Alla XIX edizione di Alice nella città, abbiamo incontrato Tommy Weber e Antonio Folletto, rispettivamente regista e protagonista di uno dei film in concorso, nella sezione Panorama Italia, Come prima. Molto disponibili ed emozionati di presentare il film all’interno della kermesse capitolina, i due ci hanno regalato un’intervista imperdibile.
Come prima | Intervista a regista e protagonista
Come è nato il progetto? Conoscevate già la graphic novel?
Tommy Weber: Volevo raccontare la storia di due fratelli (interpretati da Folletto e Francesco di Leva, ndr.) da un po’, cercavo una storia e volevo scriverne una io, ma quando ho letto questo fumetto mi sono appassionato. È bello, diretto, pieno di luce. Mi interessava vedere il loro rapporto, i dettagli come in una storia d’amore.
Poi il fumetto è già molto cinematografico.
Era solo un po’ strano che il progetto fosse francese e la storia invece italiana, per cui è diventato un film italiano. Per me è stato bellissimo, perché non pensavo che fosse possibile e invece lo è diventato. Abbiamo cambiato un sacco di cose, perché le scene che funzionano bene nel fumetto non è detto che lo facciano anche al cinema. Inoltre il fumetto era molto nostalgico, ma io non volevo un film troppo classico, quanto piuttosto moderno.
Antonio Folletto: Purtroppo non abbiamo potuto girare in Francia per ovvi motivi, ma è andata così… Comunque avevo già letto la graphic novel in tempi non sospetti; me l’aveva consigliato un produttore che voleva farci un film, e così è stato!
Ci puoi dire qualcosa del tuo personaggio?
AF: Il mio personaggio è André. Al di là del creare una fratellanza, che era la base nell’interpretare due fratelli, la difficoltà era nel creare la distanza. Loro non si sono visti per diciassette anni. Piuttosto che andare a cercare una cosa che per noi era facile, ossia legarci, era guardarci in un certo modo, aspettarci al varco.
Che cosa succederà poi quando si vedranno per la prima volta?
Questo è stato molto importante per noi, come approcciarsi all’incontro. E da lì è stato un viaggio lunghissimo, durante il quale i due si conoscono ma non si conoscono. Uno guarda l’altro come fosse un animale esotico, si studiano. Si odiano ma allo stesso tempo c’è il sangue. Il viaggio diciamo che dà la possibilità di schivare questo incontro, anche se alla fine è inevitabile l’incontro-scontro.
Il road-movie che esplora i sentimenti
Quanto la formula del road movie vi ha aiutato nel rendere questo viaggio la riscoperta di un legame?
TW: Stanno molto molto tempo dentro una macchina, quindi è come un carcere. Durante i primi 200km puoi stare zitto, ma poi devi fare qualcosa… Io l’ho girato così, con inquadrature molto strette. Secondo me era difficile per loro, stare così vicini e voler parlare, ma non riuscire a farlo. E filmare alla mano mi ha aiutato molto.
A un certo punto viene in mente Il sorpasso…
TW: Beh quello era un punto di riferimento, ma è difficile sostenerne il peso. Quando un film è molto bello, anche senza pensare a volte provi a fare la stessa cosa. Ma dobbiamo trovare la nostra strada e alla fine noi non abbiamo troppo pensato a questo film.
AF: Ovvio che quando hai citato questo film il nostro corpo ha vibrato, ma credo che, in un certo senso, abbiamo talmente dentro certe dinamiche che vengono fuori senza pensarci. Poi per come sono caratterizzati i personaggi tra di loro, assolutamente potrebbero avvicinarsi. Ma non ci siamo focalizzati cercando di riprendere qualcosa in particolare.
Sono degli uomini che non temono la guerra, ma i sentimenti. Come siete riusciti a renderlo? A trovare l’equilibrio?
TW: Credo che sia stato soprattutto merito del lavoro degli attori, che trovo bellissimo. Sono riusciti a portare l’emozione anche nei dettagli, negli sguardi che raccontano tutto per me. È stata una grande fortuna lavorare con loro.
AF: Non hanno paura della guerra non lo so, io credo che lì la guerra per loro è finita. Il comune denominatore di tante scene è l’accusare l’altro. Uno ha un modo di esternare, uno un altro; semplicemente sono tutte richieste di aiuto, di affetto.
Come se pregassero l’altro di ascoltarlo, ma allo stesso tempo c’è una difficoltà nel comunicare fra loro, perché c’è tanto rancore dentro. E lì c’è, non tanto la paura dei sentimenti, ma proprio la difficoltà di andare un po’ a sciogliere tutti quei nodi, che si sono creati in diciassette anni. Penso che chiunque di noi vivrebbe la stessa situazione.
La scelta dell’ambientazione e la possibilità di una serie tv
Come mai hai scelto di cambiare l’ambientazione dalle Cinque Terre a Procida?
TW: Volevo solo andare a Procida, amo il romanzo di Elsa Morante, L’isola di Arturo, ed era un sogno legato a questo. E inoltre c’è un’ultima frontiera, prima di arrivare a casa, la barca. Ho pensato fosse bello inserirla.
L’Italia mi ha aperto il suo cuore.
A che punto è entrata in gioco la canzone Come prima?
TW: Amo questa canzone e volevo metterla, non sapevo esattamente quando. L’abbiamo girata in due momenti diversi, ma all’inizio non era chiaro quando inserirla.
Un soggetto simile poteva forse essere ben sviluppato anche in una serie tv…
AF: Tutto si può fare, però per questa storia qui, secondo me, per come voleva girarla Tommy e per il ritmo che ha, avresti fatto un torto alla storia, se avessi spezzato tante cose.
TW: Non ci avevo mai pensato, anche per il fatto che è un viaggio, che è un movimento solo. Tagliare un viaggio è difficile. Poi io sin da bambino ho il sogno del grande schermo, faccio questo lavoro per il grande schermo e quando è possibile vado.
*Sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.