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Conversation

‘Occhi Blu’ conversazione con Michela Cescon

Occhi Blu è un'esperienza visiva fuori dal comune

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michela cescon

Presentato in anteprima al Taormina Film Festival e uscito nelle sale la scorsa estate Occhi Blu di Michela Cescon è un’esperienza visiva fuori dal comune che si richiama all’essenza più pura della Settima Arte. In occasione della suo passaggio al Festival del Cinema di Porretta Terme abbiamo conversato con l’autrice proponendole un percorso che mette in relazione il suo esordio alla regia con il debutto come attrice in Primo amore di cui fu indimenticabile protagonista.

Michela Cescon tra Primo amore Occhi blu

Vorrei partire dall’accostamento di due debutti, quello che nel 2004 ti ha visto esordire, diretta da Matteo Garrone in Primo amore e l’ultimo, in cui hai diretto il tuo primo lungometraggio. In questo senso non mi è sfuggito il fatto che Occhi Blu inverta le premesse di Primo amore. Lì si raccontava di una donna sottomessa alla volontà del suo uomo, qui invece è la protagonista a dettare le regole del gioco, avendo la meglio sulla compagine maschile.

Sono d’accordo. Occhi Blu racconta una figura femminile nuova e anche un po’ diversa da quelle che il cinema ci ha abituato a vedere. Come artista e come donna mi sono molto interrogata su come poteva essere il mio primo film come pure sul ruolo che avrei dovuto dare a Valeria Golino. Ritengo che i ritratti femminili siano molto più interessanti di quelli maschili perché liberi da quei cliché tipici di chi è raccontato troppo. Per questo le donne, essendo prese in considerazione solo nella parte di mogli e amanti, dal punto di visto narrativo rappresentano un materiale umano ancora inesplorato e dunque più libero da interpretare. Da qui la volontà di realizzarne un ritratto che rispecchiasse l’incertezza e la difficoltà di darne un quadro definitivo, anche in termini di prospettive future. Il fatto che lei sia una donna in fuga e che la macchina da presa la raggiunga in continuazione e non viceversa è il frutto di questa sostanziale anarchia.

Ho chiesto a tutti, soprattutto a Matteo Cocco, il direttore della fotografia, di seguirmi in questa idea, e dunque di filmarla con poche riprese frontali e con continui riferimenti a particolari del suo corpo come l’orecchio, il piede, la mano. Da qui sono partita per costruire il personaggio che alla fine lascio fuggire proprio perché non ho una risposta sulla rappresentazione del femminile e sul tipo di ritratto che si possa fare di una donna del 2021 all’interno di una città metropolitana come Roma. La scelta di Valeria Golino è anch’essa una conseguenza di questo dilemma. Lei è un’attrice che concorre a rendere il nostro cinema conosciuto anche all’estero. Di lei gli amanti del cinema sanno ogni cosa, come si muove, come cammina, com’è fatto il suo corpo ed è per questo che io ho lavorato su di lei in senso opposto, togliendo allo spettatore quei riferimenti che la rendevano riconoscibile. Se avessi fatto il film cinque anni fa il suo alter ego sarebbe stato più arrabbiato. In realtà lei non lo è perché gioca e si diverte a fare quello che fa: ama fuggire, ama la velocità, ed è solitaria come lo sono tutte le persone di talento. Dal crimine si prende quello che la vita non le ha potuto dare. Io la definisco una donna apache per come gioca con gli odori, i suoni e gli oggetti presenti nella sua casa.

Un grande debutto

Sempre continuando a parlare delle analogie tra questi due film, mi sembra che Occhi Blu rappresenti la chiusura di un cerchio aperto dalla collaborazione con Matteo Garrone. Sul piano della carriera artistica Occhi Blu ti corrisponde perché in un momento storico come il nostro anche tu, come Valeria, decidi di prendere il comando, facendo tuo lo sguardo della mdp. Rispetto a questo, ciò che succede nel finale è in qualche modo allegorico di quanto stiamo dicendo.

A quel film devo molto e mi piace che tu lo abbia citato perché è stato un debutto importante.

Lo definirei un debutto clamoroso!

