‘Eisenstein in Messico’: una rivoluzione tutta personale?
Approda su MUBI 'Eisenstein in Messico', il film di Peter Greenaway che racconta del celeberrimo regista sovietico alla scoperta del sesso durante il suo controverso soggiorno nel paese centroamericano.
Confessiamo che non ci aspettavamo di vedere il celeberrimo regista sovietico venire sodomizzato, in questo Eisenstein in Messico: un lungometraggio diretto dal britannico Peter Greenaway nel 2015 (e presentato alla Berlinale di quell’anno), da qualche giorno visibile anche su MUBI.
Sì, perché è questa la sequenza shock – resa in maniera piuttosto esplicita – attorno a cui ruota un film che prova ad immaginare ciò che è veramente successo durante il soggiorno di Sergej Michailovič Ejzenštejn (la cui grafia viene anglicizzata nel titolo) nella cittadina messicana di Guanajuato, avvenuto nel 1931.
Ejzenštejn, per chi non è del tutto addentro alle vicende della settima arte, è uno dei padri del cinema: né più, né meno. Uno di quei registi che, ai tempi del muto, ha conferito al mezzo una propria specificità ed ha contribuito a forgiarne il linguaggio, a partire dall’operazione del montaggio.
Un gigante, quindi, i cui capolavori portano nomi del calibro de La corazzata Potëmkin (1925) – sì, proprio quello – Ottobre (1928) – film realizzato per celebrare il decennale della rivoluzione russa – Aleksandr Nevskij (1938) e Ivan il terribile (1944-46); questi ultimi due si sono avvalsi della sincronizzazione tra immagine e suono.
Ejzenštejn on tour
Dopo il successo di Ottobre, Ejzenštejn parte per l’Europa con la sua piccola troupe (il cineoperatore Edouard Tisse e lo sceneggiatore e co-regista Grigorij Aleksandrov) e finisce ad Hollywood, dove spunta un contratto di centomila dollari con la Paramount. Ma nessuno dei progetti vagheggiati dal cineasta sovietico va in porto, tantoché si ritrova in Messico, dove dovrebbe produrre un lungometraggio sul paese latinoamericano finanziato dallo scrittore socialista statunitense Uptown Sinclair.
Peraltro, Greenaway ha annunciato già da anni il prequel di Eisenstein in Messico, ovvero il racconto dell’esperienza del regista russo in Europa occidentale e a Hollywood: vedremo come riuscirà a scioccarci la prossima volta.
Ma torniamo al Messico. Ejzenštejn non riesce a completare il suo film nei tre-quattro mesi previsti dal contratto, durante i quali incontra personalità come Frida Kahlo e Diego Rivera: i soldi sono finiti e il governo russo comincia a far pressione sul regista affinché ritorni in patria. Per il cineasta di Riga e i suoi collaboratori è ora di fare fagotto: si torna in URSS, via USA. Ejzenštejn non riuscirà mai a montare le decine di chilometri di pellicola impressionata: lo faranno altri, il più titolato dei quali sarà Aleksandrov, che nel 1978 farà uscire un lungometraggio dal nome ¡Que viva Mexico!.
Fin qui la storia. Anzi, manca un ultimo particolare: rientrando negli Stati Uniti dal Messico, Ejzenštejn viene fermato alla frontiera, dove è trovato in possesso di materiale di contenuto omoerotico, tra cui alcuni bozzetti da lui stesso disegnati.
I dieci giorni che sconvolsero Ejzenštejn
Ejzenštejn stesso era solito autodefinirsi asessuale. Ecco come si espresse, rivolgendosi alla sua biografa e confidente Mary Seaton:
“Chi dice che sono omosessuale si sbaglia. Non noto questa tendenza in me, né l’ho mai notata. Se fossi omosessuale, lo direi direttamente. Ma il punto è che non ho mai provato un’attrazione omosessuale, nemmeno nei confronti di Grisha [Aleksandrov], nonostante io abbia delle tendenze bisessuali – come ad esempio Balzac o Zola – in campo intellettuale.”
