War Is Over, il nuovo documentario di Stefano Obino, è stato presentato in concorso all’ultima edizione del festival “Alice nella città”.
Si tratta di un viaggio nel Kurdistan iracheno, una terra pesantemente colpita dal conflitto contro l’Isis che ha lasciato in eredità una quarantina di campi profughi e 1,6 milioni di persone in stato di necessità, molti dei quali minorenni.
Ne abbiamo parlato con il regista.
Un film che non si focalizza sulle tragedie, bensì sulla resilienza quotidiana degli esseri umani
War Is Over, presentato in concorso ad “Alice nelle città” è il tuo nuovo documentario. Un lavoro intenso per i temi che vengono trattati – il dopoguerra nel Kurdistan iracheno, una terra che per anni ha vissuto in uno stato di conflitto – e, soprattutto, per lo stile con cui li hai sviluppati. Infatti, se si esclude la voce di una madre che, fuoricampo, recita le proprie emozioni, i propri pensieri, la parola è quasi del tutto assente. È sufficiente l’uso delle immagini, dei suoni, dei rumori di fondo per raccontare la vita che tenta, lentamente, di rinascere?
Il motivo per cui abbiamo scelto di usare questo stile è direttamente legato alle motivazioni più profonde che ci hanno portato a raccontare questi luoghi, focalizzandoci non sulle tragedie (avendo presente che esistono e segnano le vite delle persone in quei luoghi) ma ponendo il nostro sguardo sulla resilienza quotidiana di questi esseri umani, su quell’energia che si percepiva con chiarezza in quei giorni in cui l’Isis sembrava sconfitto, una sorta di luce vitale che si esprimeva in gesti anche molto piccoli.
Inoltre, hai scelto di non inserire alcuna intervista.
La nostra idea più che narrativa era ed è evocativa e propone un approccio radicalmente diverso dallo stile dei media occidentali canonici. Le interviste sono troppo spesso un mezzo per portare il soggetto a dire quello che vuole l’autore più che rispettare quanto il soggetto vorrebbe esprimere. In qualche modo danno un ruolo all’intervistato, mentre noi volevamo dare invece una percezione di presenza fisica allo spettatore senza che fossero definiti dei ruoli, provando semplicemente a farlo sentire coinvolto all’interno di quei momenti cinematografici senza aggiungere altro che non fosse la situazione stessa.
Volevamo limitare la costruzione narrativa quanto più possibile, nel tentativo di creare una sorta di realtà virtuale cinematografica, come la definiamo, dove si potesse percepire una sensazione.
Immagino che non sia stato facile entrare in sintonia con i personaggi presenti nel tuo film. Ad esempio, a un certo punto una madre esorta la figlia a lasciarsi filmare. Che importanza ha avuto, sotto questo punto di vista, l’AISPO (l’Associazione Italiana per la Solidarietà tra i popoli), con la quale hai collaborato per la produzione del tuo film?
Sicuramente Aispo è stata di grande aiuto in termini di accesso a luoghi in cui altrimenti non sarebbe così facile arrivare. Ma credo che la chiave che ci ha permesso di accedere poi alle vite delle persone, anche in momenti intimi, sia stato il nostro approccio. Le persone in quei luoghi sono abituate alle troupe che chiedono loro di raccontare le loro tragedie; noi gli chiedevamo: “cosa farai oggi?”, “cosa pensi o sogni di fare da qui in poi?” e questo li lasciava spiazzati ma anche felici, perché finalmente qualcuno stava guardando a loro come persone prima ancora che come vittime. Erano quasi sorpresi, come se dicessero: “Ah, allora vuoi parlare proprio di me!”
La scena in cui la madre esorta la figlia a farsi filmare, per esempio, è un momento molto dolce, di semplice timidezza tra una figlia e una madre, in cui non esiste forzatura. Siamo entrati nella loro casa col loro consenso e ci siamo rimasti parecchio, soffermandoci poi sul piccolo spettacolo che le figlie improvvisano con la loro pianola elettronica che non funziona.