Sì, tanto clamoroso da farmi riflettere sulla necessità di non ripetere quel film, ma di cercare una via più personale. Questo perché un’opera così intima rischia di condizionare le scelte successive. Non so se Matteo per realizzare i suoi film fa lo stesso percorso a cui ho avuto la fortuna di partecipare. Lui mi chiamò quasi due anni prima delle riprese, in un periodo della mia vita in cui la libertà dei miei trent’anni mi ha permesso di potermici dedicare con tutta me stessa e senza altre distrazioni. Matteo mi portava continuamente a Vicenza offrendomi la possibilità di costruire il personaggio a partire dai luoghi. Lui stava scrivendo la sceneggiatura assieme a Massimo Gaudioso e Vitaliano Trevisan e io passavo molto tempo con loro andando alla ricerca dei posti di cui poi avrebbero scritto. Era tutto molto visivo, la storia cresceva attraverso i nostri sguardi, e questo lo porterò con me per sempre. Mi ricordo una troupe molto agile, capace di adattarsi a ripensamenti e imprevisti, e dunque a girare in un’altra location o addirittura una scena non programmata. Questo per dire che si è trattato di un battesimo che mi porto dentro e che per me rappresenta il cinema a cui guardo e aspiro.

Ho avuto altri incontri importanti, per esempio con Marco Tullio Giordana, però, a differenza di Primo amore, ci arrivavo essendo già strutturata. Occhi blu non è Garrone perché Matteo fa un cinema troppo personale per essere copiato, però l’imprinting dello sguardo forse me l’ha dato anche lui. In Occhi Blu c’è molto della mia storia per cui sono contenta che tu vi riconosca la mia appartenenza. Alcune persone sono state sorprese perché non si aspettavano da un’attrice un debutto di questo tipo. In realtà questo lavoro fa parte anche del mio percorso teatrale e della mia passione per l’architettura. Per me il cinema è spazio, soprattutto quello che non c’è, che rimane fuori quadro.

Il rapporto di Michela Cescon con i due film

A proposito di quanto il film ti appartenga, Occhi Blu ne dà dimostrazione in una delle scene finali in cui il volto di Valeria è coperto da uno strumento ottico mentre la voce fuori campo recita: “Ora hai gli occhi, puoi fare tutto, anche andare veloce”. Posta a suggello della storia, un’affermazione del genere trasforma il manifesto esistenziale della protagonista in un’istanza artistica che sembra appartenere prima di tutto a te.

Sì, è il mio finale. Poi ognuno lo legge come vuole. Occhi blu ha volutamente dei grandi vuoti narrativi e spaziali, forse anche troppi. Me ne accorgo quando mi dicono che non spiego la storia fino in fondo. In realtà per me la vicenda è quasi un pretesto, come succede nei polar a cui mi sono ispirata. Appartenendo a un genere ben preciso, storie come quella di Occhi Blu ti danno la possibilità di giocare con pedine conosciute, senza dover pensare a chi è questo o quello. La gente dovrebbe apprezzare il fatto di potersi sentire libera dal particolare e godersi le atmosfere. E comunque sì, quello è proprio il mio messaggio, corrisponde a come mi sento oggi e cioè: “adesso vedi e puoi correre!”.

All’interno di Primo amore la tua era una vera e propria performance. Lo stesso vale per Valeria e per il suo personaggio che ogni volta si lancia in prove sempre più difficili.

Sì, lei è performativa al cento per cento. Sono d’accordo, il tuo ragionamento è proprio centrato rispetto a quello che volevo fare nel film, a ciò che esso rappresenta. In Occhi blu c’è una ricerca molto forte della fisicità, per arrivare alla quale c’era bisogno di molta concentrazione. Quella di Valeria è una performance che si manifesta in un contesto di grandi talenti come Andrea Farri, autore di una grande musica e di Matteo Cocco, grandissimo direttore della fotografia.

Il rapporto con Valeria Golino

Valeria Golino aveva già fatto parte del tuo cinema, protagonista di Come un soffio, cortometraggio da te diretto nel 2010. Anche in quel caso, come in Occhi Blu, si trattava di una storia di fantasmi.

Sì, anche lì si parlava di fantasmi ed è vero che ci sono delle cose di quel corto presenti anche in Occhi blu. Per esempio il soffio che lei riceve quando è seduta dentro la macchina in quel bellissimo garage, con la mdp che gli passa davanti generando sul suo viso una sorta di soffio. Un refolo che nel cortometraggio segnala la presenza del padre, morto in un incidente automobilistico. In Occhi Blu l’esistenza della figura paterna è segnalata dalle corse di Valeria che sembrano un espediente per raggiungere chi è fuggito abbandonandola al suo destino. Il personaggio del Francese, interpretato da Jean Hugues Anglade è come se fosse suo padre. Lui ne ha riconosciuto il talento ed è l’unico capace di fermarla.

