Halloween Kills è un film diretto da David Gordon Green del 2021, dodicesimo capitolo della saga iniziata con il film di John Carpenter.
Nella cittadina di Haddonfield torna l’incubo: Michael Myers continua a mietere vittime, ma questa volta non troverà solo Laurie Strode a combatterlo…
Uno dei (molteplici) meriti del Marvel Cinematic Universe è probabilmente quello di aver sdoganato la possibilità data a registi e autori di cinema di rileggere franchise e personaggi ormai parte della cultura pop a seconda della loro visione, o meglio di una visione che potesse rendere chiare le potenzialità e le metafore insite in canoni e storie universalmente note, ma mai esplicitate.
Con il Michael Myers creato da John Carpenter nel suo capolavoro del 1978 ci aveva già pensato Rob Zombie con i suoi due capitoli nel 2007 e 2009: ma David Gordon Green si spinge più in là (anche se i suoi film restano nettamente inferiori, a livello di resa cinematografica, a quelli di Zombie), discostandosi apertamente dal canone.
E non si può certo dire che la sua non sia stata un’operazione che manca di programmazione: il suo primo capitolo –Halloween, 2018- aveva ripercorso il film originale, affiancato dalla presenza costante di Carpenter, con un debito apertamente dichiarato: se Rob Zombie aveva personalizzato con la carne in putrefazione, con il sangue e con il fuoco, Green sembrava intimorito dal nume tutelare, sempre vigile a non oltrepassare quasi la linea dell’omaggio.
Halloween Kills è il suo secondo capitolo, in vista di un terzo (Halloween Ends: obbligatorio, visto il successo al botteghino di questo e il finale più che aperto) e mostra senza vergogna la sua ambizione concettuale per essere uno specchio dell’horror moderno: allora torna più e più volte al film del 1978, citandolo, ripresentandolo e ricalcandolo in diverse sequenze, per mostrarne i diversi punti di vista, le diverse chiavi interpretative e riattraversarlo con diverse modalità di sguardo, arrivando a considerare l’Halloween originale un passaggio obbligato, un mito fondativo da conoscere e distruggere per poi ricostruirlo, un punto di partenza da mandare a memoria per poi demolirlo.
La dinastia delle donne Strode e la furia sanguinaria di Myers diventano allora percorsi paralleli, ma alla stregua di due binari al contempo fondamentali per il percorso però accessori alla storia principale che si focalizza, invece, sulla caccia alle streghe della cittadina di Haddonfield, una sete di giustizia così cieca da trasformarsi in vigilantismo, ricollegandosi alle turbe più contemporanee di un’America preda di giustizialismi, anarchica, che si lascia trasportare da un anarchico flusso di violenza.
Il sistema ha fallito: è quello che i cittadini alla ricerca dell’assassino ripetono come un mantra, mentre smantellano un ospedale e una città calpestando chiunque cada sotto i loro passi: in questo senso, e seguendo questo verso, la maschera di Michael passa ad essere da volto inespressivo del Male a mera copertura di una faccia che non si conosce. Non sappiamo che volto abbia senza la maschera, è l’altro mantra: perché la folla inferocita vuole fare giustizia da sé, senza passare per una realtà giustificata e obiettiva, senza conoscere realmente chi sia il colpevole nella sfiancante foga di addossare colpe.
È in questo modo che Halloween Killsdiventa specchio dell’horror di oggi: mostrando la differenza tra slasher e horror d’autore, il primo che insegue l’adrenalina e il piacere voyeuristico dello spavento, la versione blockbuster del secondo che invece ricollega la paura a sentimenti più ancestrali e politici.
HALLOWEEN, 1978
E a proposito di slasher: il primo Halloween fu, per molti versi, uno spartiacque per il genere, ancora oggi ineguagliato e inarrivabile. Carpenter crea un nuovo genere, l’horror urbano, claustrofobico e angoscioso. Mettendo sempre la famiglia al centro dell’attenzione, tende però a fare del suo protagonista Michael Myers una figura archetipale e sfuggente: non per niente, Michael non leverà (quasi…) mai la maschera che gli copre il viso, simbolo e barriera fra lui e un mondo che non riconosce e che non gli appartiene, donandogli quell’essenzialità, quella necessarietà che fanno di lui un Latore di Morte.
Da non sottovalutare poi l’uso spregiudicato che Carpenter fa della macchina da presa: specie nella primissima sequenza, dove è più evidente, la camera si identifica in tutto e per tutto con gli occhi dell’assassino e, per traslato, con lo sguardo dello spettatore. Innalzando in primis il cinema a vero, assoluto voyeur; e poi, immedesimando lo spettatore stesso nell’orrore e rendendolo in qualche modo partecipe se non artefice. Halloween è uno slasher ma ne rinnega la costruzione narrativa: non semplicemente l’attesa dell’omicidio, ma una storia (la ricerca di Michael di sua sorella) che usa ogni espediente per rendere l’assassinio necessario, né essenziale né pleonastico.
