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Spazio e solitudine: i film più famosi e quelli che forse non conoscevi

Spazio e solitudine raccontati attraverso 7 film.

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Parlando di fantascienza viene spontaneo pensare ai grandi colossal pieni di esplosioni, scontri spaziali e invasioni aliene. C’è però un lato di questo genere più discreto e silenzioso, che racconta la solitudine alla quale astronauti, immaginari e reali, vanno incontro nello spazio, allontanandosi dal pianeta Terra. 

In molti film di fantascienza vediamo i nostri eroi lottare per aggrapparsi all’umanità mentre il loro viaggio li porta lontani da casa. Nonostante la maggior parte di noi non andrà mai nello spazio, riusciamo a identificarci senza problemi con i protagonisti, probabilmente perché la paura di restare soli è una delle più profonde.

Tanti hanno raccontato questa solitudine, chi con grandi attori e abbondanti budget, chi con semplicemente un’idea e tanta inventiva. Ecco 7 imperdibili titoli che ci hanno portato sempre più lontani dalla Terra.

Gravity (Alfonso Cuarón, 2013)

Il nostro viaggio inizia in orbita intorno alla Terra. Probabilmente il più premiato di questa lista, “Gravity” vanta ben 7 premi Oscar. La storia racconta della dottoressa Ryan Stone (interpretata da Sandra Bullock), unica sopravvissuta di un incidente che ha distrutto la stazione spaziale dove lavorava. Ryan si ritrova quindi a vagare nello spazio in solitudine nel disperato tentativo di sopravvivere e tornare a casa. Un’avventura che tiene alta la tensione dal primo all’ultimo minuto, con la Terra sempre presente come unico riferimento nel buio dello spazio. Il film è tecnicamente molto ben fatto: già dalla sequenza iniziale si capisce quanta cura è stata data a creare un’intera avventura a gravità zero. Non manca una nota di merito agli effetti di CGI, che ci fanno facilmente scordare della macchina da presa.

Moon (Duncan Jones, 2009)

Allontanandoci un po’ arriviamo sulla Luna. Come già anticipato prima, una bella idea spesso vale più di qualsiasi budget, e il film di Duncan Jones ne è una delle tante prove: con solo 5 milioni di dollari ci viene raccontata la storia di Sam (Sam Rockwell), impiegato lasciato solo sulla Luna ad estrarre energia dalle rocce per tre lunghi anni. La sua routine viene però interrotta da una scoperta molto particolare. Il film è un viaggio metafisico in un raffinato gioco di specchi.  Nel suo tempo la Luna non è più un luogo di conquista, ma di sfruttamento energetico. Non è più un fine storico, ma un mezzo di sopravvivenza e segno d’involuzione dell’umanità che sfrutta fino allo sfinimento ogni risorsa. Con pochi elementi che funzionano in modo impeccabile percepiamo da subito il senso di abbandono che il protagonista vive, mentre lotta per tornare su una Terra che sembra averlo dimenticato. 

The Martian (Ridley Scott, 2015) 

Se sulla Luna l’uomo è arrivato anche nella realtà, Marte resta ancora un miraggio. Sono tanti i racconti su cosa potremmo trovare sul pianeta rosso, e Ridley Scott decide di dirigere uno dei romanzi più famosi: “The Martian”, scritto da Andy Weir. Il botanico Mark Watney (Matt Damon) viene abbandonato dai suoi colleghi su Marte a causa di una tempesta e dovrà trovare un modo di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi.

La Terra è sempre più lontana, e quella che vediamo vivere a Wathney è una vera e propria odissea, completamente da solo su un pianeta sconosciuto e indomabile. Nonostante la solitudine, l’idea che un giorno qualcuno verrà a salvarlo dà la forza al protagonista di lottare fino all’ultimo. Ciò ci dimostra come l’istinto di aiutare il prossimo sia parte integrante della natura umana.

