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Jane Eyre

Dopo oltre venti adattamenti cinematografici del romanzo Jane Eyre, l’ultimo dei quali ha visto la regia di Zeffirelli, arriva la rilettura noir del regista americano Cary Fukunaga, accolto come miglior regista all’Indipendent Spirit Awards nel 2010 per “Sin Nombre”.

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Anno: 2011

Distribuzione: Videa – CDE

Durata: 121′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Gran Bretagna

Regia: Cary Fukunaga

Sin dalla prima immagine appare lampante il tema centrale, l’idea dalla quale tutto il film prenderà le mosse: il nero.

Nero è lo schermo nel quale ritagliare uno spazio, un varco, una porta da cui scappa veloce Jane (Mia Wasikowska) per fuggire la disperazione di un amore da evitare. Neri sono i paesaggi, quelle aride brughiere – quelle stesse che ambientano tutti i romanzi delle sorelle Brontë – percorse dalla protagonista, silenziosa, composta, come stesse “galleggiando dolcemente sul fiume della vita”, cosi come nero è il suo passato, un’infanzia vissuta tra le vessazioni e i soprusi.

Dopo oltre venti adattamenti cinematografici del romanzo Jane Eyre, l’ultimo dei quali ha visto la regia di Zeffirelli, arriva la rilettura noir del regista americano Cary Fukunaga, accolto come miglior regista all’Indipendent Spirit Awards nel 2010 per Sin Nombre.

Ambientato nell’Inghilterra del XIX, la protagonista Jane Eyre è una giovane orfana ripudiata dalla zia e affidata ad un istituto di carità dove verrà maltrattata fino a quando, ormai grande, troverà lavoro a Thornfield  come istitutrice della pupilla del signor Edward Rochester (Micheal Fassbender), Adèle Varens. Venendo accolta amorevolmente nella sua nuova casa, Jane si avvicinerà a Rochester nonostante lui si mostri spesso inquieto, cupo e solitario.

Dopo essersi dichiarati il loro amore Jane scoprirà di non poter sposare Edward, già sposato con una donna rinchiusa in quella casa da anni. In preda alla follia la donna morirà cercando di dar fuoco alla casa ed Edward riuscirà così a sposare Jane.

La trasposizione di Fukunaga non riporta alla mente il Jane Eyre (1946) di Robert Stevenson,  forse il più celebre, così come la recitazione di Fassbender, a tratti  sarcastica ed irriverente, non ricalca quella tormentata di Orson Welles, e quella di Mia Wasikowska, risoluta, ferma e decisa non ricorda la melodrammatica umiltà di Joan Fontaine, eppure di quel film rievoca la fatalità, l’ineluttabilità del destino, come elementi decisivi.

Così, attraverso una scenografia sontuosa e cupa, sovrastano su ogni altro elemento filmico sia la  predilezione per il mistero – perturbante leitmotiv – che la scelta di affidare ai luoghi tenebrosi, ricordando le tematiche di Dietro la porta chiusa (1948) di Fritz Lang o Rebecca, la prima moglie (1940) di Hitchcock, il ruolo di ostili ed imponenti protagonisti sempre presenti in tanta letteratura gotica inglese.

Martina Bonichi

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