Durante la 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, abbiamo avuto l’occasione di seguire la conferenza e l’incontro tra la stampa e Gabriele Mainetti, autore del sorprendente Freaks Out. Presenti anche i protagonisti della pellicola, Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Franz Rogowski, Max Mazzotta e Giorgio Tirabassi, e il co-sceneggiatore, Nicola Guaglianone.
Freaks Out | Incontro con Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone
Come sono nati questi Freaks?
Gabriele Mainetti: Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, io e Nicola Guaglianone ci siamo chiesti cosa fare. Abbiamo buttato giù tutti i film che ci piacevano. E poi ci divertiva l’idea di accostare i freak all’elemento conflittuale del nazista.
Nicola Guaglianone: Quando ho proposto l’idea della Seconda Guerra Mondiale, negli occhi di Gabriele ho visto la stessa scintilla che aveva dopo Lo chiamavano Jeeg Robot.
I mezzi di comunicazione sono i nuovi totalitarismi?
GM: Non arrivo a essere così creativo nella mia ricerca. Certo, l’iPhone è totalizzante, quando si cerca una cosa nella biblioteca digitale, si apre una sequela di immagini che entra nella testa. E a me divertiva quel gioco. Ha totalizzato la nostra vita e ci ha allontanato da un’altra, ma è necessario metterle insieme, non è possibile tornare indietro.
Per quanto riguarda la diversità dei generi, a chi si rivolge il film? E il titolo è un omaggio a Tod Browning?
GM: Browning è il maestro di un film meraviglioso che non è stato accolto come avrebbe dovuto. Ma in realtà il titolo ha un doppio significato. In inglese “freak out” significa impazzire; inoltre, quando il circo viene smembrato, i freaks sono out, fuori dal loro spazio sicuro.
Il film è per tutti. – Gabriele Mainetti
Freaks Out | Le voci del cast
Come vi ha raccontato i personaggi Gabriele?
Claudio Santamaria: Quando ho letto la sceneggiatura, per la seconda volta ho trovato l’emozione. Se Jeeg è stato uno scavo preliminare, questo è una diga. Ha sancito lo spartiacque di un cinema che può divertire e trovare una sua credibilità nelle vicende umane. Noi abbiamo lavorato sulla costruzione di una personalità forte. Fulvio ha tutto un passato che non viene raccontato nella storia, ma che esiste e viene esplicitato attraverso il comportamento.
Pietro Castellitto: È stata la sceneggiatura più bella che io abbia mai letto. Affronta lo spettacolo, ma dentro c’è un equilibrio incredibile, che ti emoziona. Gabriele considera il lavoro dell’attore il più importante e si ha l’impressione che i personaggi abbiano un loro passato, e anche un futuro.
Per me è stato un master di recitazione e di regia. – Pietro Castellitto
Franz Rogowski: Ogni giorno era una nuova esperienza. Il personaggio era una parte di me, anche se ancora oggi non so chi sia Franz (ride, ndr.)
Anche in questa occasione il personaggio femminile è un ruolo importante…
Aurora Giovinazzo: Abbiamo creato l’universo di Matilde anche grazie all’aiuto inconsapevole degli altri attori. Abbiamo inserito un sacco di caratteristiche e qualità. All’epoca avevo 15 anni e Gabriele sul set mi chiamava “pulcino”. Matilde è un personaggio puro, ha l’amore negli occhi, e si rivela forte, determinato, coraggioso. È una guerriera che non sa di esserlo, con un passato complicato. Rispetto agli altri attori ho avuto una base, su cui lavorare. Ho lavorato anche sull’esclusione.
GM: Sia per me che per Nicola, il ruolo femminile è molto importante. Nella relazione col femminile, il personaggio di Enzo si trasforma in Jeeg. Qui invece i nostri personaggi, con la loro diversità, fronteggiano le difficoltà con grande onore, ma sono impauriti, vigliacchi. Riescono a superare tutto ciò solo grazie al rapporto con gli altri. Aurora affronta il percorso formativo da ragazzina ad angelo tremendo. Si affronta il discorso dell’identità.
Nella diversità, e quando è veramente libera, la donna può solo che illuminarci. – Gabriele Mainetti
Da Quentin Tarantino a Il Mago di Oz
All’interno del film c’è una serie di elementi che si collega all’attualità e anche a Lo chiamavano Jeeg Robot.
GM: L’abbiamo pensata questa cosa, ma in realtà c’è una poetica al di là di tutto, che crea una sua linea editoriale per così dire. Freaks Out offre degli spunti molto interessanti, ho faticato molto. Lo chiamavano Jeeg Robot era l’esperienza del primo film, questo film mi ha permesso di esplorare i personaggi. Cerco sempre di capire la storia di ogni personaggio e mi fa piacere quando le persone si ricordano di loro, anche di quelli minori.
Sembra ci siano due numi tutelari: Tarantino e l’universo Marvel.
GM: È impensabile non confrontarsi. Tarantino ha reinventato la storia, ha la capacità di rendere un evento unico e spettacolare. La Marvel mi interessa fino a un certo punto. Sembra che ogni elemento fantastico sia figlio di un superpotere. A me piacciono molto più Steven Spielberg e Sergio Leone, credo ci siano più loro nei miei film. Quando abbiamo fatto Freaks Out sono usciti film che trattavano la stessa tematica.
Il passato lo devi reinventare, far funzionare nel presente, altrimenti diventa un elemento nostalgico. – Gabriele Mainetti
Significa che queste idee sono nell’aria, appartengono a tutti. L’originalità del nostro film sta nell’italianità e nella germanicità (ride, ndr.)
Cosa c’è di complesso nel fare un film simile?
GM: Rifare così un cinema d’azione, che era stato fatto in passato, necessita di rivedere gli ingranaggi. Questi film hanno queste difficoltà tecniche, il pelo di Fulvio, la parrucca di Cencio. Abbiamo fatto orari impossibili. La battaglia è stata molto difficile, avevamo la paura di non riuscire a finirlo, sai se finiscono i soldi…
C’è anche un riferimento a Il Mago di Oz.
NG: Dopo il successo di Jeeg Robot, avevamo davanti vari spunti e uno diceva Il Mago di Oz più Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. E lo abbiamo scelto. Il Mago di Oz è pieno di archetipi. I nostri personaggi creano la loro identità solo dentro al circo e, invece, capiranno col tempo, e grazie al viaggio, che hanno un’identità diversa dal fenomeno da baraccone.
Che gusto c’è stato nell’interpretare Israel?
Giorgio Tirabassi: La comunità ebraica è quella più vecchia, più autentica di Roma. Il linguaggio è assolutamente credibile. Non c’è stato alcun dubbio sulla parlata, anzi.
Io credo che l’accento dia sempre più verità, più umanità. – Giorgio Tirabassi
Il rapporto di Israel con gli altri è paterno e mi è sembrato naturale. Il romanesco ebraico non si usa più, ma è la radice della lingua. Quando abbiamo fatto questi incontri di approfondimento mi sentivo un po’ fuori gioco, perché credo più nell’interpretazione che nell’immedesimazione, nel transfert. Non ho avuto ostacoli.