Venezia .68: “Killer Joe”, spassosa revisione di genere al confine con la follia (In Concorso)
William Friedkin rappresenta la malvagità nel modo più spassoso possibile, raccontando le vicende di una famiglia del Texas, imbruttita dall’alcool e dai tradimenti
La capacità di ridere degli aspetti oscuri e violenti dell’umano pensavo fosse una priorità dei Cohen. E la capacità di raccontare della violenza più feroce con sollevata normalità, credevo fosse di competenza di Thomas Anderson.
Invece, sul finire delle giornate veneziane, arriva questa pellicola diretta da William Friedkin e sceneggiata da Tracy Letts, incredibilmente dissonante dal coro di perbenismo o di critica al “cattivo”.
Friedkin rappresenta la malvagità nel modo più spassoso possibile, raccontando le vicende di una famiglia del Texas, imbruttita dall’alcool e dai tradimenti, che si mette in un serio pasticcio per via di un grosso debito. È Emile Hirsch, che interpreta Chris Smith, a dare l’avvio ad una torbida catena di avvenimenti, ben lungi dai ritmi placidi che aveva vissuto in Into the wild.
Chris Smith ha un pericoloso debito con dei “poco di buono” texani e per risolvere la questione decide di pianificare l’assassinio della madre con il benestare della famiglia, ed incassare così l’assicurazione sulla vita tramite la sorella. Dottie, infatti, (una angelica Juno Temple) pare essere l’intestataria di questa eredità.
Per risolvere il lavoro sporco, viene ingaggiato un poliziotto doppiogiochista, Joe Cooper, che nel tempo libero è un sicario a pagamento fidato e pulito, così com’è la recitazione di Matthew McConaughey. Purtroppo però, quasi al verde, Chris non riesce ad affrontare la spesa del lavoretto, perciò in pagamento Joe chiede gli venga “donata” la bella e innocente Dottie.
La questione, poi, andrà complicandosi in una somma delirante di errori e piccoli colpi di scena, fino ad una memorabile escalation di terrore e umiliazione, sangue e strilli nevrotici, in un quadretto familiare laccato di finto benessere.
Friedkin costruisce una lettura insolita e autoironica sulla malvagità dell’essere umano, una malvagità segretamente nascosta in ogni individuo, che nei suoi personaggi però risulta essere facilmente esprimibile. Non ci sono santi, ma solo peccatori, e l’entità del peccato non ha importanza: nel Texas friedkiniano è una routine sociale quella di valutare la morte come sistema di risoluzione dei conflitti o i funerali come un appuntamento scomodo a cui arrivare in ritardo.
Ma non si creda di riuscire facilmente a digerire un film dove la scena che rimane più impressa è una lode al sesso orale con una coscia di pollo fritto. Ci si riderà, a posteriori, ripensando alla follia quasi demenziale di quelle scene, all’esplosione finale, osservando anzi il lavoro di sceneggiatura magistrale che sta alla base del climax dei personaggi, dell’assurdo, dell’orrore. Ma lì per lì, al buio, in sala, aspettandosi un revival cruento deL’esorcista o la sottogliezza di The French Connection, si rimarrà a bocca aperta, trascinati dritti verso l’esplosione, cruda, ruspante, anche se rappresentata da un killer signorile e sempre ingelatinato.