L’opera prima di Vincent Le Port ripercorre la vita di un giovane assassino nella Francia rurale del primo ‘900. Il film, presentato alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2021 e presentato in anteprima nazionale al Bif&st s’ispira all’opera di Stéphane Bourgoin dal titolo Serial Killers.
Bruno Reidal – Confession of a Murderer, ben lungi dall’essere un crime movie, è un’analisi psicologica, dettagliata e scioccante, della vita di un giovane assassino che, al termine di un lungo inferno interiore, soccombe ai suoi istinti omicidi, uccidendo e decapitando un ragazzino di tredici anni.
Dopo aver commesso il cruento assassinio, Bruno si costituisce; in carcere il suo caso viene preso in esame da vari psichiatri che indagano sulle ragioni che animano l’animo tormentato dell’omicida.
Bruno Reidal, la sconvolgente storia di un assassino
Le Port trae ispirazione da un memoir, una testimonianza raccolta in carcere dallo psichiatra Alexandre Lacassagne nel 1905, riportata da Stéphane Bourgoin nel libro Serial Killers; il regista francese parte da quest’opera per scrivere la sceneggiatura, costruita su tre fasi di età del protagonista (interpretato da Alex Fanguin a sei anni, Roman Villedieu a dieci anni e Dimitri Doré a diciassette).
Per il casting, Le Port si è affidato a una descrizione fisica minuziosa di Bruno Reidal, scegliendo gli interpreti che avessero le stesse caratteristiche del vero assassino: la postura, lo sguardo, il corpo esile.
La ricerca sulle “radici del male” intrapresa dai medici del carcere sembra condurre ad un vicolo cieco; il mistero insondabile di Bruno che con sguardo bieco guarda alla vita o fissa la nuca dei compagni di classe, immaginando la loro brutale morte, non ha soluzione e, forse, non ha ragioni.
Mentre la scienza cerca di dare una risposta a una irrefrenabile pulsione omicida, frenata per anni da una fervente fede religiosa e, infine, sfociata in un crimine efferato e senza alcun movente, Bruno ripercorre la sua tragica esistenza: una madre violenta, un’infanzia segnata dal duro lavoro in campagna tra animali sgozzati e campi assolati, la perdita prematura del padre, un abuso in tenera età, un’identità sessuale incerta e mai accettata.
Bruno Reidal, faccia a faccia con il “mostro”
Tutti gli eventi della tragica esistenza di Bruno si ricompongono come i tasselli di un puzzle cercando il movente che sfugge, il trauma primario che fornisca la giustificazione, la soluzione, l’assoluzione. Ma Bruno, lo dice lui stesso, ha sempre avuto quei “pensieri cattivi”, sin da piccolo.
L’odio di Bruno è radicato in lui e sembra intrinseco alla sua stessa natura: è un profondo e cupo disprezzo che nasce da un sentimento, o meglio una pulsione intrisa di ammirazione e invidia.
Sì, perché Bruno contempla quasi estaticamente le sue vittime, le trova affascinanti nell’aspetto, intellettualmente stimolanti e, al contempo, prova rabbia per la loro vitalità. Forse solo una spietata, ingiusta morte può mettere fine a tanta bellezza e gioia di vivere.
Lo sguardo di Le Port sulla vicenda di Bruno resta distaccato, non condanna né assolve ma indaga e,di sicuro, pone degli interrogativi.
Quando Reidal viene portato via in malo modo dalla polizia che ha appena scoperto il cadavere del ragazzo ucciso e decapitato, questi si chiede perché nessuno provi compassione per lui e per la sua vita disgraziata. Ed è, probabilmente, da questa domanda che nasce l’urgenza di raccontare una storia come quella di Bruno.
Il carnefice è, in realtà, vittima di se stesso, dell’abisso che lo divora dentro e in cui nessuno riesce a guardare fino in fondo.
Le Port riesce a intercettare ciò che avvicina il “mostro” a un qualsiasi altro essere umano e non ciò che lo rende estraneo, diverso e terrificante.
E così lo spettatore sospende il giudizio, spera persino nella miracolosa guarigione del protagonista o in quel suo breve momento di esitazione prima del colpo fatale, abbraccia il dolore di un uomo senza colpa e senza possibilità di redenzione.