Leave no traces, in concorso a Venezia 78, del regista polacco Jan P. Matuszyński, si configura come un’opera di testimonianza e di denuncia, partendo da un’incresciosa vicenda che ha turbato il suo Paese negli anni’80.
Leave no traces: un capitolo doloroso della Storia polacca
Siamo nella Polonia del 1983 quando scoppia il caso di Grzegorz Przemyk, uno studente picchiato a morte dalla milizia per essersi rifiutato di mostrare il documento di identità.
Tratto da un fatto di cronaca che ha sconvolto la Polonia e il mondo negli anni ’80, il film ripercorre la storia dell’unico testimone oculare del pestaggio, Jurek, che diventa il nemico numero uno dello Stato polacco.
Il regime tirannico si scaglia contro l’uomo e le altre persone coinvolte nel caso, utilizzando tutti gli strumenti di potere a disposizione: servizi segreti, milizia, mass media e tribunali .
Il film di Jan P. Matuszyński mette insieme più generi, dal thriller al dramma familiare; Leave no traces è un affresco del regima comunista della Polonia degli anni Ottanta, ma intende rappresentare tutte quelle libertà violate, soppresse, schiacciate dallo stesso Stato che dovrebbe tutelarle.
Nonostante nel 1983 il regista non fosse ancora nato, egli riesce a riprodurre la Varsavia del tempo e le sue atmosfere, grazie a un lavoro di ricerca dettagliato e ad una fotografia sgranata.
Leave no traces ripropone le trame del dramma dell’Europa Orientale di quel periodo (Wadja o Kieslowski) mentre la struttura del docudramma richiama il lavoro di Costa-Gravas degli anni ‘70 e ‘80.
Matuszyński ricostruisce la vicenda come fosse una storia kafkiana in un film teso e dal ritmo incalzante.
Leave no traces: un film riuscito a metà
L’obiettivo ultimo del regista polacco, come lui stesso ha dichiarato, è quello di denunciare e riportare le ingiustizie e gli abusi, non solo di un contesto sociale storico preciso, ma di un mondo che tende ripetutamente alla tirannia. Probabilmente, però, nello sforzo di dare più ampio respiro al film, adombra la singolare esperienza di Jurek, che dovrebbe essere l’ elemento portante, aggiungendo alla narrazione personaggi che avrebbero meritato una più profonda esplorazione.
A tal proposito, risultano interessanti le interazioni tra Jarek e suo padre, un ex soldato guidato da un cieco patriottismo che tenta di re-indirizzare i principi morali del figlio.
Leave no traces è una narrazione onesta ma eccessivamente dilatata (dura 160 minuti). La ricchezza dei dettagli e la varietà dei personaggi rendono il film difficile da elaborare e, a tratti, disorientante per il pubblico in sala.
Di sicuro si configura come un’opera di testimonianza. Dichiara lo stesso regista: “Solo con il supporto del ricordo, possiamo sperare che questo non accada nuovamente”.
La memoria si riaggancia inevitabilmente al presente, creando un evidente parallelismo tra la storia di Przemyk (e di Jurek, il vero personaggio chiave del film) e la recente vicenda di George Floyd e di tutte le altre vittime della brutalità della polizia in tutto il mondo.
Il film di Matuszyński lascia, indubbiamente, un segno visibile, una “traccia” nel documentare la storia di un Paese attraverso una ricostruzione urgente e appassionata dei fatti che hanno contraddistinto l’era comunista polacca.
Tuttavia la storia non riesce a sganciarsi dal contesto in cui è inserita e ad assumere il carattere di universalità a cui aspirava il regista.
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