Si era ripromesso di non girare altri film l’ottantenne pluripremiato Ermanno Olmi, e invece eccolo qui, con la grinta di un trentenne, a scalpitare sui blocchi di partenza pronto per una nuova corsa. In uscita domani nelle sale, Il villaggio di cartone nasce da un “incidente”. Nel corso dell’incontro stampa che si è tenuto ieri a Roma, il regista bergamasco si è raccontato così all’uditorio: “Inizialmente, mosso dal bisogno di andare a trovare la storia delle origini della nostra civiltà, volevo realizzare un documentario sulle coste del Mediterraneo dove si sono affacciate per secoli le grandi culture, prima che fosse scoperta l’America. Poi sono caduto e sono dovuto rimanere a letto per settanta giorni e allora, con il computer sulle ginocchia, ho iniziato a scrivere per sopravvivere a questa immobilità forzata. Così, anziché andare io in giro in cerca delle radici, ho convocato le cose intorno al mio letto.”
È difficile catturare e tradurre in parole l’anima di questa storia che, per la messa in scena, può essere paragonata ad un’opera teatrale. In un paese non precisato dell’Italia, di fronte allo sguardo avvilito e sconvolto del vecchio prete (Michael Lonsdale) che la abitava e la amministrava, una chiesa viene dismessa. Gli operai staccano dalle pareti i quadri dei santi e gli addobbi e un braccio meccanico disarciona il grande Crocifisso appeso alla cuspide sopra l’altare. Nella notte che segue, la chiesa e la casa del parroco vengono occupate da un gruppo di migranti africani in cerca di un tetto sotto cui dormire. La chiesa, un tempo luogo della parola e delle cerimonie liturgiche, si trasforma così in una casa in cui la carità e la fratellanza si realizzano in atti concreti.
Le scene del film sono tutte girate in unico ambiente interno; questo è curioso se si pensa alla natura iniziale del progetto. Nel corso della visione, si ha l’impressione che vengano accostati diversi temi, su ognuno dei quali, singolarmente, si sarebbe potuto scrivere un film. Olmi introduce almeno due questioni molto ampie: la prima è quella dei rapidi cambiamenti storici che corrono in questi decenni e che impongono la necessità di un adeguamento da parte dell’umanità per non soccombere al processo fisiologico della migrazione di massa; l’altra è quella della funzione e dello stato della Chiesa oggi. A partire da qui, prova poi a declinare una serie di tematiche più squisitamente attinenti al singolo individuo, come per esempio i conflitti e gli smottamenti interiori che lo scorrere del tempo e l’incontro con l’altro diverso da noi inevitabilmente generano. Si tratta di un progetto ambizioso ed insidioso ad un tempo, penserà a ragione il lettore, persino per un cineasta navigato quale è il nostro. In effetti, nel dispiegarsi della storia, sembrano sfuggire quei nessi che hanno la funzione di connettere le sequenze tra di loro e di conferire quindi al lavoro una certa organicità.
Alcuni degli attori presenti nel cast sono stati selezionati nella masseria Boncuri in Puglia a pochi Kilometri da Nardò (Le), che nel mese di agosto ospita i braccianti arabi e sudanesi occupati nella raccolta delle angurie (Voi li chiamate clandestini, di L. Galesi e A. Mangano, ed. il manifesto libri, 2010). Questa scelta conferisce all’opera un taglio di tipo neorealistico a cui però non sembrano invece aderire alcuni dei personaggi principali, ispirati almeno in apparenza a modelli più stereotipati ed interpretati da attori professionisti. Questo, insieme ai diversi riferimenti biblici, alla proposta di immagini molto suggestive ma di difficile decifrazione, produce nello spettatore una sottile sensazione di disagio laddove le scelte di regia e di sceneggiatura non sempre appaiono coerenti e immediatamente comprensibili.
Manuela Materdomini
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