Questo film rimette la “sci” in sci-fi, ovvero pone l’accento sulla “scienza” di fantascienza. Ridley Scott, alle prese con uno script non suo, si dimentica di essere il profeta dei futuri distopici di Alien e Blade Runner. E si limita a fare quel che gli riesce meglio, ossia rendere cinematografica una materia che tale non è. Anche in The Martian ci sono l’ostilità dell’ignoto, il rapporto uomo-macchina e lo spirito di autoconservazione, esplicitate sin dal durissimo prologo; ma, a differenza delle nerissime e ben poco consolatorie visioni di Blade Runner o Prometheus, queste tematiche, da sempre carissime all’autore de Il Gladiatore, si allineano a un vivace panegirico sulla mente umana, di un ottimismo sfavillante non proprio tipico della poetica scottiana.

The Midnight Sky (George Clooney, 2020)

Lontani sia nello spazio sia nel tempo, in un futuro post-apocalittico, i membri dell’equipaggio della nave spaziale Aether, orbitano intorno a Giove. Dopo anni di silenzio radio riescono a contattare Augustine Lofthouse (interpretato da George Clooney), ultimo umano rimasto sulla superficie del pianeta Terra, ormai inabitabile. La solitudine in questo film è duplice: sulla Terra Lofthouse sceglie di non seguire la sue gente nel sottosuolo per poter avvisare l’Aether di non tornare indietro; a sua volta la nave spaziale, sola nello spazio per tanti anni e impaziente di tornare a casa, non ha idea di cosa sia successo all’umanità.

Due realtà isolate che rompono l’una il silenzio in cui vive l’altra, e una solitudine resa ancora più amara dalla consapevolezza che la voce dall’altra parte della radio non potrà esserci per sempre. Se sul Marte di “The Martian” i soccorsi sono riusciti ad arrivare, sulla Terra di questo film non c’è più speranza; l’unico modo per salvare il genere umano è abbandonare chi è rimasto indietro.

Tratta dal libro La distanza tra le stelle (autore Lily Brooks-Dalton, anno di pubblicazione 2016), questa settima fatica da regista di George Clooney è un film ineluttabile. L’apocalisse – che non vediamo – è già avvenuta e a noi non resta che raccogliere le tracce di un mondo spento, senza più colori. A scapito delle premesse narrative e dei 100 milioni di dollari di budget, The Midnight Sky è un film “piccolo” e a suo modo umile anche quando gioca la carta dello spettacolo.

Clooney si inserisce nel solco tracciato dai due grandi classici della fantascienza filosofico-catastrofista sfornati a Hollywood negli ultimi dieci anni: di Gravity di Alfonso Cuaròn cita apertamente la sequenza dei meteoriti e la riflessione sul rapporto genitore-figlia, mentre la struttura narrativa e la celebrazione dell’istinto di sopravvivenza ricordano The Martian di Ridley Scott. Un film che, alla fine, lascia allo spettatore una curiosità non appagata, senza grandi tratti di originalità, ma con grande cura e coinvolgimento.

Ad astra (James Gray, 2019)

Spesso un viaggio non rappresenta solo un’avventura per i protagonisti delle storie che amiamo. Spesso questo è vissuto anche come una riscoperta interiore, e l’epifania che il protagonista raggiunge conta più della meta fisica cui puntava.

Roy McBride (interpretato da Brad Pitt) è un soldato pluridecorato e figlio di un pioniere dello spazio scomparso da oltre 20 anni. Quando si scopre che suo padre potrebbe essere ancora vivo da qualche parte in orbita attorno a Nettuno, Roy decide di avventurarsi ai confini più esterni del sistema solare, in cerca di risposte. È evidente come nel corso del film più ci si allontana dalla Terra più il buio incombe su di noi, insieme al silenzio che ci lascia percepire l’immensità del cosmo e la nostra piccolezza in questo infinito. Insieme a Roy ci perdiamo nello spazio, e lo osserviamo affrontare un viaggio in cui riscopre e stesso.

