FESTIVAL DI CINEMA

Venezia 68. “Pasta nera”: Alessandro Piva ci racconta un unicum di solidarietà italiana (Controcampo italiano)

“Pasta nera” di Alessandro Piva: un’interessante e luminosa testimonianza legata ad uno dei periodi più drammatici per il nostro Paese, la seconda guerra mondiale.

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Aspettando il suo ritorno nel cinema di finzione all’altezza de La capa gira (film del 1999, girato con pochi mezzi e acuto spirito di osservazione e riadattamento di un pezzo del sud italia, un esilarante gioiellino da non perdere), mi sono guardata Alessandro Piva in versione documentaristica, presente a Venezia con Pasta nera: un’interessante e luminosa testimonianza legata ad uno dei periodi più drammatici per il nostro Paese: la seconda guerra mondiale.

Al termine del conflitto bellico, nel contesto di miseria e di degrado nel quale, specie il Sud, era immerso, spicca un gesto di solidarietà (sconosciuto a moltissimi) forte e realmente ‘di altri tempi’, e per le modalità organizzative e, soprattutto, per lo spirito che muoveva le persone coinvolte. Il merito di tutto questo va a donne. Sono loro, attraverso l’Unione donne Italiane (associazione femminile della Sinistra Italiana) e i tanti comitati locali, a partorire intuitivamente una soluzione capace di alleviare le sofferenze dei bambini del Sud e delle loro famiglie che patiscono la fame, condizioni igieniche e abitative precarissime, nella consapevolezza che, per ricostruire un’Italia realmente nuova, siano proprio i piccoli a dover essere restituiti ad una normalità di vita, a loro, più di tutti gli altri, necessaria.

E così, le famiglie del Centro-Nord aprono le loro case ai piccoli meridionali, che, alle prese con il loro primo viaggio in treno (vera e propria epopea, visto che ci volevano ben 15 giorni per giungere a destinazione), si vedono affidati a cure e a condizioni di vita capaci di ristabilirli innanzitutto fisicamente, scoprendo una fetta di Italia diversa, e sfatando così i più aberranti sospetti su questi presunti ‘mostri’ Comunisti. Attraverso le testimonianze degli ex bambini coinvolti (ora uomini e donne con un bel pezzo di anni sulle spalle), e gli inserti di filmati provenienti dall’archivio dell’Istituto Luce, viviamo negli occhi e nel ricordo un racconto tenero, divertente ed emozionante, nel quale prende forma un’Italia diversa da quella di oggi, dove lo spirito di condivisione pulsava naturalmente e gratuitamente. Non c’era imposizione di alcun genere, né nel reclutare i bambini da affidare, visto che erano i genitori a doverne fare richiesta, né nel reclutare le famiglie affidatarie, che agivano di spontanea iniziativa. E si trattava di nuclei non certo senza figli o con poca prole da sfamare. Le famiglie, specie emiliane, ospitanti erano già composte da 12, 13 figli, ma sapere che nel Sud del Paese esistevano piccoli che non avevano vestiti, non potevano mangiare se non una volta al giorno, li spingeva ad un atto di generosità senza pari. I bambini accolti diventavano parte della famiglia,  e venivano trattati come sangue del proprio sangue, carne della propria carne.

Pasta Nera ci rivela un’Italia spaccata in due anche alla fine della guerra. Il centro-nord era ‘debilitato’ sì,  ma si riusciva a mangiare tre volte al giorno (specie nella campagne), ad avere un letto con lenzuola e coperte, ad assaporare un gelato, una brioche. Un ex bambino racconta, con gli occhi lucidi, della scoperta del profumo di brioche di cui non aveva mai sentito parlare, che assaggiava per la prima volta. E, meraviglia delle meraviglie, del poter di nuovo giocare… I bambini avevano tempo e luoghi dove ritornare ad essere spensierati, imparando anche andare in bicicletta…Un’ Italia i cui pregiudizi degli uni per gli altri erano più benevola ignoranza, che mala fede infetta. I piccoli avevano capito presto, dopo una iniziale titubanza  e paura, che le tinozze piene d’acqua o i camini accesi non servivano per farli diventare sapone o per farli allo spiedo, ma che i Comunisti li lavavano, li riscaldavano, si prendevano cura di loro, non avevano intenzione di mangiarli come il prete o la gente del Sud prediceva…

E tale compenetrazione di sentimenti (naturalmente biunivoca), unita alla scoperta di un mondo diverso, più bello, dove si era meno disperati, ha anche generato in certi bambini l’incredibile rifiuto di tornare a casa, finiti i due anni o l’anno di permanenza. Alcuni sono realmente rimasti, altri, ridiscesi ma incapaci di riadattarsi all’arretratezza meridionale, sono ritornati ai loro genitori adottivi. Un bel viaggio dentro l’Italia, quello che Piva ci fa percorrere, con l’unico neo di un effetto ‘carrambata’ per un ricongiungimento lungo trent’anni, alleggerito fortunatamente di molto da un montaggio sobrio, che non enfatizza la retorica delle emozioni.

Sperando che almeno in televisione possa venir diffuso, sveliamo il senso del suo titolo: la pasta nera veniva fatta con pochissimi chicchi di grano arso che restavano a terra dopo la trebbiatura, contesi dai poveri con gli animali. L’ultima risorsa che restava per nutrirsi…

Maria Cera

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