Good Madam di Jenna Bass, presentato nella sezione Le stanze di Rol al 39° Torino Film Festival, riesce a produrre un’interessante rielaborazione del genere horror all’interno della rappresentazione del razzismo della società sudafricana, ma inciampa in una sceneggiatura slegata e a tratti confusa.
Good Madam – Trama
Tsidi (Chumisa Cosa) è una ragazza madre che vive con la nonna. Dopo la sua morte litiga con i parenti e si rifugia con la figlia di otto anni presso la madre Mavis (Nosipho Mtebe), che lavora come governante presso una ricca bianca in una grande casa nei sobborghi di Cape Town. Ben presto Tsidi scopre che qualcosa di strano succede nella villa e che la madre appare legata in modo morboso alla vecchia signora bianca gravemente ammalata.
Il genere horror in salsa africana
Dopo il noir con elementi western di Flatland, la regista sudafricana affronta con Good Madam il genere horror con risultati altalenanti e confermando quanto si era visto nella sua precedente pellicola.
Qui siamo dalle parti del sottogenere sorcery con vecchia signora inferma nel letto che respira come la strega in Suspiria di Dario Argento e già questo elemento profilmico conduce lo spettatore verso i lidi della possessione e del sacrificio di sangue.
Che sia volontario oppure ormai entrato nell’immaginario cinematografico mondiale, Good Madam ha molte sequenze che ricordano il cinema argentoniano, in particolare la macchina da presa che si muove nei corridoi e sulle scale della casa silenziosa. Oppure il giardino che incornicia la villa e il cimitero di famiglia annesso. O ancora gli improvvisi attacchi di sonnambulismo di Mavis, che continua a pulire gli oggetti di casa e poi quelli di Tsidi che a tutti gli effetti viene trasformata in una zombi.
Insomma, potremmo continuare anche con altri stilemi tipici del genere, senza scomodare il maestro italiano. Citiamo il fantasma del cane dagli occhi di ghiaccio, simbolo del passaggio tra la vita e la morte, del legame con l’oltretomba e con gli spiriti dei defunti giardinieri, cameriere, governanti tutti sepolti e legati alla famiglia della vecchia signora.
E, tutto sommato, l’elaborazione di questi elementi all’interno della cultura sudafricana (oltre l’inglese i personaggi parlano in isiXhosa una delle undici lingue autoctone del paese africano) sono l’aspetto più riuscito di Good Madam.
Jenna Bass si sofferma molto su dettagli dell’arredamento della casa: statuette e idoli, pergamene egizie, servizi in porcellana per il tè, bicchieri e vari ninnoli di cristallo. Tutti a suggerire le stranezze della padrona di casa e l’interesse per il mondo dei morti. Del resto, a parte il respiro e la sagoma coperta sul letto, la “padrona” è solo inquadrata attraverso una foto, quasi a dimostrare come non sia “più in vita”. Alcune sequenze più orrorifiche sono gestite bene nella miscela di tensione visiva e sonora, così come il contrasto tra il silenzio imposto della casa con lo scoppio improvviso delle violente discussioni tra Mavis, figlia e nipote risulta una scelta di espressione recitativa efficace.
Tra lotta al razzismo e denuncia del sessismo
Ma i due temi sottostanti alla forma di Good Madam risultano quantomeno troppo esplicitati.
Da un lato, appare scontato il confronto tra il mondo femminile e quello maschile. Sono lo zio e i cugini che vogliono imporre una condotta a Tsidi, dopo la morte della nonna, secondo regole patriarcali con l’obbligo di convivere con un giovane cugino e l’impossibilità di effettuare qualsiasi ristrutturazione (e quindi di cambiamento) della casa che Tsidi sente sua per aver accudito la nonna fino alla fine. Non accetta il ricatto dello zio e per questo si rifugia dalla madre.
Anche il padre della figlia appare come una figura meschina e inaffidabile: si rifiuta di andare a prendere la bambina a casa di Mavis per portarla a scuola la mattina perché troppo lontana e si deve svegliare all’alba. E quindi dopo il primo tentativo, con relativo ritardo, abdica all’impegno delegando una madre di una compagna della figlia.
Dall’altro lato, lo scontro tra le due donne nere e la padrona bianca è una metafora di un’apartheid reiterato, in un concetto di “grande famiglia” che include il possesso della terra e di tutto ciò che ci vive sopra. Quindi, anche gli esseri umani. E la schiavitù continua anche dopo la morte, in un’eternità servile in corpo e anima.
Il ribaltamento finale, a dire il vero non scontato, porta però a un risultato banalizzato con il ribaltamento dei ruoli: la presa di possesso della casa da parte di Mavis che si trasforma in “padrona”, spostando la vecchia signora, ormai ridotta a corpo senza potere, all’interno della stanzetta da governante.
Ma tutto questo è dissolto in una struttura narrativa poco compatta. E il fatto che alla sceneggiatura sono stati accreditati in dodici denota una molteplicità di punti di vista e di scelte di episodiche a danno della coerenza del racconto che a volte risulta un po’ confuso in alcuni suoi passaggi.
Torino Film Festival. Vincono sguardi originali e di frontiera