Anima lavoratrice, quella di Gioia. Un nome che non è sempre un destino. Momenti lieti sono senz’altro quelli del prologo: è qui la festa, e la macchina da presa zooma lentamente su di lei, che sarà la protagonista di Anima bella. Dove poco prima soffiava sulle candeline, nello stesso cortiletto campagnolo, le toccherà pulire e rimettere in ordine. Perché così va: Gioia, 18 anni, è una ragazza che sa prendersi le responsabilità. Un passo avanti anche rispetto al padre, al quale mostra con entusiasmo le ultime app. E del padre stesso dovrà prendersi cura quando sarà sopraffatto dal vizio del gioco. Il film di Dario Albertini, presentato in concorso ad Alice nella Città nella Festa del Cinema di Roma, è un romanzo di formazione all’incontrario: una ragazza già matura a cui toccherà ricordarsi, ogni tanto, di essere soltanto una ragazza.
La trama
Gioia (Madalina Maria Jekal) ha appena compiuto 18 anni. A’ bba’, il richiamo col quale si rivolge al padre (“a’ babbo”), mezzo romano e mezzo toscano, fa capire che siamo in un borgo rurale del centro Italia. Bruno (Luciano Miele), il genitore, ha un gregge di pecore e produce formaggi. Gioia dà una mano ed è ben integrata nella comunità, di cui si prende cura anche raccogliendo e distribuendo ogni giorno l’acqua della cascata termale “La Miracolosa”. Ma Bruno, genitore amorevole da tempo vedovo della consorte rumena, ha problemi col vizio del gioco. Quando la situazione debitoria precipita, è la ragazza a farsi carico di consultare lo psicologo della mutua e infine di far entrare il padre in un centro residenziale di riabilitazione. Che purtroppo per lei, così radiosa nel villaggio, è in città. Abbandonate temporaneamente le amiche e le abitudini del borgo, si trasferisce in un motel per assistere il padre nel tentativo di superare la propria dipendenza. Ma chi assisterà lei?
Il percorso doc di Albertini
Con Anima bella Dario Albertini torna alla regia dopo l’esordio di successo nella finzione con Manuel (2017), lungometraggio d’intenso realismo applaudito nel 2018 sin dalle proiezioni al Festival di Venezia. Si direbbe, per il regista romano, un percorso che mette a frutto le esperienze della prima parte di carriera, orientata piuttosto sul documentario.
Manuel (2017) di Dario Albertini: Andrea Lattanzi in una scelta del film
L’impatto con Anima bella, infatti, immediatamente dopo la sequenza del compleanno che sembra dichiarare per immagini di volersi centrare su Gioia, è quello di un cinema del reale dai tratti volutamente ruvidi della presa diretta. Gioia tra le pecore sembra estratta da un documentario di Frammartino. La grana da pellicola della fotografia rifiuta la politezza, così come il montaggio sonoro non esita a incorporare il soffio frusciante del vento. È un linguaggio che quasi necessita di farsi fisico per fingere con verità. E che sia materia drammatica gestita con coscienza, si può dire anche sul piano del contenuto. Albertini, infatti, aveva esordito proprio con un documentario sulle vicende in giocatore d’azzardo compulsivo, il pluripremiato Slot – Le intermittenti luci di Franco. Si direbbe un percorso ad hoc: dal doc alla fiction, nel segno di una studiata autenticità.
Gioia, negli occhi
Sarà una coincidenza, ma è la stessa Gioia ad alludere a un documentario sulla dipendenza dal gioco, nella prima chiacchierata con lo psicologo:
Ho visto un documentario in cui una moglie parlava del marito, e sembrava tipo mio padre.
Ma è una ruvidità selettiva. Anima bella non si risolve nella camera a spalla che tampina per larghi tratti la protagonista. Si può dire che questo tipo di linguaggio esprima una sterzata nell’immersività in ogni circostanza filmica in cui si renda necessario mostrare il mondo dagli occhi di Gioia: standole vicino come se l’immagine ne fosse l’emanazione, il percepito.
