Finita l’attesa per la serie live action di Cowboy Bebop su Netflix. Un disastro annunciato che smarrisce l’essenza che aveva fatto dell’anime prodotto dallo studio Sunrise e diretto da Shin’ichirō Watanabe un cult e si limita a uno scimmiottamento poco ispirato e ai confini con il cosplay.
Cowboy Bebop: Trama
Nel 2071 la Terra è ridotta a una landa desolata. L’umanità, sparsa tra le varie colonie del sistema solare, vive in balia di corruzione, criminalità organizzata e gioco d’azzardo. La condizione perfetta, insomma, per una nuova generazione di cacciatori di taglie. Spike Spiegel (John Cho), Jet Black (Mustafa Shakir) e Faye Valentine (Daniella Pineda) sono tre di loro e insieme compongono l’equipaggio male assortito del Bebop. Ma l’oscuro passato che ognuno si porta dietro è pronto a chiedere il conto. E sarà salato.
Un mix micidiale
C’era una volta un anime che per atmosfere, estetica e temi chiamava direttamente in causa Blade Runner senza nemmeno impallidire troppo al confronto. Una serie, tra le migliori nel suo genere, in grado di coniugare fantascienza e noir come forse solo il film di Ridley Scott aveva saputo fare prima di lei. Stavano tutte qui, in fondo, le ragioni del successo di Cowboy Bebop, serie giapponese di culto nata all’alba del nuovo millennio. Un’eredità ingombrante da cui l’omonima serie live action di Netflix decide di ripartire, nel non poco ambizioso tentativo di replicarne il successo.
La maledizione del live action
Non è certo una tradizione felice quella dei riadattamenti live action degli anime. Non sorprende allora che il Cowboy Bebop adattato dallo sceneggiatore Christopher Yost (Thor: The Dark World, The Mandalorian) non faccia eccezione gettandosi con sicurezza in un disastro già annunciato. Ne esce infatti un prodotto troppo impegnato a guardare da vicino l’anime di partenza per rendersi conto di perdere così tutte le suggestioni (le atmosfere, la commistione tra generi, il citazionismo) che ne avevano a suo tempo fatto un unicum. Il risultato è quindi una serie il cui intero orizzonte di riferimento pare essere il solo materiale di partenza. Un insieme di spunti spesso ricalcati pedissequamente (look e tic dei personaggi, situazioni ricorrenti, addirittura sequenze girate shot for shot) al punto da non sembrare più un riadattamento o una rielaborazione, ma un calco senz’anima pericolosamente vicino al fan film.
Una serie poco ispirata
Critiche, queste, che parrebbero a esclusivo uso e consumo dei fan, non fosse che la nuova serie, anche presa come oggetto a se stante rivolto a un pubblico di neofiti, abbia comunque non pochi problemi. Troppa teatralità (e non aiuta certo un cast di attori spesso ridotti a semplici cosplayer, in cui sembra in parte il solo John Cho), troppi ammiccamenti nei dieci episodi (spesso interminabili) che compongono la stagione, il tutto sorretto da un’estetica in ritardo di vent’anni e da un impianto scenografico, tra CGI zoppicante e set scarni, che tradisce la ristrettezza di mezzi.
Quello che resta di positivo, oltre alla sempre fantastica colonna sonora originale di Yoko Kanno, pare così proprio ciò che c’era già nell’anime del 1998: il suo mondo retrofuturistico sporco e sfacciatamente noir, fatto di cacciatori di taglie e amanti del jazz. Elementi che, però, se non rielaborati e adattati ai tempi, fanno di questo Cowboy Bebop nient’altro che un’operazione anacronistica o, al massimo, un tributo poco sentito e quindi impossibile da apprezzare davvero.
Sarà per la prossima volta, space cowboy…