Il legame con Valeria Golino sussiste anche rispetto al film con cui ha debuttato alla regia. Sia Miele che Occhi blu hanno come protagoniste donne in fuga dal mondo e coinvolte in attività criminali per motivi che esulano il denaro. Entrambe, poi, sono figure fantasmatiche. 

Bravo, hai ragione tu. Come spesso capita quando uno è dentro le cose e ci lavora sopra fatica a cogliere certe risonanze. Quelle che hai appena detto sono dei bei segni. Per fare Occhi Blu ci abbiamo messo cinque anni e fin dal principio Valeria ha sempre fatto parte del progetto. Dunque lei ha portato dentro il film cose che le appartengono, tra cui certamente Miele. Io le devo la sua totale fiducia perché per un’attrice importante partecipare a un set come il mio non era una cosa scontata. Io le dicevo sempre che per me era come fare un film con Jean Moreau, di cui avevo bisogno perché con il mio lungometraggio volevo omaggiare il cinema. In questo caso le chiedevo di fare una versione della Golino alla mia maniera, cioè annullandosi. Non è stato facile, ma lei era l’unica che poteva farlo come avevo in mente. Questo perché lei ha l’anima di una jazzista. Io le ho tolto quasi tutte le parole, ma lei è un’attrice che se gli chiedi di improvvisare e la segui nel suo percorso è capace di tirare fuori cose veramente importanti. Valeria per me è la tromba di Fresu. È così brava che un tale paragone le calza a pennello.

La regia di Michela Cescon

Nel film di Garrone la tua performance consisteva nello svuotare il corpo delle sue parole per diventare un oggetto nelle mani della controparte maschile. Occhi Blu parte da questo poiché anche i suoi personaggi pronunciano poche frasi. Di  Garrone la tua regia condivide anche l’importanza dell’elemento visuale, chiamato a raccontare il vuoto lasciato dalle mancanza di parole.

Sì, è vero. Magari nel prossimo film i personaggi parleranno sempre (ride, ndr) però qui c’era la voglia di raccontare attraverso le immagini. Ogni volta che li sentivo parlare mi sembrava specificassero cose che non portavano a niente. Mi veniva sempre da toglierle, aggiungendo particolari visivi. Volevo che il mio fosse un pubblico attivo, capace di partecipare alla costruzione della storia. Al termine delle proiezioni chiedo alle persone la loro interpretazione della storia ricevendo sempre letture diverse, soprattutto per quanto riguarda il destino dei personaggi. Ritengo questo un aspetto stimolante perché è così che un film diventa una vera e propria esperienza.

Primo amore e Occhi Blu sono opere fuori dal comune cinematografico. D’altronde la tua prima volta da attrice di cinema è di quelli da ricordare perché all’insegna di una radicalità sconosciuta nel nostro cinema, soprattutto da parte di un’attrice. In questo senso la Sonia di Primo amore è frutto di una performance onnicomprensiva, fisica e spirituale come può esserlo quella offerta da Robert De Niro in Toro Scatenato. È qualcosa che di solito si vede più nel cinema anglosassone che nel nostro.

Questo succede perché c’è paura e pigrizia. In giro ci sono tante cose belle, ma la tendenza è quella di ripetere ciò che va di moda, mentre il percorso di una persona è faticoso, a volte doloroso. Mentre giravo Occhi Blu lo percepivo come un prodotto onesto allo stesso modo in cui fin qui è stata onesta la mia carriera. Un’attitudine che ho utilizzato quando durante il montaggio cercavo di capire come impostare il film. È fondamentale che lo sia perché quel lungometraggio sono io e quello che ho voluto fare insieme alle persone che mi hanno aiutato. È stato un lavoro di sentimento, senza capitalizzare gli aspetti che avrebbero potuto giovare al film in termini di facile presa. Lo stessa cosa è successa per Primo amore, la cui performance partiva tutta da dentro, da come sono io. Poi, certo, dopo averlo fatto ti rendi conto che Occhi blu deve fare i conti con il suo essere un prodotto anomalo per chi lo deve produrre e poi distribuire.