Anima bella: Madalina interpreta Gioia
Altrove, affiora uno stile che mostra senza remore la natura artificiale della costruzione drammatica: stacchi bruschi, un’inattesa dissolvenza, una predilezione ostentata per stranianti zoomate. Così come l’occhio di Gioia vigila sul padre Bruno, sembra quasi che ci sia una regia paterna per la giovane protagonista, uno sguardo del narratore che tutto sa. Uno sguardo buono, che sin dal titolo si è espresso sulla ragazza: è un’anima bella.
Come una Vergine
Così bella, da essere quasi santa. La comunità rurale coincide, in sostanza, con la comunità parrocchiale, e praticamente da santa vestirà Gioia, con altre due ragazze del villaggio, con gli abiti tradizionali della processione in onore della Vergine. C’è tanto di aria virginale: i canti col gruppo della catechesi, le statuette in serie della Madonna, le assemblee col vivace prete campano; financo il nome della sorgente, “La Miracolosa”. C’è persino l’investitura che fa Piera Degli Esposti, in un cameo stile profetessa, quando Gioia consegna una pizza a domicilio all’anziana signora e quest’ultima commenta così il nome della ragazza:
Se la felicità e la beatitudine si possono nascondere, la gioia invece si vede.
Una santa piccola, e non perché veda la Madonna, come nell’omonima opera prima di Silvia Brunelli, di recente passata a Venezia 78. Quanto, piuttosto, per le opere, le buone azioni. Su tutte, il sacrificio della propria età per amore del padre. In tanti film su adolescenza e infanzia, dai mistons di Truffaut al ragazzo con la bicicletta dei Dardenne, il velocipede è il simbolo di una giovinezza libera, a volte monellesca.
Il ragazzo con la bicicletta (2011), scritto e diretto da Jean-Pierre e Luc Dardenne
In Anima bella, invece, impressiona il rovesciamento di senso della bici: qui è il mezzo del sacrificio, della fatica, del lavoro. Delle consegne di pizze che arrivano fredde – perché, rimprovera il datore, Gioia ne fa troppe. Ma lei è instancabile. Più dell’acido lattico nelle gambe, sopportato senza una lamentela, le fa male che il babbo abbia ancora tanta strada da fare per uscire dal suo vizio capitale.
Disco inferno
Per raccontare di questa bellezza, Dario Albertini ha bisogno di assorbire anche il suo contrario. Il motel di città, di dubbie frequentazioni, farebbe pensare a un girone purgatoriale. La prima notte Gioia è tenuta sveglia dagli ansimi di un amplesso nella camera accanto. Il labirinto delle sale slot è trasfigurato in una selva oscura. La città tutta, probabilmente, deve sembrare in occhi così innocenti, e per contrasto al villaggio, un luogo quantomeno singolare.
Il trionfo di questa polarità tra bello e brutto, che è anche tra buono e corrotto, sembra riassumersi nella scena della discoteca. Gioia viene convinta ad andarci dall’esuberante vicina di stanza, donna fatta e incasinata. La macchina da presa compie un lavoro notevole nel cogliere la sospensione attonita della giovane: gli abiti luccicanti e pacchiani, il saporaccio del drink appena assaggiato, la musica aggressiva e lo sconcerto di un concerto stroboscopico di luci. Altro che la statua della Madonna, che l’aspetta in paese. Statuaria, sul cubo stile piedistallo da processioni, una drag queen cattura lo sguardo di Gioia, gli occhi sgranati sulla vocalist che recita al microfono la sua litania. Un’estasi all’incontrario.
18 anni da leone
Ma non è una gara di resistenza né ai chilometri in bici, né alle tentazioni della città. Inno alla purezza, di cui non si dubita mai, Anima bella di Dario Albertini, sotto la scorza documentaria, intenerisce per quanti colpi, forse più di 400, la giovinezza possa prendere senza capitolare. Perché gli anni sono diciotto: ce lo ricorda il prologo. Anche se, tra le pecore svendute per i debiti di gioco, quello di Gioia è un cuor di leone.
Prodotto da BiBi Film, Elsinore Film con Rai Cinema, Anima bella è stato riproposto dal Festival del Cinema di Porretta Terme ed esce in sala distribuito da da Cineteca di Bologna.