Biennale del Cinema di Venezia

‘Imaculat ‘(2021) tra innocenza, cambiamento e contraddizioni

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′′Dopo il premio alle Giornate degli Autori, il film Imaculat, diretto dai registi rumeni Monica Stan e George Chiper-Lillemark, ha vinto anche il Leone del futuro – Premio Venezia opera prima “Luigi De Laurentiis” alla 18a edizione delle Giornate degli Autori. Il riconoscimento è attribuito alla miglior opera prima di tutta la 78a edizione della Mostra dell’Arte Cinematografica al Lido di Venezia. Ha sbaragliato le altre nove pellicole in concorso aggiudicandosi centomila dollari, messi a disposizione da Filmauro, che saranno suddivisi in parti uguali tra i registi ed il produttore.

La trama di Imaculat

Il film, che nasce dall’esperienza personale vissuta in giovane età da Monica Stan, sceneggiatrice e co-regista del film, è la storia di un breve periodo trascorso in riabilitazione da parte della diciottenne Daria (Ana Dumitrascu). La ragazza, di estrazione borghese, entra in una comunità di recupero su insistenza della madre (Ozana Oancea), preoccupata per la salute, la reputazione e il futuro della figlia, ma allo stesso tempo desiderosa di allontanarla dal ragazzo Vlad, ora recluso in carcere, che l’ha introdotta all’uso di eroina solo un anno prima.

Dalla scena iniziale del film, il piano medio frontale della protagonista Daria

Nella comunità, dove la protezione e la sicurezza dei pazienti dovrebbero essere massime, la sorveglianza invece langue. I pazienti sono abbandonati a loro stessi. Daria è la più giovane in quel luogo squallido dominato da pazienti maschi. Diventa subito il catalizzatore delle loro attenzioni non desiderate. Dai comportamenti folli e privi di freni inibitori, si comprende che la maggior parte di questi giovani ha il cervello bruciato dall’uso smodato di stupefacenti e che sono irrecuperabili.

Le contraddizioni di Daria

Daria è diversa dagli altri ricoverati. Non proviene dal loro ambiente. Non è una ragazza sbandata. Ha solo intrapreso frequentazioni poco raccomandabili, forse per reazione e rifiuto nei confronti di quel mondo borghese e rigido a cui appartiene. Tuttavia, dichiara indirettamente di volerne far parte, quando riferisce di voler conseguire la maturità e poi andare all’università.

É una giovane piena di contraddizioni. Per certi versi, ha le idee chiare. D’altra parte, sembra soggiogata e influenzabile alla presenza del primo ragazzo, che le ronza attorno. Prima è Vlad, poi Costea (Cezar Grumazescu), mandato da quest’ultimo per controllarla e infine, Imanuel (Rares Andrici). Daria sembra essere innocente e così debole di fronte all’ingerenza maschile. Tuttavia, ogni sua dipendenza non è irreversibile. É giovane. Può cambiare. Ed è chiaro che il ricovero nella struttura vuole essere una lezione più che una soluzione estrema. La speranza è che impari qualcosa una volta uscita da lì.

La telecamera inquadra senza inquadrare

La scelta di riservare solo pochi piani lunghi al contesto lugubre della comunità sembra rivelare l’intenzione di creare uno spazio alternativo molto meno reale e più importante di quelle quattro mura così spoglie e imbruttite dal dolore che racchiudono. La telecamera insiste con primi e primissimi piani di Daria quasi a voler scrutare il suo mondo interiore, i suoi silenzi, il suo sguardo vacuo. Non la lascia mai. Finisce per soffocarla finché qualcosa non cambia con il passare dei minuti.

Da una scena del film, Daria è a letto con Spartac (Vasile Pavel), il capo e il più anziano tra i pazienti.

Dal piano medio frontale della ragazza, dal volto angelico segnato dall’acne, a testimonianza della sua giovane età, si passa ai primissimi piani di dettagli del suo volto. L’obiettivo finisce per inquadrarla senza davvero inquadrarla quasi a voler risponder al desiderio di Daria di non rimanere rinchiusa e intrappolata negli schemi della società in cui vive.

Attraverso queste scelte tecniche ben precise, il co-regista e direttore della fotografia George Chiper dimostra di aver compreso la storia che Monica Stan ha scritto. Forma e contenuto si amalgamano così in un film che, se pure interessante, si lascia andare a piani sequenza eccessivamente lunghi, che, ripetuti,  finiscono per spazientire lo spettatore.

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