Occhi blu

Secondo me è uno di quei film destinati a restare e di cui sentiremo parlare. Non c’è dubbio che rispetto alla maggior parte dei prodotti mainstream e soprattutto seriali, l’anomalia di Occhi Blu è qualcosa a cui lo spettatore comune si deve abituare. Per questo credo sarà riscoperto come capita alle opere con caratteristiche come le tue.

Occhi blu è un film pieno di sfide, tante quanto quella che mi sono assunta decidendo di girarlo. Anch’esso è un film egoistico perché ha funzionato anche come verifica sulla possibilità di poter avere un mio sguardo. Non è stato un capriccio d’attrice, ma l’esigenza di trovare una visione personale e soprattutto provare a me stessa di potercela avere.

Occhi blu si apre con una panoramica che avanza verso le acque del Tevere per poi staccare sul motociclista che sfreccia nel tunnel. Con un semplice accostamento ci dici che quello che stiamo per vedere è una sorta di rifondazione pagana della città di Roma e la protagonista è ciò che le scorre dentro.

Sì, è così, boom!, e il film inizia improvvisamente, come a dire: o ci stai oppure ti alzi e te ne vai! senza mezzi termini. Poi una volta che metti i piedi a terra ti ritrovi in una roba che può essere Berlino, Londra, Parigi. Una metropoli dura, ma non borgatara. Non a caso ho inserito i suoni di una tromba e la canzonetta romana intonata da Ivano De Matteo alla fine sembra quasi uscire da New York New York.

Una caratteristica, quella del paganesimo di questa nuova Roma, rintracciabile nella centralità assunta dalla piramide Cestia, chiamata a sostituire quella vaticana, simbolo dell’altra Roma.

Assolutamente sì, ci abito vicino e per me la piramide è una magnifica porta di accesso a Roma. Le sue forme sono straordinarie. Sembra una luna eppure la città la tratta come se non esistesse. Ci si pensa poco mentre invece io dicevo sempre a Matteo di illuminarla come fosse il faro di questa Roma notturna. È lì che il commissario si innamora di Monia, creatura bellissima, femminile o forse maschile, chi lo sa. Se avessi fatto il film tempo fa a interpretarla ci poteva stare una diva come Anna Magnani con la sua espressione scanzonata, a metà strada tra dolore e ironia. Insomma, quanto basta per farti considerare che oggi lei non ci potrebbe più essere perché Roma è cambiata. Adesso ci voleva una figura randagia e notturna, né uomo né donna, né giovane né vecchia, simile alla Roma inafferrabile dei nostri giorni. Quella che si vede nel film è la mia visione della città, moderna come altre metropoli europee, ma diversa da quella che conosciamo. Anche il Colosseo non sembra lo stesso, ma lì è stato bravo Cocco ad accompagnarmi nella sfida di mostrare la città come mai era accaduto.

michela cescon

Alcune caratteristiche del film

Il fatto che Valeria proviene dalle acque del Tevere e lì ritorna ci dice come la protagonista sia un’estensione della città.

Era una scommessa non da poco perché era il mio film a farla vedere in quel modo. Ivi compreso il viaggio notturno che forse è anche troppo registico, ma per me necessario. Attraversando la città in sella alla motocicletta di Valeria vediamo una metropoli in cui le persone scappano, rubano, fanno scambi sessuali e nonostante questo si incontrano tutti alla Piramide.

Uno dei leit motiv del film è il continuo movimento dei personaggi. È cosi che ce li presenti ed è questa la modalità che più li caratterizza. Tutti, tranne il commissario che non a caso è arrivato a un punto morto della sua indagine. Il fatto di vederlo fermo è coerente con la stasi della sua investigazione.

Sì, lui è fermo rispetto agli altri perché gli è successa la cosa più terribile che gli potesse capitare alla sua età, ovvero quella di essersi innamorato di un essere di magnifica bellezza – di un lui o di una lei, ognuno può immaginarselo a suo modo –  il cui volto illuminato in quel modo sembra uscito da un film di Fassbinder. Il commissario ne è completamente perso ed è per questo che lui è l’unico a trovarsi impantanato.

A questo proposito la canzone finale che lui canta all’interno del locale l’ho percepita come una sorta di scioglimento finale. Una volta finita l’indagine e ottenuto ciò che cercava l’uomo si produce in quell’esibizione che ne evidenzia la catarsi emotiva. Seppur fermo a muoversi è quello che ha dentro. Il movimento c’è, ma non è fisico bensì interiore.

