Gus Van Sant non dà una lezione di cinema, piuttosto indica come la questione etica sia cruciale nel processo di valutazione di un’opera. Ora spetta a noi saper cogliere questa provocazione.
Dopo aver cercato di demolire la consistenza temporale del cinema, a colpi di carrellate infinite, lente , che bucano lo schermo, collocandosi in un fuori campo anarchico e visionario, e averci indicato il vuoto, il luogo in cui l’orizzontalità della successione degli istanti è trafitta dalla verticalità dell’intempestivo , di ciò che sfugge alla possibilità della rappresentazione (Elephant, Last Days, Paranoid Park), Gus Van Sant completa il processo di decostruzione dell’immagine (quella “spettacolare” per intenderci), ma il suo non è più un gesto che nega e sospende, piuttosto un’operazione che rovescia e trasfigura.
In Restless l’amore tra i due giovanissimi Annabel (Mia Wasikowska) e Enoch (Henry Hopper, figlio del celebre Dennis) costituisce una procedura che eccede i due protagonisti e li convoca, assieme agli spettatori, a collocarsi in una rottura immanente, a soggiornare, cioè, a ridosso di uno dei quei tanti buchi che traforano l’ordine simbolico come una groviera, presso i bordi di uno spazio desaturato, laddove si consuma l’estenuante lotta per l’unico valore che valga la pena perseguire: la verità.
Enoch, miracolato superstite di un incidente d’auto che lo ha reso orfano, è un assiduo frequentatore di funerali, intrattiene un rapporto quotidiano con la morte, delira assieme ad un allucinatorio amico kamikaze giapponese. Il suo è, potremmo dire, un “esser per la morte”, che ricorda molto la filosofia suicida degli odierni terroristi. Annabel, colpita da un inguaribile tumore al cervello, ha conservato un amore per la vita senza riserve, sconfinato, e il suo sorriso candido e solare illumina il mondo che la circonda. Appassionata lettrice dei saggi di Darwin, ha maturato un atteggiamento fortemente biopolitico, cioè di protezione e promozione della vita, intesa nel senso più ampio del termine (della vita umana, bios, e di quella animale e vegetale, zoè).
La morte, come provenienza (Enoch) e come meta finale (Annabel), sembra delimitare una topologia all’interno della quale brancolano gli individui, stretti nell’afflato di una malinconia irrimediabile, che rende “inquieti” (restless), in quanto unica condizione di possibilità della comunità.
Ma ciò che permette di smarcarsi dalla nenia del fallimento originario, della caduta, o, per dirla col gergo heideggeriano, dalla consapevolezza di non avere fondamento, è l’opportunità di accedere a un’altra temporalità, che libera un’immagine nuova. Niente più schermi neri o bianchi, niente più sospensioni, afasie o aprassie, niente più funerali, ma una visione: insomma, gli occhi hanno visto la vista, come quando Annabel, poco prima di morire, riesce a vedere il fantasma allucinatorio di Enoch, e ciò che eccede la rappresentazione si libera e si mostra a chi ha creduto e sperato. È come se Enoch avesse prodotto quell’immagine, ma è solo la fedeltà (all’amore) di Annabel che l’ha resa per la prima volta visibile.
La visione, se preferite il miracolo (ciò che eccede l’ordinario), prescrive un’ironia impietosa, un atteggiamento rigoroso sul versante della fruizione, come l’adorazione dei fedeli davanti ad un’icona. Si vive, si ama, si muore all’interno di una comunità, e ciascuno è convocato ad assistere, in maniera tale che ogni esistenza non venga umiliata nelle maglie del quotidiano, del mondano, o nella brutalità di un ottuso atteggiamento epistemologico. Bisogna che conoscenza e fede s’incontrino in una zona, magari quella di Stalker, nell’unità indivisibile di un’indiscernibilità che redime.
Gus Van Sant non dà unalezione di cinema, piuttosto indica come la questione etica sia cruciale nel processo di valutazione di un’opera. Ora spetta a noi saper cogliere questa provocazione.
Luca Biscontini
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