‘Factory to the Workers’, il documentario sulla fabbrica croata autogestita
Il regista Srđan Kovačević entra nella fabbrica croata dell'Itas, per forgiare un documentario che possa far comprendere tanto il coraggio degli operai quanto la violenza delle leggi capitaliste
Il documentario vuole mostrare al mondo intero la coraggiosa quanto difficile realtà quotidiana dell’Itas, una fabbrica sita in Croazia che da oltre quindici anni è auto-gestita dagli operai.
Un documentario senza fronzoli, semplice come gli operai che lavorano nella fabbrica. Ma nelle pieghe del racconto si ode la polemica contro il capitalismo e la globalizzazione.
Factory to the Workers, La trama
L’Itas è stata una delle fabbriche gioiello dell’ex-Jugoslavia. A cominciare dagli anni Novanta, con la disgregazione dello stato, l’opificio croato ha lentamente perso potere, fino a quando nel 2005 non ha dichiarato bancarotta.
Da allora, gli operai hanno cominciato a mobilitarsi e protestare, e dal 2007 hanno ottenuto l’autogestione della fabbrica. Nel 2015 il regista Srđan Kovačević entra nella fabbrica e per un intero anno filma quanto accade. La lotta per la sopravvivenza continua.
Factory to the Workers: nostalgia del passato
In questo documentario si percepisce la nostalgia verso un passato ormai lontano, di cui rimangono soltanto le foto a testimoniare la grandiosità di quei momenti.
A inizio film, appare in primo piano la fotografia in bianco e nero del Presidente/Dittatore Josep Broz Tito (1892-1980). Fu l’unico capo capace, tramite sanguinose repressioni, di mantenere unita la Jugoslavia e dare un relativo benessere al popolo, rispetto agli altri stati dell’Est.
Benché sia morto da molto tempo, quella foto è un’icona appesa su uno dei muri della fabbrica (e certamente presente su moltissime altre pareti di altri edifici).
Non importa che fosse un feroce dittatore, perché per molti lui rese importante la Jugoslavia a livello europeo, e la Itas, sorta nel 1960, è la dimostrazione dello sviluppo economico, fino ad avere 900 operai.
La morte di Tito ha significato un lento e irreversibile sfacelo, e a inizio anni Novanta, tra moti di protesta e oltre dieci anni di guerre, il definitivo smembramento della Jugoslavia in sei Repubbliche. Non solo quella foto, ma anche la dichiarazione di un giovane operaio, che certamente non ha vissuto quel periodo, testimoniano il rimpianto per Tito.
La nostalgia compare anche quando l’operaio Varga mostra al regista la foto con gli operai che nel 2005 decisero di prendere in mano la fabbrica per gestirla in proprio. Oltre la metà di loro non c’è più: molti sono andati in pensione, altri sono morti, e qualcuno ha preferito lavorare altrove.
In quella foto il rimpianto si vede nei volti degli operai, speranzosi di riuscire a risollevare con la propria volontà una delle eccellenze del loro paese. Nonostante l’azione sia attribuibile principalmente al bisogno di non perdere il lavoro, c’è stata anche la spinta d’orgoglio di non far scomparire una delle poche opere positive di una dittatura.
E la malinconia si palesa anche nei grandiosi manufatti creati dall’Itas, che venivano venduti in tutto il mondo, e ora sono visibili soltanto in foto, pubblicate su vetuste riviste dell’epoca
Factory to the workers: un documentario schietto
Srđan Kovačević s’immerge nella realtà della fabbrica, e condensa in meno di due ore un anno di riprese. È a fianco degli operai, come se anche lui facesse parte della fabbrica, e come neo-assunto volesse comprendere la vita al suo interno.
La videocamera non esce mai dal perimetro dello stabile. Sebbene ogni operaio abbia una vita privata, Kovačević è interessato soltanto a quello che accade all’Itas. Il tempo che scorre non è spiegato da nessuna didascalia, ma è facilmente comprensibile da alcune piccole situazioni legate alla storia della vita lavorativa: 8 marzo, 1º maggio, i conti della fine dell’anno.
Kovačević ha deciso di raccontare questa realtà perché rispecchia anche l’incertezza economica e sociale di tutta la Croazia. In passato florido pezzo della Jugoslavia, e ora Repubblica costretta a soccombere alle leggi del mercato.
La situazione dell’Itas non è dissimile da ciò che accade in molte fabbriche italiane odierne. Gli aiuti statali vengono elargiti alle grandi aziende, anche se hanno i conti in rosso, e alle piccole e coraggiose realtà vengono solo fatte promesse.
Il cinema e la fabbrica
Le prime immagini del cinematografo che gli spettatori videro, seduti al Grand Café nel lontanissimo 28 dicembre 1895, furono quelle di un gruppo di operai che uscivano da una fabbrica. Titolo del filmato: L’uscita dalle officine Lumière (La Sortie de l’usine Lumière, 1895) di Auguste e Louis Lumière.
Una veduta documentaristica su una realtà nota a tutti, e in cui la massa poteva riconoscersi.
A questo primo squarcio – esteriore – sul mondo lavorativo, sono seguite molte altre pellicole che hanno voluto mettere in scena la fabbrica e gli operai. Stilare una lista esaustiva sarebbe dispersivo, ma citare qualche titolo è necessario per confrontarlo con The Factory of the Workers.
Certamente, un autore che ha dedicato molta della sua carriera agli operai è stato Ken Loach. Il pane e le rose (Bread and Roses, 2000), titolo che riecheggia lo slogan degli operai tessili del 1912 (e nel documentario di Kovačević questo fatto viene rievocato), ne è uno dei più fulgidi esempi.
Tempi moderni (Modern Times, 1936) di e con Charlie Chaplin. Benché sia un film comico, contiene alcune delle più lucide scene sullo sfruttamento lavorativo, come ad esempio quella in cui Charlot impazzisce alla convulsa catena di montaggio.
La classe operaia va in paradiso (1972) di Elio Petri, che si aggiudicò il Gran Prix come miglior film al Festival di Cannes, è una grottesca e acida rappresentazione sulla situazione lavorativa in Italia. Il polemico Petri ha inferto stilettate tanto ai padroni quanto agli operai.
Risorse umane (Resources humaines, 1999) di Laurent Cantet è un istant movie sulla questione delle 35 ore lavorative, che consentirebbero un miglior equilibrio tra guadagno aziendale ed efficienza degli operai.
7 minuti (2016) di Michele Placido. Tratto dall’omonimo testo teatrale di Stefano Massini, è ispirato a un vero fatto di cronaca accaduto in Francia. La storia verte su un gruppo di operaie, di una piccola fabbrica tessile, che devono prendere una ferma decisione sulla clausola del contratto imposta dalla nuova dirigenza.