Sì, certo, però c’è anche il fatto che lui è ossessionato dai soldi. Anche se è un commissario e si veste bene fin dal principio ci appare come un ladro. Io l’ho immaginato scappare con il suo amore in qualche isola sperduta con il suo amore e con i soldi rubati. 

I movimenti della Golino di Occhi blu

Se il commissario e il francese si muovono con traiettorie lineari, assecondando le linee rette delle mappe che riproducono la città, quello della Golino è un movimento più articolato, molto spesso circolare, come succede all’interno del garage in cui con la motocicletta sembra voler tracciare una serie di cerchi concentrici. Un segno, questo, che sembra voler rimandare al fatto che Valeria è l’unica capace di chiudere il cerchio delle sue azioni. Al contrario di chi la cerca, le cui geometrie aperte sono simbolo della loro irresolutezza.

Sì, di punti di vista e di vie di fuga sempre trasversali. Mentre hai ragione tu, la Golino, se noti, oltre ad avere questo bellissimo tavolo da ping pong a forma di occhio, ha anche le scale di casa con una struttura circolare. Carlo Degli Esposti, il mio produttore, mi diceva che avevo un’ossessione per le forme circolari e per le ferrovie, ma il film è per sua natura ossessivo. D’altro canto chi non ne ha, per me sono qualcosa da proteggere (ride, ndr) perché ti costringono a fare attenzione a molte cose. Ed è vero che ognuno ha il suo movimento: Anglade cammina sempre in maniera molto lineare e poi alla fine, quando anche lui si è liberato dei suoi fantasmi, lo vediamo uscire con una bicicletta dopo essere passato dallo scooter alla macchina. Segni evidenti del suo processo di liberazione dal male.

D’altronde il luogo del primo incontro tra Anglade e Valeria è un ristorante cinese in cui i due siedono uno a fianco all’altro, con i cibi che gli passano davanti riproducendo un’idea di movimento simile a quello prodotto dalle rotaie delle ferrovie in cui spesso cammina il Francese.

È fatto apposta. Anche lì con Matteo abbiamo deciso di non riprendere i personaggi di fronte perché volevamo che entrambi fossero protesi verso le rispettive vie di fuga, dunque il movimento del carrello con sopra le pietanze è simbolico rispetto al moto perpetuo dei protagonisti. Il film è pieno di simboli e di rimandi che lo rendono anche molto colto e destinato a dare il meglio di sé in sala, mentre ora, per come siamo messi, il pubblico lo vedrà soprattutto sul piccolo schermo. Questo è il limite di Occhi blu. E cioè il fatto di essere pensato per il cinema.

Le caratteristiche di Occhi blu di Michela Cescon

Mi pare si possa dire che esista un cortocircuito di sguardi: il tuo, quello della mdp e infine di Valeria, con le forme circolari di cui si circonda che rimandano all’iride del suo/tuo occhio.

Sì, c’è un bel cortocircuito. È stato un gioco divertente scoprire in quanti modi si potevano dire le stesse cose. Qualcuno mi ha detto di essere rimasto infastidito dalla mancanza di spiegazioni. Di certo Occhi Blu è un film fatto per un pubblico che certe domande non se le pone. Avrei potuto ricostruire le fasi che permettono al Francese di incontrare Valeria, ma in un film come il mio non era necessario. Se lo avessi fatto Occhi blu sarebbe andato in una direzione diversa da quello che ho cercato di spiegarti. 

Occhi blu non racconta fatti, ma suggestioni. Rivolgendosi all’universale non ha bisogno di scendere nel particolare degli eventi, ma solo di introdurli.

Magari ho esagerato lasciandomi prendere dal divertimento, però se pensiamo al polar e a Melville non ti chiedi mai perché Alain Delon indossasse il cappello sempre in una certa maniera. Non ha importanza perché quello che conta in quei film è la direzione degli sguardi, quello che hanno attorno e soprattutto ciò che rimane fuori campo. 

Peraltro Occhi blu è un film costruito su elementi opposti. Penso alla dicotomia tra luce e ombra, realtà e apparenza, sacro e profano.

Tra rumore e silenzio assoluto, si è così, poi se vuoi dargli delle tematiche è anche una storia di vendetta. È chiaro che alla fine non è un film con una morale buona e consolatoria. Anche se lei non è un’assassina, al commissario regala una vita, ma poi è lui a decidere cosa farne.

I riferimenti

Parliamo dei riferimenti del film.

