Atmosfera grigia e cupa, nell’opera seconda del regista indiano Aditya Vikram Sengupta, Once Upon A Time in Calcutta, presentata nella sezione Orizzonti al 78° Festival di Venezia, per raccontare una Calcutta insolita rispetto alle immagini tanto colorate e gioiose, quanto stereotipate e bollywoodiane, con cui la città santa indiana, e l’India in generale, vengono di consueto presentate dalla cinematografia commerciale. Chiaramente ispirato alle tonalità stilistiche del grande Wong Kar-wai, il film non riesce a raggiungerle, risultando in alcuni momenti difficile da seguire e poco ispirato. Pure la modalità in cui le storie vengono ad intrecciarsi e l’affresco di una Calcutta ‘altra’ interessano e colpiscono.
Once Upon A Time in Calcutta: c’era una volta Calcutta
Già presente a Venezia nel 2014, con il film che ha dato impulso alla sua carriera, Labor of Love, Sengupta torna a sviluppare con Once Upon A Time in Calcutta una narrativa densa e noir, il c’era una volta di una favola drammatica, con qualche raro raggio di sole che sembra intravedersi di quando in quando nei difficili rapporti umani raccontati dal film. Il regista descrive individui con gravi problematiche esistenziali, solitudini relazionali e nostalgie di tempi migliori, quelli dell’infanzia, quando era ancora forte la dimensione comunitaria, e la difficile ricerca di un posto nel mondo, dopo aver sperimentato il dolore e la morte.
La protagonista, Ela (la brava Sreelekha Mitra), è la conduttrice di mezza età di uno show televisivo orientato, infatti, alla spiritualità. Dopo la perdita dell’amato figlio stenta a ritrovare, non solo la propria identità di madre, ma anche quella di donna e decade l’unico motivo che la legava al marito. Decide così di andare a vivere da sola, ma la banca le rifiuta un mutuo per una casa, non avendo lavoro né garanti. Dopo un colloquio con uno strozzino che la sconvolge notevolmente, Ela decide, sia pure a malincuore, di ricontattare il fratellastro e rivendicare la sua metà di un vecchio teatro di famiglia – la madre era un’artista e cantante – ma questi le oppone un rifiuto, dando alla sorella la colpa del proprio oscuro destino.
Once Upon A Time in Calcutta. Ela: donne e città in cerca di identità nuove
La ricerca di una nuova identità e dell’indipendenza sembrano finalmente riaffacciarsi quando Ela incontra l’amore della sua infanzia, che le offre l’affetto e la speranza necessari per un nuovo inizio. Proprio quando Ela ricomincia a vivere una vita degna di questo nome, quella che, dopo il lutto, aveva osato appena sognare, si rende conto di non essere l’unica a scavare tra gli scarti in una città profondamente dolente.
Ispirato a fatti realmente accaduti, il film – secondo coloro che hanno maggior familiarità con le vicende indiane e in particolare con quelle relative al Bengala occidentale – potrebbe alludere a una critica di Sengupta all’urbanizzazione selvaggia, priva di regolamentazione, che ha accelerato i processi di disintegrazione socio-familiare e favorito ulteriormente miseria e solitudine.
Una condizione umana tragica
“Il film è il culmine dei sentimenti e delle emozioni che provo per Calcutta e i suoi abitanti – afferma il regista – una città impegnata nel tentativo di stare al passo con un mondo in rapida evoluzione e le aspirazioni e gli sforzi di persone che annaspano in una metropoli in continua espansione. Utilizzando personaggi reali ed eventi effettivamente accaduti, il film è il mio tentativo di eliminare i vari strati della città un tempo comunitaria, per rivelare una condizione umana tragica ma, allo stesso tempo, piena di speranza e di gioia. Ho cercato di dare agli spettatori un vero spaccato delle acque torbide di Calcutta, attraverso dei personaggi vivaci che cercano in ogni modo di ritagliarsi un loro spazio, senza affogare”.
Once Upon A Time in Calcutta è una coproduzione di India, Francia e Norvegia, di For Films (la casa di produzione di Aditya Vikram Sengupta), Wishberry Films, DUOfilm e Catherine Dussart Productions.
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