Aloners di Hong Sung-eun racconta con precisione di sguardo la solitudine dell’essere umano nella società contemporanea.
Passato in concorso al 39° Torino Film Festival (e ora su MUBI) una giovane e nuova autrice si presenta agli spettatori facendo centro al suo primo lungometraggio.
Aloners – Trama
Jina (Gong Seung-yeon) è impiegata in un call center di un’azienda di carte di credito. È la migliore nel suo lavoro e per questa ragione le viene affiancata una neoassunta per una settimana di addestramento. Jina ha perso da poco la madre, ma i suoi rapporti sociali ed emotivi sono ridotti allo stretto necessario e allontana tutti da sé.
Honjok ovvero la solitudine artificiale dell’essere umano
Nell’ultima decade in Corea del Sud ha preso piede un fenomeno sociale chiamato honjok cioè persone che oltre a vivere da sole ricercano la solitudine emotiva ed esistenziale. Se da un lato appare come una ricerca di ritrovare se stessi, un’esplorazione di spiritualità interiore, dall’altro è un sintomo di alienazione e di incapacità di creare rapporti empatici.
In Aloners la trentenne Hong Sung-eun punta l’occhio della cinepresa su questo secondo aspetto, mettendo in scena il lato negativo di questa tendenza accentuata anche dalla diffusione dei terminali digitali portatili e dai social network.
La protagonista Jina è affiancata dallo sguardo della giovane regista sudcoreana nella sua quotidianità composta dalle stesse attività e dai medesimi orari. Così, vive in un appartamento di ringhiera occupando un’unica stanza dove dorme e mangia. Si reca tutti i giorni al call center dove risponde in modo automatico senza nessuna inflessione nella voce né alcuna partecipazione emotiva. Il rapporto con il padre è conflittuale dopo la morte della madre. Così come con la sua caporeparto il dialogo è strettamente operativo.
La moltiplicazione dell’occhio digitale
Jina mangia regolarmente al solito posto a pranzo e la sera si scalda nel forno al microonde una pietanza precotta, sempre attaccata allo smartphone oppure davanti al pc in ufficio o con la televisione perennemente accesa. Persino il rapporto con i genitori si era ridotto allo spiare da remoto i genitori attraverso una micro-videocamera mimetizzata su un mobile del salotto.
Gli strumenti digitali da un lato sono appendici artificiose per comunicare con l’esterno, dall’altro risultano essere degli scudi macchinici per proteggersi dalle emozioni umane. In Aloners la solitudine di Jina è un comportamento in uno stato di anomia sociale che porta all’alienazione dell’individuo racchiuso in una cella. Visivamente reso da Hong Sung-eun rinchiudendola letteralmente nella camera singola dell’appartamento che appare una prigione. Così come, per traslazione figurativa, lo è altrettanto il box del call center dove Jina risponde meccanicamente alle chiamate più disparate di clienti esigenti, intolleranti, violenti e persino malati di mente.
Aloners appare come una forte denuncia alla società contemporanea in cui la competizione economica-finanziaria diviene la sola espressione di valore. Ed è significativo che Jina lavori in un call center del customer care di una carta di credito: simbolo per eccellenza del potere economico di una persona, elemento di distinzione sociale e di affermazione personale che si evince dalle telefonate dei clienti
L’arrivo della giovane collega Sujin (Jung Da-eun) mette in discussione la sua assenza alla vita: la ragazza cerca di creare un legame con Jina che vada al di là del mero rapporto lavorativo, trovando sempre un netto rifiuto che arriva al disinteresse nei confronti dell’altro essere umano.
I fantasmi della solitudine

Jina, del resto, appare come una figura fantasmatica, una zombi, una morta che cammina e ripete sempre le stesse azioni e ritorna sempre nei medesimi luoghi. Ecco perché riesce a vedere il suo vicino di appartamento, pur essendo morto da una settimana sotto una valanga di giornali e film pornografici. Ecco perché continua a ricevere le telefonate dal padre però dal cellulare della madre morta e lasciando intatto il nominativo nella rubrica, così come rivede i file registrati dell’ultima notte di vita della madre. Per traslazione simbolica riesce ad avere un contatto con i morti perché lei stessa non vive realmente. Hong Sung-eun predilige le inquadrature frontali della protagonista e spesso la cinepresa la segue con movimenti a procedere in avanti. Quasi visivamente come una cornice che racchiude l’immagine di una lastra tombale.
In questa rappresentazione mortifera si accende un barlume di speranza quando l’insano equilibrio della protagonista Jina è spezzato dalla fuga di Sujin, mettendone in discussione la sua vita. Così Jina aprirà un canale di comunicazione con il padre e riuscirà alla fine a sorridere, unico e solo lampo di felicità sul suo volto.
Il cinema sudcoreano ha dato dimostrazione di grande vitalità negli ultimi due decenni e Aloners ne è un esempio di conferma anche nelle nuove leve. Hong Sung-eun è una regista già con una sua idea precisa di rappresentazione delle realtà e con una capacità di rendere compatta ed equilibrata la messa in scena per tutto il tempo filmico. Un’autrice da seguire con interesse e da attendere alle prossime prove.
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