In arrivo il 30 dicembre su Rai3, Enrico Parenti racconta il suo Rigoletto 2020. Il film è presentato dal Teatro dell’Opera di Roma, Indigo Film e Rai Cinema. Il film opera Rigoletto al Circo Massimo è diretto da Damiano Michieletto con il direttore d’orchestra Daniele Gatti e le musiche di Giuseppe Verdi.
Rigoletto 2020 raccontato da Enrico Parenti
Cosa ti ha spinto a decidere di andare contro corrente e realizzare questo documentario nonostante tutto?
Avevo fatto nel passato dei documentari ibridi tra teatro e cinema e la casa di produzione Indigo Film mi ha chiamato proprio per questo mio storico. A quel punto io ho ampliato e riproposto quel modello dove cerco di spiegare, a modo mio, un autore (in questo caso Verdi e la sua opera). Il mio intento era che Rigoletto 2020 fosse un documentario in grado sia di seguire la grande organizzazione di questo spettacolo sia di aiutare a capire l’autore e l’opera. Ed era una cosa che avevo fatto in passato perché, lavorando da cinque anni con il Festival del teatro ecologico di Stromboli, ogni anno faccio un documentario di 40 minuti che va su Sky Arte.
Sicuramente è un modo alternativo per conoscere tanti autori.
Mi piace mischiare le due arti. Mi piace inserire il documentario vero. Da una parte seguire il dietro le quinte, dall’altra parte estrapolare dei momenti in cui dal documentario si creano certe dinamiche del percorso che fa l’autore. Poi si può inserire il cinema. E infatti io ho cercato di portare al cinema le visioni di Damiano Michieletto. Abbiamo fatto un po’ un ibrido.
Teatro e cinema
Non è la prima volta che il teatro arriva sullo schermo, ma stavolta ci arriva in maniera particolare e diversa dal solito. Ed è proprio questo l’ingrediente di successo, secondo me. Com’è stato lavorare con Damiano Michieletto, il regista dell’opera Rigoletto al Circo Massimo?
Ci siamo trovati immediatamente bene perché anche lui non viene originariamente dal teatro dell’opera che è un mondo a sé, molto gerarchico, serio, tradizionale. Lui viene dal teatro di prosa e io da questo mix teatro-cinema-documentario. Forse è proprio per questo che il nostro rapporto è stato molto amichevole sin dall’inizio. Poi devo citare anche Daniele Gatti, il direttore d’orchestra, che è di quel mondo là, un mondo dalla conoscenza verticale. Con Michieletto, a differenza di Gatti, condividiamo un modo più intuitivo e contemporaneo nell’approcciarsi a quello che si fa.
E questo sodalizio si nota particolarmente dal momento che, vedendo il documentario, si ha la sensazione che Michieletto sia quasi un attore protagonista oltre che un regista.
È vero. Alla fine il filo conduttore è sempre lui. Si potrebbe dire che è diventato un po’ anche un documentario lievemente biografico su di lui.
Come nasce un’opera
Il tuo documentario è diverso, secondo me, anche per l’intento (ed è questo che mi ha colpito) che non è solo quello di portare sullo schermo Rigoletto, ma anche quello di far riflettere su come si realizza un’opera del genere e su come si è potuto realizzarla nonostante tutto. A tal proposito Michieletto, all’inizio, afferma che alcuni elementi sono stati sviluppati strada facendo. Anche per te per la realizzazione del film è stato così?
Sì, non era già deciso. Quando Indigo Film mi ha commissionato il documentario ho scritto un trattamento dove delineavo il mio modo di fare: mischiare la realtà e un po’ di finzione e raccontare l’opera stessa e l’autore. Il documentario, però, poi si scrive al montaggio. In quella fase a volte si scoprono cose dette che lì per lì non sembravano importanti, ma che poi aiutano a sviluppare un paio di scene. Infatti il montaggio che doveva durare poco, è durato un sacco di tempo. Alla fine si può dire che è come fare una ricetta: si prendono gli ingredienti, ci si limita nella scelta e poi si cerca di capire dove e come direzionarli.
Com’è stato girare con tutte le limitazioni che questa pandemia ci ha imposto?
Il cinema in generale è stata una delle prime industrie che ha assunto un protocollo abbastanza stretto per non bloccare tutte le produzioni. E quindi anche noi di conseguenza. Per esempio ci tamponavamo due volte a settimana. Insomma siamo stati tra i primi ad applicare i protocolli che poi si sono sviluppati per tutti, nel cinema. È stato difficile, ma almeno era tutto all’aperto. Abbiamo girato prima a Cinecittà in un capannone, poi ci siamo spostati al Circo Massimo e poi io facevo qualche salto nel teatro dell’Opera ed è lì che ho avuto più difficoltà perché è una struttura grande, ma con tante stanze per cui era spesso difficile perché nello stesso posto c’erano truccatori e costumisti e, quindi, poteva entrare un numero limitato di persone. Per il resto ci siamo abituati velocemente.