Sembra che i contemporanei credessero poco al carattere puramente astratto di queste tendenze. La dichiarazione del regista di Riga si spiega probabilmente col bisogno di coprirsi le spalle dopo l’entrata in vigore in URSS di una legge particolarmente severa contro la “sodomia”, nel 1934. Stessa ragione per cui avrebbe sposato la collega Pera Atasheva (nel film, il personaggio con cui il cineasta sovietico parla al telefono).
A partire da questi elementi, Greenaway costruisce Eisenstein in Messico, ovvero il suo racconto del soggiorno dell’autore di Potëmkin nel paese latinoamericano: il cineasta lettone avrebbe perso la sua verginità all’età di trentatré anni proprio a Guanajuato, con la sua guida messicana Jorge Palomino y Cañedo. L’iniziazione al sesso avrebbe sconvolto talmente la sua personalità che ne avrebbe mutato persino il modo di fare cinema:
“Ho sempre pensato che i primi tre film di Ejzenštein fossero così diversi dagli ultimi tre… Perché? Penso che la risposta sia che quando vai all’estero diventi una persona diversa”,
dichiara Peter Greenaway. Insomma, il soggiorno messicano avrebbe segnato l’irruzione della (omo)sessualità nella vita di Ejzenštejn. Ovvero, in altre parole, una grande mente scopre di avere (anche) un corpo. Dopodiché, la sua visione delle cose sarebbe cambiata a tal punto che, da direttore e poeta di masse, il teorico del “montaggio intellettuale” si sarebbe da quel momento focalizzato sull’anima individuale e sulle sue passioni.
Personale o politico?
Francamente, la ricostruzione ipotizzata dall’autore diNightwatching (2007) ci convince poco. Ci sembra che i cambiamenti nella poetica eisensteiniana poggerebbero su un terreno più solido se li riconducessimo in primo luogo al mutamento di clima politico – e, di conseguenza, anche culturale e artistico – avvenuto in URSS durante gli anni ’30: l’affermarsi di una burocrazia che poco ormai aveva di rivoluzionario, che recuperava il nazionalismo e tentava di fare asse con i paesi capitalisti “democratici”, che aveva adottato il realismo (socialista, certo) come orientamento artistico ufficiale.
L’evoluzione dell’opera eisensteiniana andrebbe quindi meglio interpretata come adattamento a questo processo di normalizzazione (politica, culturale, artistica) in atto e come risposta alle accuse di formalismo e avanguardismo piovutegli addosso già dopo Ottobre.
Il che, ovviamente, non esclude che un evento di ordine personale, soprattutto se di portata traumatica – una rivoluzione, come maliziosamente la definisce Greenaway – non lascerebbe traccia di sé nella poetica di un artista. Semplicemente, siamo nel campo delle libere interpretazioni e delle fantasie d’autore: tali rimangono, nonostante Greenaway si sforzi di farli passare come avvenimenti quasi necessari.
Eisenstein in Messico, peraltro, è godibile: la recitazione camp del finlandese Elmer Bäck buca lo schermo e Greenaway adopera un bel po’ del contenuto della sua valigia dei trucchi. Split-screen, proliferazione “cubista” dei punti di vista, grandangoli esasperati, sfondi “mobili”, rapide desaturazioni dei colori, piani sequenza insistiti, fotografie originali che compaiono nell’inquadratura e mille altre bizzarrie ed effetti antirealistici. Il tutto a costituire un modo di raccontare alternativorispetto a quello del lungometraggio di finzione mainstream (come aveva fatto Ejz ai suoi tempi, ça va sans dire). Tanto che non si può fare a meno di pensare più volte, durante la visione, a quello che – per dirla con Godard – il cinema avrebbe potuto essere e non è stato.
Eisenstein in Messico
Anno: 2015
Durata: 105'
Genere: Biografico
Nazionalita: Messico, Finlandia, Belgio, Francia, Paesi Bassi