Da oggi, 15 dicembre, anche su Netflix, È stata la mano di Dio continua la sua corsa nelle sale italiane lasciando dietro di sé una scia di pareri, opinioni e nuove ipotesi su un cinema che non lascia indifferenti. Da qui la volontà di tornare sul film soffermandoci su alcuni aspetti di novità dell’ultima opera di Paolo Sorrentino.
In gioventù ero troppo impegnato ad affrontare i miei demoni per esserne cosciente. Adesso, invece, il cinema quando c’è lo riconosco e questo mi placa…
Ritorno alla vita
Su quanto sia stato catartico per Paolo Sorrentino girare È stata la mano di Dio è inutile dire. Più interessante può essere annotare le affinità del suo ultimo film con quello che nel 2013 ne ha decretato la fama internazionale. Col senno di poi infatti La Grande Bellezza è molto di più che il punto di inizio di una nuova fase creativa, e dunque di un nuovo modo di fare cinema nella maniera in cui lo è stato The Tree of Life per Terrence Malik. Non è una coincidenza che l’ultimo film di Sorrentino inizi laddove si era concluso l’altro, ovvero in quel mare che, ora come allora, rappresenta la via per arrivare al sommo bene. Rispetto al viaggio dantesco di Jep Gambardella (dopo lo scoppio del cannone e la morte del turista Sorrentino ci spalanca le porte degli inferi) quello (terreno) di Fabietto Schisa si sviluppa come un processo di trasfigurazione al contrario. Dalla novella Itaca in cui Gambardella recuperava l’amor perduto alla Napoli in cui Fabietto incontra quello dei propri genitori, ad andare in scena in È stata la mano di Dio è una trasformazione in cui l’ideale estetico vagheggiato dal maturo cronista si fa più concreto, sfiorando la realtà (senza mai abbracciarla) quel tanto che basta per autorizzare una rilettura a ritroso della filmografia dell’autore in cui è facile riconosce nei protagonisti della sue storie (da Antonio Pisapia de L’uomo in più al Titta Di Girolamo di Le Conseguenze dell’amore), altrettante variazioni della figura paterna. Ma c’è di più, perché il transfert cinematografico, lungi dal restare esclusivamente una questione di cinema, tracima fuori dallo schermo per diventare vita, con il regista pronto a prendere il posto dei suoi personaggi in una rimessa a fuoco della propria vita che anticipa quella sublimata dalla mdp.
Lo sguardo dell’altra
Se Fabietto Schisa è l’ovvio alter ego del regista, quello che più degli altri ne rappresenta la summa cinematografica è Patrizia, la zia del ragazzo. A dircelo è il rapimento con cui quest’ultimo ne segue i tormenti, ma soprattutto la confessione in cui le rivela che al contrario degli altri lui ha sempre creduto alle sue fantasie (frase che suona come un vero e proprio manifesto del cinema sorrentiniano). Senza dimenticare che non essendo ispirata a una persona reale, ma il frutto di un invenzione del regista, Patrizia è destinata, per indole e per volontà del suo demiurgo, a incarnare la rivolta nei confronti di quella realtà scadente di cui si lamenta Toni Servillo nel corso del film. Non è una coincidenza che sia proprio lei ad aprire il film, con la scena, quella in cui viene abbindolata da San Gennaro che le promette di farla restare finalmente incinta, a cui Sorrentino affida il compito di stabilire la forma del vero, anche qui conseguenza di realtà e fantasia, in un quadro generale destinato ad alternare riso e pianto, malinconia e leggerezza, basso e alto dell’esistenza umana. Se Fabietto è lo sguardo del film, Patrizia ne è la veggente, quella che prima degli altri sente arrivare la morte per il fatto di portarsela dentro. È dunque lei la traghettatrice del nuovo cinema di Sorrentino, quella che gli permette di attenuare il bagaglio di simboli e metafore senza rinunciare ai luoghi del proprio immaginario.
Il mistero dell’esistenza umana
Proprio perché declinato sul piano dell’esperienza personale, È stata la mano di Dio rende ancora più incomprensibile il mistero dell’esistenza umana. Il regista ce ne indica la strada cogliendone il segno nello scarto tra l’evidenza dell’elemento fisiognomico, quello impresso nel corpo e sui volti dei personaggi, e la reticenza che si nasconde dietro la loro irrequieta esibizione. Come si verifica nel caso della meravigliosa nudità di Luisa Ranieri, voluttuosa ma sostanzialmente morta. È in questa frattura dell’immaginario e nello smarrimento che ne consegue la consistenza del nuovo film di Paolo Sorrentino.
Tutte le donne di Sorrentino
Va da sé che la messa a nudo della propria esistenza non abbia solo implicazioni sulla scelta di una forma cinematografica più sobria ed essenziale, capace di circoscrivere l’emozione e non di darle sfogo. Il cambio di passo rappresentato da È stata la mano di Dio lo si legge anche nella presenza dell’universo femminile, mai, in un film di Sorrentino, così centrale e sfaccettato nell’essere misura di ciò che è fuori dalla norma. Dominanti nel determinare l’umore della storia, così come nel trasgredirne le regole, quelle del film sono sempre donne fuori dal coro, anche quando, come nel caso della Baronessa Focale, scelgono di farsi carico dell’educazione sentimentale del giovane orfano, favorendone il rientro nei ranghi e, nella fattispecie, nei canoni della virilità maschile; per non dire di Maria, la madre di Fabio, la cui dedizione nel tenere unita la famiglia non le fa rinunciare alla sua parte più eversiva e meno convenzionale, riassunta nell’attitudine tutta maschile (siamo ancora pienamente fuori dalla norma) di destabilizzare l’ordine da lei stessa preservato, organizzando scherzi e burle destinati in qualche modo a prendersi gioco dell’infame destino. Il tutto in un ensemble di corpi, visi ed espressioni che irrompono sulla scena senza più abbandonarla, a riprova di un sentimento, quello di Sorrentino per l’universo femminile, qui palesato da un tripudio di immagini e di antropologie che non hanno niente da invidiare a quello di Pedro Almodovar. La direzione della fotografia, affidata a Daria D’Antonio dopo la lunga autarchia di Luca Bigazzi, ne è il segno tangibile.