Al Bif&st anteprima di Robuste diretto da Constance Meyer con Gérard Depardieu e Déborah Lukumuena.
Il film ha aperto la Semaine de la Critique, durante la 74esima edizione del Festival di Cannes.
Robuste: personaggi “fuori misura”
George è un attore sul viale del tramonto con una vita irregolare e una forte personalità; Aissa è una wrestler che fa da guardia del corpo alle star. Quando i due si incontrano, nasce un’insolita amicizia che li porta a nuove consapevolezze.
Opera prima della regista francese Constance Meyer, Robuste contrappone due personaggi che in apparenza hanno molto poco in comune.
Aissa è una giovane ragazza di colore dal corpo imponente che lavora come agente di sicurezza per sbarcare il lunario, George è un artista in declino con tutti i vizi delle star: i loro mondi sono socialmente distanti, ma la connessione inaspettata che si crea tra i due dà vita a un rapporto intimo e sincero.
Meyer ha scritto il film avendo ben in mente i protagonisti, Depardieu e la Lukumena, e si è ispirata all’attore francese per creare il personaggio di George. Come quest’ultimo, infatti, Depardieu vive al confine tra finzione e realtà e, in modo analogo, Aissa, quando lotta sul ring, riesce a liberarsi e a essere veramente se stessa.
George condivide con Aissa la fisicità ingombrante che compensa una fragilità d’animo e un’insicurezza radicata.
L’accostamento con un altro film, Quasi amici (anch’esso francese) che racconta il legame profondo tra l’aristocratico Phillipe e l’ex detenuto di colore Driss, viene naturale; l’incontro tra due solitudini, la diversità come punto di forza, la sincerità di un legame improbabile sono tutti temi che ritornano in Robuste.
L’ottica, in questo film, è squisitamente femminile. Lo si percepisce dalla delicatezza con cui la Meyer affronta le tematiche dell’opera, senza mai sfociare nel dramma strappalacrime.
Robuste: l’incontro tra due solitudini
La scenografia è curata nel dettaglio e compenetra nella narrazione; l’appartamento di George è un’emanazione dello stesso personaggio, è espressione visiva del suo stato di solitudine: assomiglia a una barca e ha molte vetrate arrotondate, come se il protagonista si ritrovasse all’interno di un acquario.
E, infatti, George è solito ammirare, quasi in modo contemplativo, i deformi pesci che galleggiano in una enorme vasca d’acqua, come se si identificasse con loro. “Sono deformi ma non vuol dire che siano brutti” – dice alla sua guardia del corpo Aissa, una donna che si sente “fuori misura” e, forse, per questo non degna d’amore.
C’è un altro momento intenso nel film che merita attenzione: la Meyer, probabilmente, affida a un personaggio secondario del film, le parole di ammirazione nei confronti del magnifico Depardieu, in una toccante lettera d’amore:
“Nell’oscurità del mio salone, l’uomo è apparso sullo schermo, poi è scomparso, i suoi occhi hanno brillato come due grandi fari nella notte buia della mia vita quotidiana (…) I bambini sono cresciuti, alcuni uomini sono usciti dalla mia vita, ma lui è lì, sullo schermo, appare, poi scompare, forse tornerà un giorno all’incrocio di una strada”
Ed è sempre emozionante, quando sullo schermo, oltre le immagini, risuonano parole che creano un solco nell’anima dello spettatore.
La cineasta francese riesce ad amalgamare questi due aspetti: una scrittura brillante e una regia sobria, elegante, evocativa, in un film malinconico, dominato dal grande carisma di Depardieu.
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