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Taxidrivers Magazine

La fine dell’occidente capitalista, senza malinconia

Analisi politica del cinema. Rubrica a cura di Pasquale D’aiello

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Alla fine anche gli spettatori italiani riusciranno a vedere Melancholia di Lars Von Trier, dopo il blocco della distribuzione dovuto alle polemiche scaturite dalle esternazioni  dell’autore sugli ebrei, pronunciate all’ultimo festival di Cannes. Se le affermazioni del regista attengono alla sua sfera tipicamente provocatoria, nulla di tutto questo riguarda il film che affronta una questione ben più seria ed interessante: la fine del mondo. Sebbene, in accordo con quanto affermato dal Vangelo, la pioggia cade sia sui giusti sia sugli ingiusti, la fine del mondo è vista dall’angolo di visuale di chi appare il reale destinatario della catastrofe, ovvero della borghesia occidentale avanzata. Lo sguardo prevalente sulla catastrofe è quello di Justine (Kirsten Dunst), una pubblicitaria di grande talento, dotata anche della facoltà di preveggenza del futuro. Non appare un caso che il suo lavoro sia espressione della forma più avanzata del consumismo capitalista e ne esprima la parte più irrazionale. Anche le sue facoltà premonitorie sono funzionali a rappresentare la consapevolezza che il sistema ha dell’inevitabilità della propria fine. E se, nonostante questa certezza di morte, il sistema procede inesorabile questo non può che causare la sua schizofrenia. Justine sta per compiere l’atto più costruttivo e promettente che la società conosca: sposarsi, che, date le circostanze, è anche l’atto più insensato che possa commettere. Le famiglie e gli amici sono convocati a partecipare a questo evento, lo sfarzo dell’allestimento scenografico, sebbene guidato dal gusto e dalla ricercatezza dei dettagli, finisce  per mostrare implacabilmente le nevrosi e le povertà d’animo dei convitati. In questo scontro e sfoggio  di orrori e cinismo chi ne appare meno fornito (come il marito di Justine) finisce per soccombere come elemento debole e perdente. E’ il quadro di una classe che ha terminato il proprio ciclo evolutivo e “merita” di essere distrutta, essendo assenti alternative di autoriforma dall’interno. Sebbene il suo crollo non avvenga sotto l’urto portato da un’altra classe, la sua distruzione non appare meno violenta di una vera rivoluzione. Accanto alla visione, necessariamente spietata, di Justine si giustappone quello di sua sorella Claire, più mite e incline a una speranza che diventa illusione. D’altronde il suo istinto materno le impone di ricercare un’alternativa di salvezza anche a costo di contrastare la logica. Lo stesso coraggio non è dato per  il marito di Claire che poggiava la propria fiducia sulle conferme della scienza ma anche questa si dimostra ingannevole o insufficiente quando in gioco c’è la sorte del genere umano.

Quando tutte le residue speranza di sopravvivenza saranno definitivamente perdute, resteranno solo Justine, Claire e suo figlio a reggere lo sguardo sulla fine. Vi faranno fronte con coraggio, accettando laicamente il proprio destino ma cercando di offuscare la sofferenza, facendo ricorso al pensiero magico che permette di costruire un’ultima fatale illusione che è, al contempo, l’ultimo gesto di pietas verso la specie morente.

Con questo film Lars Von Trier riesce a esprime tutto il suo rancore verso una società marcia e corrotta, fondata sul denaro e l’apparenza,  alla quale non concede nessuna speranza di salvezza e, sostanzialmente, neppure l’onore delle armi se si escludono le positive figure femminili che ribaltano l’antifemminismo che pervadeva Antichrist. E il tono epico e impressionante con cui realizza questa operazione appare esaltato e reso convincente dall’agonia in cui sembra essere precipitato in questi anni il capitalismo.

Pasquale D’Aiello

 

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