Ad Astra si colloca in quel filone di fantascienza antropocentrica che pone interrogativi e questioni esistenziali, introspettive, filosofiche e morali sulla natura dell’uomo, su quale sia il suo destino e il suo futuro. Una fantascienza che cerca di scavare e di indagare nel profondo di quell’abisso siderale e insondabile, come lo spazio, che è l’animo umano. Una fantascienza dove lo sguardo non è rivolto alle stelle, ai pianeti, alle galassie, ma è un espediente narrativo per guardarsi dentro e indagare la vera essenza della natura umana con tutte le sue sfumature e i suoi difetti.

3022 (John Suits, 2019)

Il pensiero di casa è una delle poche cose che riesce a dare forza a chi si trova molto lontano da essa. In “3022”, come un faro nella notte, il nostro pianeta resta un riferimento sia mentale sia visivo per i passeggeri di Pangea. In viaggio da circa dieci anni al di fuori del sistema solare, l’equipaggio, anche se lontano, interagisce quotidianamente col nostro pianeta. Quando però quella luce si spegne, e la Terra smette di rispondere alle chiamate, il terribile vuoto che circonda l’equipaggio diventa improvvisamente insopportabile, e ci viene posta per la prima volta una domanda terrificante: abbiamo sempre avuto paura di non riuscire a tornare a casa, ma che cosa faremmo se non esistesse più una casa dove tornare?

L’atmosfera che si respira è chiaramente claustrofobica, sensazione amplificata da un buon uso delle luci e dall’ambientazione all’interno di una stazione spaziale sporca e vissuta. Un plauso va per questo a David Dean Ebert – già direttore artistico della serie televisiva Gotham – il quale, nonostante il budget limitato, nel curare la scenografia ha saputo fare un buon lavoro. Purtroppo la critica non ha ben accolto questo film, che ha ricevuto per lo più recensioni negative. Nonostante i tanti errori e punti deboli che questa pellicola può avere, ciò che cattura della storia è la sfida che questa affronta.

Cupo, claustrofobico, al tempo stesso desolante, “3022” ci mette di fronte alla nostra impotenza dinanzi allo spazio profondo, presentandoci l’idea di solitudine nella sua forma più angosciante. 

Passengers (Morten Tyldum, 2016)

La solitudine è più sopportabile se condivisa, e l’uomo ha un istinto primordiale che lo rende incapace di vivere solo. Fino a che punto però questo istinto può convivere con la nostra morale? A bordo della nave stellare Avalon cinquemila persone viaggiano addormentate verso un nuovo pianeta, Homestead II. Durante lo scontro con un meteorite, però, Jim (interpretato da Chris Pratt) e Aurore (Jennifer Lawrence) si svegliano con novanta anni di anticipo sulla data prevista.

Soli, senza alcuna possibilità di tornare indietro, i due sono condannati a finire la loro vita sulla Avalon, insieme. Anche se l’idea di passare l’eternità con la nostra dolce metà è molto romantica, poterebbe rivelarsi anche peggio dell’eterna solitudine. In questo romance ambientato nello spazio, che a tratti può sembrare una metafora del matrimonio-prigione, la Terra è ormai fuori dalla nostra visuale, ma i suoi problemi, dai più semplici ai più complessi, ci seguono ovunque. La paura della solitudine non abbandona mai l’uomo, non importa quando distante da casa si spinga.

Passengers pone domande interessanti e permette allo spettatore di identificarsi con il personaggio di Jim, sorta di naufrago spaziale (ad un certo punto ricordante volutamente il Tom Hanks di Cast Away) che deve scegliere se trascorrere l’intera esistenza nella completa solitudine o “fare la cosa sbagliata” ma avere almeno una compagna. La storia sfrutta questo spunto morale per dar vita a un’opera sci-fi ricca di sfumature dal punto di vista psicologico. L’avvolgente colonna sonora (candidata senza successo agli Oscar), i convincenti effetti speciali e l’ottimo design della navicella rendono le due ore di visioni piacevoli da guardare e ascoltare. In conclusione, Passengers è un racconto forse non originalissimo e a tratti troppo lento, ma capace a ogni modo di trovare un buon equilibrio tra i toni più leggeri e drammatici e adattarli con discreta efficacia al contesto di genere.