Una scena che mi ha ricordato la mia infanzia: in un sacco di case c’era la pianola ma era sempre mezza rotta o abbandonata, e quando chiedevo di farla funzionare era sempre complesso se non impossibile. Questo è un esempio di come abbiamo lavorato, cercando di avvicinare le nostre esistenze a persone molto lontane che vivono in condizione di enorme difficoltà, ma che restano esseri umani con cui dobbiamo imparare a empatizzare andando oltre i cliché.
Quali sono state le tue personali emozioni nell’approcciarti con questa quotidianità fatta di gesti e di attività che, per noi, sono quasi banali ma che, in questo contesto, assumono una valenza decisamente maggiore?
Inizialmente era un po’ complesso, perché era un processo di documentazione che ci costringeva a riconoscere quanto superficiale fosse la nostra visione prima di arrivare in quei luoghi. Progressivamente, però, è stata una liberazione. Fare tabula rasa di come si raccontano di solito i rifugiati, e poter ricercare liberamente momenti di cinema, ci ha fatto empatizzare in maniera più forte con le persone che incontravamo, e ha reso questi incontri più forti, facendo nascere amicizie durature. Perché si poteva parlare di cose molto semplici o anche stupide o ancora importanti, liberi dai ruoli che normalmente sono stabiliti: la troupe occidentale che viene a raccontare la tragedia del profugo. Si diventava semplicemente esseri umani che “giocano” al cinema insieme.
La parte finale del tuo film è girata all’interno di una ex fabbrica di tabacco dove un gruppo di giovani teatranti sta allestendo uno spettacolo con il quale intende mettere in scena la guerra appena finita. Una scelta forte la tua. Da un lato rappresenta la testimonianza di una comunità che, nonostante tutto, non ha mai rinunciato a vivere. Dall’altro un vero e proprio atto liberatorio.
La scena finale conclude in maniera quasi circolare la narrazione del film. Partendo dai rumori della guerra vera a inizio film, si arriva a quelli del reenactment di un gruppo di adolescenti, artisti in una fabbrica abbandonata. C’è un senso di catarsi ma anche di inconsapevolezza. Qualcuno ride, altri si tappano le orecchie infastiditi, perché il processo di assimilazione delle tragedie avvenute è spontaneo quanto imprevedibile.
È una scena che abbiamo girato quasi per caso. Gli artisti della fabbrica ci avevano parlato semplicemente di un happening che stavano portando in scena quel pomeriggio e noi siamo corsi a recuperare la telecamera, che in quel momento non avevamo, perché abbiamo percepito che in quello spettacolo poteva esserci un significato. Ma non ci avevano detto cosa avrebbero fatto o che significato potesse avere.
Un’opera che dimostra l’importanza di abbandonare ogni forma di categorizzazione: non esiste il “noi” e il “loro”. Esistono solo gli esseri umani.
Alla fine della visione si esce arricchiti. Per tutta la durata del film si percepisce una energia positiva derivante dalla carica vitale che le situazioni filmate infondono. La voglia di continuare a vivere, la tenacia che i protagonisti mostrano sono le risposte dell’uomo al dolore immenso derivante da un conflitto. Possiamo dire che War Is Over – o meglio – le donne, gli uomini, i bambini ripresi, ci impartiscono una grande lezione di vita?
Io penso sia soprattutto importante capire che quelle persone non sono i cliché con cui ci vengono troppo spesso raccontate. Questo non le rende migliori di noi, ma le avvicina a noi.
Non credo sia possibile dividere il mondo in bianco o nero, o in buoni o cattivi. Seppur lontani nei luoghi e nelle vite, siamo tutti esseri umani, nati e cresciuti in condizioni differenti ma tutti con la stessa voglia di una vita felice anche fatta di piccole cose.
Il racconto del “dopo” o della “normalità” è importante per sviluppare empatia tra esseri umani e distruggere il “noi” e “loro”, in qualsiasi modo esso venga declinato. È da questa categorizzazione che poi derivano anche le peggiori teorie razziste o i tanti discorsi politici delle destre nazionaliste. Il così detto “aiutiamoli a casa loro”.
Non esiste una casa loro o nostra, esiste un pianeta, una vita, esistono gli esseri umani.