Il covid nel Rigoletto 2020 di Enrico Parenti
Collegandomi a quello che hai detto, a un certo punto del documentario, c’è una frase che mi ha colpito «Ogni limite può diventare uno spunto per la creatività artistica». Com’è stato mettere in pratica questo?
Per me la cosa più difficile è stata il tempo. Sono stato chiamato un mese prima; mi sono dovuto documentare sull’opera in maniera molto rapida. Anche se avevo già lavorato in questo ambito, non conoscevo bene il Rigoletto. Mi sono dovuto preparare, ho scritto un trattamento, ho riunito la troupe, ho girato in un mese e poi teoricamente il documentario era montato per la fine dell’estate. Per me è stato una specie di record assoluto di produttività. Un vero e proprio tour de force che, però, ci ha dato una grande carica. Io mi sono acceso per un’estate intera: si è trasformato in una sfida personale il riuscire a capire se si può realizzare un documentario lungo in quattro mesi.
Oltre al tempo che hai detto essere stato una limitazione, quale è stata la parte più nuova da girare/filmare/portare sullo schermo? Nuova nel senso di impensabile prima della situazione che stiamo vivendo. Al di là delle dichiarazioni e della situazione?
Non saprei citarti una singola scena. Anche perché io ho girato nei peggio posti dell’universo. È stato difficile, ma non peggio di quando sono stato nelle baraccopoli in Etiopia per girare un prodotto di finzione. Non saprei dire se è scaturito qualcosa che non avremmo potuto fare altrimenti. Per Michieletto sicuramente sì con il fattore del distanziamento. Per quanto riguarda la parte cinematografica c’è da dire che abbiamo usato ottiche più lunghe, che hanno un po’ dettato il tipo di fotografia perché dovevamo stare più lontano.
Alla fine, quindi, la situazione è stata sfruttata a vostro vantaggio. Sicuramente è (stato) un ostacolo, però voi siete riusciti a usare il covid come strumento per realizzare qualcosa di nuovo.
Sì, è una cosa che ha determinato tante piccole scelte che hanno dato la direzione ad alcuni elementi della ripresa, nel nostro caso più a livello fotografico perché dovevamo stare più lontani. In generale il rigore è quello che dà continuità e un certo tipo di look a un’opera. Solitamente l’assenza totale di regole mette in crisi un artista. Noi, invece, lo abbiamo usato a nostro vantaggio.
Infatti mi è piaciuta anche la scelta di far terminare il tutto con la frase «Quello che so fare nella mia vita è immaginare» che mi sembra riassumere bene il tutto. Non so se era voluta questa scelta…
Sì, più che voluta.
Idee per il futuro
In tanti hanno parlato e continuano a parlare della situazione attuale, ma, forse perché ancora non siamo pronti perché non ne siamo usciti, si tende a banalizzarlo o a non rendergli giustizia. Tu, invece, sei riuscito a parlarne in maniera naturale. Stai già lavorando in quest’ottica?
Al momento sto facendo dei documentari che non hanno a che vedere con il teatro e con l’arte. Ma sono un tipo di documentari che vorrei fare in parallelo. Credo che questa estate lavorerò ancora a una cosa simile nel Festival del teatro ecologico di Stromboli dove facciamo una collaborazione con Sky Arte. Uso sempre il documentario, specialmente quello di arte, perché mi dà la possibilità di avere il tempo di entrare dentro un mondo, un autore, un’opera che normalmente non troverei nella vita. Non ero un fan di Shakespeare o di Giuseppe Verdi e, invece, adesso lo sono. Ogni volta che ci sono documentari d’arte da fare sono contento perché posso conoscere dei grandi classici.
Enrico Parenti oltre Rigoletto 2020
Hai degli autori di riferimento per i tuoi lavori?
Faccio più che altro documentari di stampo factual. Due anni fa ho realizzato Soyalism. Poi ancora prima Standing army. Questo per dire che non ho un riferimento singolo. Faccio cose sociali, politiche, ma anche documentari d’arte. E mi piacciono un sacco di autori. Dovendo scegliere un nome, tra quelli moderni direi Minervini che usa uno stile ibrido tra finzione e documentario. Come titoli, invece, il mio documentario preferito del decennio è The act of killing. Il mio preferito d’arte è Crumb, ma forse quello che mi ha ispirato di più è Let’s get lost di Bruce Weber, un fotografo, che ha preso parte a Orizzonti a Venezia alcuni anni fa. Mi piace perché mescola musica, biografia, scene inventate con immagini puramente fotografiche.
Progetti futuri?
Sono ancora segreti. Posso anticipare che sto preparando due documentari sull’Asia. E nel frattempo ho finito una collaborazione per il nuovo film di Alex Infascelli, per il quale ho curato la fotografia.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli