Presentato in anteprima all’ultima edizione di Alice nella città e dal 20 gennaio nelle sale distribuito da Fandango, Takeaway di Renzo Carbonera vede tra i suoi interpreti Paolo Calabresi. Con lui abbiamo parlato del film, ma anche della versatilità della sua carriera.

Paolo Calabresi in Takeaway
In Takeaway di Renzo Carbonera interpreti un personaggio idealista che affida agli altri il compito di avverare i sogni che non è riuscito a realizzare. Parliamo di un genitore che organizza la vita per interposta persona, scaricando sulla figlia la responsabilità della propria felicità.
Sono completamente d’accordo con te, ma tu hai dato al personaggio una nuance positiva che in realtà non gli appartiene perché raramente mi è capitato di interpretare un individuo così negativo. Sono contento di averlo fatto anche perché persone del genere ho avuto modo di incontrarle e in qualche modo anche io ho avuto le stesse pulsioni. Ho un figlio che è un calciatore professionista quindi ho girato un sacco di campi in Italia e all’estero vedendo scene impressionanti in cui i genitori si identificavano con l’attività dei propri figli. Ti ripeto, è un impulso che conosco bene perché l’ho provato in prima persona. Parlo della tendenza di sublimare le proprie frustrazioni nell’attività dei figli, innescando una sorta di rivincita sociale molto pericolosa per le conseguenze che comporta nell’ambito dei rapporti famigliari. Il mio personaggio è mosso soprattutto da questo elemento.
Il tuo è un padre imperfetto, le cui mancanze sono uno specchio dei nostri tempi. In questo senso mi pare un personaggio molto attuale, come lo è il modo di reagire della figlia che trova nel suo allenatore il surrogato della figura genitoriale.
Sì, in qualche modo è come se il padre autorizzasse il personaggio di Libero De Rienzo a occuparsi della figlia: il suo è il benestare a un’attività di cui conosce i rischi e che avalla perché l’unica cosa che conta è vedere vincere la figlia.

Peraltro nel film ci sono scene in cui devi rendere concreta la paura del tuo alter ego nei confronti della vita. Ogni volta che il padre di Maria è chiamato a prendere posizione di fronte ai problemi del quotidiano evita il confronto, cercando di svincolarsene sia con le parole che con le azioni.
Ciò che dici è molto vero perché quello è il vizietto di noi italiani: da decenni evitiamo di guardare in faccia la realtà, preferendo fare il passo più lungo della gamba. Ci atteggiamo a paese ricco pur non essendolo; facciamo cose che non potremmo permetterci, mettendoci nei guai nel modo in cui succede ai personaggi del film.
Non solo Takeaway per Paolo Calabresi
Guardando la tua carriera si evince un eclettismo che ti permette di frequentare il cinema nei suoi antipodi. Ti si vede sia in film in cui tutto viene spiegato che in quelli in cui questo non succede. In Takeaway molte cose si desumono da come riesci a gestire il fuori campo, trasportandolo sul corpo e nelle espressioni del personaggio. Parliamo di differenze che presuppongo un diverso tipo di approccio al tuo lavoro.
Molto diverso, anche se penso che un attore debba sapere fare sia Gli occhi del cuore, la fiction trash in cui è impegnata la troupe di Boris, sia operazioni autoriali come Takeaway. Spesso è molto più complicato fare il primo che il secondo tipo di prodotti; cioè è molto più facile recitare con grandi registi che essere costretti a dire battute come non ti preoccupare Gerardo tanto lei tornerà da te. Lì si vede il mestiere e lo si impara! Per me certe scelte sono state obbligate perché, avendo quattro figli, dovevo lavorare, e dunque recitare anche la merda, come dice René Ferretti in Boris. Lui afferma che la sua fortuna è stata quella di avere interpretato tante cose brutte. Lo penso anche io.

Ovviamente la mia domanda non era dettata da un pregiudizio negativo, ma dalla messa a confronto di un diverso approccio al tuo lavoro, a seconda del tipo di operazioni.
Si si, ho capito benissimo lo scopo della tua domanda.
Conoscere i personaggi
In questo film è possibile apprezzare il lavoro che hai fatto per far emergere il passato del personaggio. Pur non sapendo nulla di quanto successogli ne intuiamo la problematicità nell’aspetto poco curato e nella camminata incerta e legnosa. A differenza di un film come La bambina che non voleva cantare, in cui del maestro Leonildo capiamo molto attraverso l’ingombrante evidenza del corpo, qui succede il contrario poiché sembra quasi che tu lo sottragga alla vista della mdp. Entrambi i casi trasmettono un’emozione: a cambiare è il modo di passarla allo spettatore.
È molto giusto quello che dici perché qua c’era bisogno di togliere il più possibile. Poi ci sono delle operazioni diverse, in cui hai bisogno di rappresentare qualcosa di più. La linea molto difficile che l’attore si trova a dover scegliere sul set è quanto mostrare e quanto togliere.
Negli ultimi film hai interpretato personaggi appartenenti a un tempo diverso da quello attuale. Ne La bambina che non voleva cantare la tua era una figura figlia del boom economico, mentre nel lungometraggio di Carbonera succede l’opposto, perché la storia si colloca in un tempo di grande crisi economica. Penso che il rapporto tra il personaggio e il proprio tempo rientri nei fattori da tenere presente nella costruzione dei ruoli.
È un elemento destinato a incidere. Questo è un film ambientato nel 2008, ovvero il periodo peggiore per l’Italia in cui ci fu l’ultima grande crisi finanziaria. Da qui la funzione simbolica di questa terra non terra, del non luogo non proprio identificabile dove vivono i personaggi. Inserirsi fisicamente in quel contesto comportava una scelta di interpretazione che tenesse conto anche di questo.
Tante esperienze diverse
La tua è una carriera all’insegna dell’eterogeneità in cui metti insieme esperienze radicalmente opposte. Inizi con Giorgio Strehler per poi passare alla televisione con un programma come Le Iene, e ancora al cinema, esplorato nelle sue varie manifestazioni. Penso che la tua versatilità ti aiuti nei momenti in cui la recitazione a tavolino non è sufficiente a portare a casa il risultato.
Sì sì, esatto. Nella mia professione la versatilità può diventare un problema perché viviamo in un paese dove se fai bene una cosa tendono a rifartela fare sempre uguale. Per me che sono molto curioso ripetermi mi annoia, anche nella considerazione che un attore penso debba essere in grado di toccare corde opposte, passando dal comico al drammatico e dalle sfumature che si inseriscono tra questi estremi. Perché poi ciò che conta è la verità dell’interpretazione che ci deve essere sia quando ridi sia quando ti commuovi. Da qui il bisogno di fare personaggi molto diversi l’uno dall’altro, anche a costo di perdere qualcosa in termini di lavoro, considerando che siamo un paese in cui se fai bene il commissario lo fai per tutta la vita.
Il set di Takeaway per Paolo Calabresi
Il metodo di Carbonera per prepararvi al film è stato quello di isolarvi dal resto del mondo per tutto il tempo delle prove. Penso che tu ti sia trovato bene perché questo tipo di lavoro mi pare molto simile a quello teatrale.
Il suo metodo mi è piaciuto tantissimo perché mi ha ricordato quello fatto per Genitori quasi perfetti, titolo sbagliatissimo per una commedia che aveva tutto un altro sapore. Qui, come lì, siamo stati insieme per diversi giorni prima di iniziare a girare, cosa che ormai non succede quasi più. È vero, si tratta di un metodo utilizzato in teatro e non c’è niente di male a usarlo anche nel cinema. In fondo si tratta di due mondi non così lontani come qualcuno ci racconta.
In conclusione volevo sapere che tipo di cinema ti piace?
Come fruitore quello spettacolare perché vado spesso al cinema con mio figlio che ha quindici anni e dunque mi becco tutti i film della Marvel. Succede così spesso che adesso non ne posso più fare a meno anche se, come dicevo, per me è importante che anche in quelli ci siano elementi di verosimiglianza.