Venti minuti, il cortometraggio di Daniele Esposito, fa sentire forte il tema della memoria .
Venti minuti – RaiPlay
Lea si sveglia all’alba, di soprassalto, per un incubo che ha qualcosa di premonitore. La mattina, poco dopo, bussano alla porta. Due soldati tedeschi le consegnano una lettera con l’ordine di preparare i bagagli e seguirli. Hanno venti minuti di tempo. Lea e il marito Enzo dovranno fare una scelta decisiva con i loro due figli.
Roma, 16 ottobre 1943, oltre mille ebrei romani vennero strappati dalle loro case. Uomini, donne, bambini, deportati verso i campi di concentramento. Pochissimi di loro si salvarono.
Il rastrellamento della comunità ebraica a Roma
Il rastrellamento del ghetto è uno degli episodi più terribili dell’occupazione tedesca di Roma. Non è affatto semplice raccontare l’Olocausto, ancor più se l’episodio in questione venne rinominato il “Sabato nero” della storia romana.
In questo cortometraggio gli accadimenti di quella terribile giornata vengono portati in scena in modo intimo, partendo dai luoghi privati di una famiglia della comunità ebraica romana. La storia si dipana dentro le mura di casa di Lea Pavoncello ed Enzo Sonnino. Un risveglio traumatico, che distrugge definitivamente il futuro di una famiglia e di una comunità. Il dramma che si materializza. La separazione, l’allontanamento e qualcosa di più grosso e terribile sono davanti agli occhi di Lea. Deve convincere il marito Enzo della gravità di ciò che sta succedendo.
Lea ed Enzo sono due attori, o se non lo sono di professione in quel momento si improvvisano come tali, e provano un po’, come faceva Roberto Benigni in La Vita è Bella, a rimodellare il racconto del reale per i loro figli. Fuori dalla casa i rumori e le urla della disperazione che riecheggiano. Dinanzi all’offensiva nazista la gente disperata che scappa o prova a salvare il salvabile. Si cerca di mascherare l’accaduto ai più giovani, ma è difficile, perché si percepisce l’orrore di ciò che sta accadendo.
Il gioco della memoria
Tutto si racconta in romanesco, e tutto è sapientemente riportato agli usi e costumi del tempo, con, in più, gli elementi classici della cultura ebraica. In Venti minuti l’uso del linguaggio cinematografico è lineare, con diverse tonalità a tratti sognanti, un sagace montaggio, illusorio in una sequenza significativa del film. Quando raggiunge il suo apice il dramma, prende forma anche il gioco dell’immaginazione e della memoria stimolata dai genitori ed interpretata dai piccoli Cesare e Fiorella. Tale suggestione viene impressa nel quadro della diegesi, così anche noi con la piccola Fiorella possiamo vedere i tratti fondanti di quella famiglia. Tratti che saranno cardine dei ricordi della piccola Fiorella quando sarà una donna, una madre e una nonna ai giorni nostri, e che non potrà di certo dimenticare il “gioco della memoria” che gli permise di salvarsi dalla Gestapo.
Un messaggio di speranza
Proprio per questo gioco della memoria, che fu salvezza per chi come Fiorella ha vissuto sulla propria pelle l’Olocausto, si materializza nell’espressione di questo corto un messaggio di speranza nonostante tutto. Un gioco anche se si aveva paura nel piccolo cosmo privato della famiglia protagonista, che funga da esempio per tutti, da far riecheggiare a livello collettivo; un gioco che sarà salvezza anche per chi verrà domani, perché è solo con la memoria che possiamo riuscire a superare simili tragedie e rendere il futuro migliore.
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