Tra le storie da conoscere che la XX edizione del RIFF – Rome Independent Film Festival ci ha svelato, c’è anche quella delle tre protagoniste di Sue, documentario di Elisabetta Larosa sulla tratta delle schiave. Joy, Rita e Isoke sono infatti accomunate da un destino rovesciato dal bianco e nero dello sfruttamento e del ricatto, al colore della speranza, come la stessa fotografia si premura di evocare cambiando palette dall’incipit al vivo del racconto. Il problema è proprio questo: il racconto non entra mai davvero nel vivo e le tre storie restano testimonianze nobili, ma scolorite.
La trama
Tre donne di altrettante generazioni sono accomunate da un percorso travagliato ma combattivo di abbandono della propria terra per cercare migliori possibilità di vita in Italia. In fuga da povertà, carestie e guerre, trovano nel Belpaese lo spazio della dignitosa sopravvivenza, anche grazie all’accoglienza delle suore di Casa Rut. E soprattutto, recuperano lo spazio del sogno.
La giovane Joy, sfuggita a riti vodoo ed estorsioni, mostra come abbia imparato a cucire e a fare vestiti. Nel frattempo, studia e sogna di diventare psicologa. Nel 2020 ha pubblicato il libro Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta con la giornalista Mariapia Bonanate.
Anche Rita, un po’ più grande e con un figlio a cui consentire l’educazione con tanti sacrifici, scriverà un libro. Del suo lavoro come badante, ha fatto quasi un’arte. Alcuni anziani sono più aperti, e ne diventi quasi il nipote, altri più introversi, e ne rispetti con discrezione i silenzi.
Isoke, classe ’79, da Benin City in Nigeria all’Italia ne ha fatta di strada. Delle tre è la più impegnata, praticamente un personaggio pubblico: presidente dell’Associazione vittime ed ex vittime della tratta, ha scritto Le ragazze di Benin City, fatto incetta di premi internazionali, partecipato a congressi istituzionali. La sua è l’apoteosi della redenzione: partita per l’Europa a 17 anni con la promessa di lavorare in un supermercato, tra Londra, Parigi e l’Italia è finita nel vortice della prostituzione, da cui si è saputa tirar fuori con sofferta determinazione. Insignita della cittadinanza onoraria di Palermo dal Sindaco Leoluca Orlando, aiuta quante come lei siano finite in quel tunnel. Ora che ha visto la luce.
Tre storie senza storia
Nei suoi 61 minuti, ripartiti nelle tre storie di Joy, Rita e Isoke, Suedi Elisabetta Larosa prodotto dalla Movie Factory di Francesco Paolo Montini ha scelto di concentrarsi per lo più sul presente delle tre protagoniste, senza indiscreti scavi psicologici o di album personale. Che sia una forma di rispetto, una necessità imposta da limiti pratici o una scelta artistica, il risultato è difficile da discutere: le tre storie sono solo testimonianze accennate, che a dispetto di un generico afflato d’ispirazione non trapassano il feel good documentary. Tre abbozzi, più che tre filoni di uno script completo. A volte, addirittura, palesemente affaticati nel riempire il già risicato minutaggio.
Sue di Elisabetta Larosa: primo piano di Joy
Joy è protagonista di un’interminabile sequenza in cui balla in casa mentre chiacchiera, con voice over fuori sincrono, della sua esistenza attuale e delle sue aspirazioni. Vengon fuori frasi del tipo:
Da uno scarto possono nascere dei petali e dai petali, fiori bellissimi. Perché non c’è scarto che non possa fiorire. La vita continua.
Nello stesso modo, il racconto\non-racconto di Rita avanza pigramente, saltando a piè pari i fatti che – incredibile ma vero – ci si potrebbe aspettare da un documentario. È un’allusione, più che una storia: si parla di inganno e sofferenza, tra un “non mollare mai” e “c’è strada da fare”. Ancora una volta: massima deferenza per il messaggio positivo, ma il cinema è un’altra cosa.
Uno stile con troppo stile
Non che manchino scelte di stile, anche di convinta personalità. Anch’esse, tuttavia, appaiono discutibili. L’evidente mancanza di archivi produce un documentario tutto nel presente, in cui ogni episodio trapasso dal bianco e nero iniziale al colore col campionario del videoclip: sfocati, dissolvenze, ralenti, primissimi piani alternati a campi lunghi simil-droni, una colonna sonora ubiqua che non dà un attimo di tregua all’ascolto. Tanto è vero, che proprio in stile videoclip il documentario termina, con un ballo liberatorio in spiaggia.
Sue di Elisabetta Larosa: Isoke sulla spiaggia
Le insistenze sui visi e sui piccoli gesti, lodevoli tentativi di avvicinare lo spettatore alle tre donne, sono tra le buone idee visive. Ma la mimica eccessiva di Joy – che, s’intuisce, recita un testo scritto – e, viceversa, la ritrosia di Rita, indeboliscono lo sforzo. Troppo stile, troppa distanza.
La liberazione di Isoke
Non è un caso che appena un personaggio abbia qualcosa in più da dire, come nel caso di Isoke, Suedi Elisabetta Larosa si liberi in parti dalla propria incompiutezza, in direzione di un più pregno contenuto cinematografico e di una più avvertibile empatia. La donna rievoca le promesse disattese di lavoro in modo assai più incisivo rispetto al generico inneggiare al coraggio di due terzi del film:
Il lavoro era un pezzo di marciapiede.
Crea persino immagini suggestive, come quelle del falò nella notte innevata. O testimonia dettagli genuinamente utili a farsi un’idea della vicende di queste donne, come quello dei cosiddetti picchiatoriche costringevano con le cattive alla vita di strada. Dimostrazione che non servono immagini sensazionali per costruire una narrazione anziché confinarsi al bozzetto.
Raccontare il passato non è né voyeurismo, né una forzosa terapia d’urto per gli intervistati. A volte, specie nel documentario, si chiama semplicemente cinema. Suedi Elisabetta Larosa, purtroppo, non sembra appartenervi del tutto. E nonostante la stima da dovere a un volenteroso manufatto culturale che tornerà buono per centri sociali, scuole e rassegne solidali – e non è poco – difficilmente gli si può riconoscere, irrisolto com’è, la pienezza del racconto filmico.