Ne ho avuti due: il polar e dunque Melville e poi Wong Kar Wai che a me piace tantissimo. Nel film si vedono alcune cose tratte dai suoi film che però, se tornassi indietro, semplificherei un po’. Mi riferisco all’incontro clandestino con il ragazzo: quello chiaramente è un omaggio a In the Mood for Love. Avevo il desiderio di usare la mdp in maniera tale che si vedesse. Se adotti una forma documentaristica dove gli attori recitano una storia scritta bene allora è giusto girarla in maniera classica. A me invece piace moltissimo vedere la regia. Mi dà l’idea di un autore che voglia offrire una visione personale, di mettere l’obiettivo in un certo modo. Mi infastidisce quando vedo immagini in cui non c’è una scelta. Poi magari non sarebbe quella che farei io, ma la confusione mi distoglie dal film. Più vado avanti e più ho voglia di vedere qualcuno che, a modo suo, mi mostra qualcosa. In quel caso la visione diventa un’esperienza, come lo è la letteratura, altrimenti è confusione.

Occhi Blu è un’esperienza visiva che ci riporta all’essenza primaria del cinema. Potrebbe addirittura essere un film muto, talmente le immagini sono in grado di raccontare il mood dei personaggi e dell’ambiente.

In quello che mi dici la scommessa è stata anche nel riuscire a portare avanti il film con la protagonista a cui avevo sempre pensato. Non è stato facile perché ogni volta mi suggerivano di dare al personaggio femminile qualcosa di materno, di addolcirne il carattere. Mi chiedevano di motivare i suoi gesti, magari giustificandoli con una violenza subita in gioventù. E io dicevo, ma se vedi un western e c’è John Wayne che spara mica ti chiedi se lo fa perché la mamma da piccolo gli ha creato qualche disfunzione?

Modelli femminili come quello di Valeria spaventano. Siamo abituati a una società, e quindi a un cinema, in cui la donna deve essere per forza rassicurante.

Esatto. Mi chiedevano di farla tornare a casa e di mostrare un cane in attesa del suo arrivo. La volevano normalizzare ma ho tenuto duro e il cane non c’è (ride, ndr).

Un’altra cosa che non fai è quella di cedere al voyeurismo. Nel film l’eros è più una questione di feticismo che di nudo. La motocicletta, come i personaggi la guardano e soprattutto la toccano, ne è il segno evidente.

Io trovo il personaggio di Valeria molto erotico, però chiaramente è una mia visione. Il suo modo di guardare e di vestirsi sono molto sensuali. Ed è stata bravissima la costumista Grazia Materia perché non era facile vestirla. Bastava poco per farla apparire ridicola o sessualmente sbilanciata. Inguainata in tuta di pelle nera non ti viene mai da dire: ma com’è vestita?. Poi bisogna dire che io adoro i Manga e la graphic novel che adesso piace a tutti. Quel capello con la frangetta e i particolari delle orecchie sono cose molto Manga. Il maxi scooter che lei predilige è molto Manga. Anche il modo di filmare la velocità, con la ripresa frontale e la strada che le scorre dietro lo è.

Parliamo dei film che ti piacciono o che hanno ispirato il tuo percorso d’attrice e di regista.

Come per tutte le cose, a segnarti sono i film di quando sei stato giovane. Io ho deciso di fare l’attrice all’epoca in cui usciva il Kieslowski del decalogo e dei tre colori, Kaurismaki che vedevo al cinema Edera di Treviso, ancora oggi aperto e che già allora forniva un servizio eccellente rispetto alla programmazione dei film d’essai. Poi, certo, uno non può dire che non gli piace Otto e mezzo che per me è il film più bello in assoluto. Allo stesso tempo mi accorgo che ad avermi segnato sono quelli usciti quando avevo diciotto, diciannove anni. Kieslowski e Kaurismaki non sono i miei preferiti, ma in quel momento loro mi hanno dato il colpo. Pensa che quando ero a Torino a  frequentare la scuola di Ronconi scrissi a Kieslowski e lui mi rispose. Succedeva poco prima che morisse, ma, insomma, devo a lui la decisione di fare l’attrice. Mi sono detta “vado, quella è roba mia!”. E così è stato e continua a essere!   

Occhi Blu

  • Anno: 2021
  • Durata: 86
  • Distribuzione: I Wonder Pictures
  • Genere: Thriller
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Michela Cescon
  • Data di uscita: 08-July-2021