DA CHARLIE BROWN A MICHEAL MYERS
Il capolavoro carpenteriano nasce prima di tutto da diverse influenze: gli insospettabili Peanuts di Schultz mescolati ad arte al boogey man, l’uomo nero della cultura americana, figura centrale della favola come genere letterario. E nella sua storia c’è un’evidente similitudine con certe ambientazioni di uno dei grandi geni del cinema, David Lynch: ma se questi cerca di squarciare le apparenze ed esporre la carne putrida e le pruderie della (apparentemente) sonnacchiosa vita di provincia, John Carpenter vuole solamente introdurre un elemento di turbativa inspiegabile e orribile.
In questo senso, Halloween fa capo alla tendenza Seventies di creare mostri senza nessuna ambiguità morale (anzi, la ‘doppia faccia’ sembra appartenere soltanto ai ‘buoni’, che si dimostrano quindi non così tanto positivi), caratteri che sono la personificazione del puro Male.
Woods dedica al soggetto dell’orrore vari capitoli del suo libro Hollywood 1986: dal Vietnam a Reagan, dove vede il mostro come un simbolo di ‘altri’: “l’ideologia borghese non può riconoscere o accettare, ma deve fare i conti con i due mondi, quello dei ‘normali’ e quello degli ‘altri’: o respingendo questo e, se possibile, distruggerlo, o rendendo sicuro e assimilandolo, convertendolo nella replica di sé stesso”. La normalità è sempre in conflitto con il mostruoso, e il rapporto fra normalità e mostruoso costituisce da sempre l’oggetto essenziale dei film dell’orrore.
E ora facciamo un necessario passo indietro: dopo gli orrori del Vietnam, i giovani erano stanchi di facciate e facce sorridenti, stanchi di asservirsi ad ideali logori e vuoti. L’ondata della controcultura travolse tutto e tutti con la violenza di un urgano, tra rivoluzioni culturali, sommosse urbane e cambi di prospettiva.
L’horror rurale aveva segnato la voglia di rinnovamento, il nuovo contro il vecchio: in parole povere, i valori delle nuove generazioni contro i vecchi. La libertà si tramutò presto, però, in anarchia, e la libertà di comportamento divenne abuso; sesso, droga e rock’n’roll erano sì una reazione, ma portarono ad affievolire la portata universale della ribellione.
Come era successo in Europa e in America, per rispondere all’’esuberanza’ della festa di Halloween, con le sue nottate di teppismo, la sua irrisione e la sua valenza anarchica, assistiamo allora in America a una sorta di nuova ondata moralizzatrice. Se i ‘giovani’ sono ormai senza freni inibitori, è bene riportare tutto alla normalità, ‘restaurare’ quei valori lentamente perduti, perché lentamente svuotati di significato. Qui si colloca l’opera, per molti versi reazionaria, di John Carpenter, che costruisce il suo primo film, Halloween, su una trovata geniale: il film è girato per buona parte in soggettiva, cosicché lo spettatore veda con gli occhi dell’assassino, identificandosi con lui, contemporaneamente spaventandosi di sé stesso.
Come dire: guardati dentro, e troverai un mostro. Arriviamo così alla doppia valenza di Halloween e della portata del suo personaggio, anzi dei suoi due personaggi principali, Michael Myers e Laurie Strode: la sessuofobia e la follia. Generalmente, Myers viene visto come uno psicopatico con un grave disturbo nella sfera sessuale; ed è così, ma il suo problema è inserito in un sistema più vasto, perché Michael diventa l’incarnazione del Male, il Male senza volto che si nasconde dentro ognuno di noi, ma le sue azioni, i suoi omicidi, hanno un altro significato.
Da una parte c’è lui, che punisce persone ree di comportamenti sessuali eccessivamente disinibiti, legandosi ad un certo bigottismo di fondo dell’opera carpenteriana; dall’altra c’è Laurie, che si salva per la sua morigeratezza e continenza sessuale, ma riesce a sopravvivere anche perché di Michael è la sorella, soffre dei suoi stessi disturbi e quindi diventa un suo alter ego.
Da una prospettiva freudiana, la nostra relazione ambivalente con la paura deriva dal nostro atteggiamento verso la normalità: “centrale per l’effetto e il fascino dei film horror è il loro incubo come compimento della nostra volontà di distruggere le norme che opprimono noi e che la nostra morale condizionata dalla società ci insegna a riverire (…) In una società costituita sulla monogamia, ad esempio, ci sarà un enorme surplus di energia sessuale repressa, e ciò che è represso deve per forza sforzarsi di ritornare a galla.” Da una parte quindi il bisogno di reprimere quello che viene stigmatizzato come sbagliato, eccessivo, peccaminoso: dall’altra, il bisogno di identificarci anche solo per un attimo con il mostro, l’eversivo, per il gusto di fare ciò che lui può (perché pazzo, mostruoso, al di fuori delle norme) e noi no.
Ecco dove e come l’intuizione massima di Carpenter (la soggettiva dell’assassino) rapisce e affascina il sostrato psicologico dello spettatore, svelandone gli intimi desideri e dicendo molto sulla società nella quale vive. L’uomo si perde, si confonde con i suoi simili nella città e si richiude in casa per difendersi dalla follia, ma non c’è scampo, non c’è via di fuga. Il Male è dentro di te, e non lo sai. Se hai peccato, verrai punito. Se non stai attento, il Male vincerà.
Siamo all’horror urbano: la repressione, l’ondata moralizzatrice e restauratrice degli anni ’80 è (ri)iniziata.
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