica
Volevo riflettere su un altro aspetto, quello del silenzio. Più o meno a metà c’è un momento che corrisponde alla discesa nella grotta e alla precedente preparazione che è in silenzio. Tutto viene immortalato con attenzione. Quasi come a segnare uno stacco tra la precedente “narrazione” e la successiva. Come descriveresti questa scelta?
C’è sicuramente una ragione pratica. Nella realtà c’è stata una separazione tra una prima e una seconda parte. La malattia ha interrotto un film che era in atto e ne ha portato avanti un altro. Ho avuto anche paura di non finire il film. Alla fine abbiamo deciso di mostrare questa separazione e abbiamo deciso di usare la discesa che inizialmente era pensata come inizio del film. Alcune versioni, infatti, non iniziavano con lui che scolpisce la statua, come in quella definitiva, ma con lui che scende per dieci minuti. Guardandole, però, abbiamo capito che questo ritorno alla grotta poteva diventare un passaggio. E l’abbiamo usata come spartiacque tra le due parti per segnare questa divisione. Avevamo anche provato a usare la malattia come struttura portante, ma sarebbe diventato un film sulla malattia e non volevamo fare questo. Quindi abbiamo usato questa lunga sequenza di discesa nella grotta per dividere le due parti, anche perché volevo rendere la difficoltà effettiva di scendere. E quando collocarla se non subito prima della malattia per potenziare il film?
Poi, per non spettacolarizzare troppo, abbiamo tolto degli aspetti. Per esempio, lui negli anni ’80-‘90 è stato il più grande speleologo italiano. La grotta del film, anche se non viene espressamente detto, l’ha scoperta lui. Nel 1988 ha scoperto l’ingresso di quella che al tempo fu la grotta più profonda d’Italia. E, infine, ha il record italiano di profondità in grotta.
Fai largo uso della musica. Soprattutto in sequenze apparentemente ferme e statiche. Ed è una musica che sembra quasi riecheggiare l’eco della caverna nella quale viene realizzata l’opera. Come hai lavorato in quest’ottica?
Sono tutte composizioni di Marcel Vaid, un compositore svizzero indiano. Abbiamo lavorato da lui a Zurigo. Il suo laboratorio di musica è una specie di officina dove, invece delle chiavi inglesi, ha strumenti e attrezzi particolari che lui usa per fare musica perché la fa con qualsiasi cosa. Per realizzare quella del film abbiamo lavorato sulla ripetizione, tipo mantra. E abbiamo deciso di inserirle per lo più dentro le caverne, nelle sequenze di grotta. La proposta di Marcel Vaid, che io ho sposato, è stata quella di vedere la grotta come qualcosa di magnetico e, per questo, ci ha inserito una specie di canto delle sirene, come l’ha voluto chiamare.
Perché Caveman? La risposta di Tommaso Landucci
Una riflessione generale sul documentario. Si può dire che, in qualche modo, Il gigante nascosto del sottotitolo è anche un po’ l’artista stesso? E quello che purtroppo si trova a combattere?
Sì, il titolo nasconde una duplicità. Filippo parla sempre di questo gigante nel film. Ma per me è anche lui stesso. A tal proposito ti confido che il sottotitolo il gigante nascosto è stato un contentino che mi è stato dato dalla produzione perché io avrei voluto che il gigante nascosto fosse proprio il titolo. La produzione ha preferito Caveman su cui io non ero e non sono d’accordo. A me non piace Caveman perché Filippo non era un cavernicolo e poi perché un titolo inglese per parlare di un artista fiorentino non mi sembrava la scelta migliore. Ma loro lo trovavano più stimolante per il pubblico, quindi è stato scelto più per ragioni commerciali che artistiche. E poi sì, in parte il gigante nascosto è anche la malattia.
Tommaso Landucci oltre Caveman – Il gigante nascosto
Nel corso della tua carriera hai collaborato con alcuni nomi importanti del panorama cinematografico. Cosa ti porti dietro da queste esperienze e a chi o cosa ti ispiri in generale nella realizzazione dei tuoi lavori?
Sicuramente la mia esperienza come assistente di Luca Guadagnino sul set di A bigger splash è contata molto per questo film. A Luca devo molto della mia formazione ultima. Da lui ho imparato il valore del rischio, anche perché mi sono sempre orientato verso percorsi scolastici nella vita. Dopo il centro sperimentale ho fatto gavetta come assistente (che era comunque un lavoro codificato). Ma, grazie al lavoro con Luca, ho imparato che non è così che si fa il regista. Luca è molto determinato e mi ha stimolato di più a capire il rischio e a mettersi nel sentiero meno giusto, che insieme sono l’unico modo per fare le cose che contano. Lui dà molto valore al rischio, crede molto in sé stesso e si sa rialzare dalle batoste ed è arrivato dove è arrivato proprio per questo.
Quali sono i progetti futuri di Tommaso Landucci dopo Caveman – Il gigante nascosto?
Con il documentario, per il momento, ho dato. Come prossimo lavoro vorrei fare un film di finzione. Ho scritto la sceneggiatura con Damiano Femfert che firma la scrittura anche di questo documentario. E speriamo di realizzarlo tra quest’anno e il prossimo.
Caveman – Il gigante nascosto di Tommaso Landucci era stato presentato alla mostra del cinema di Venezia e al Festival dei popoli di Firenze.
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