Il regista messicano Lorenzo Vigas torna a Venezia, dopo aver conquistato il Leone d’Oro nel 2015 con Ti guardo.
Il film che presenta, in concorso, si intitola La Caja.Inizia come un romanzo di formazione e si trasforma in una parabola amara sull’assenza, sulle condizioni di lavoro in Messico e sulla menzogna come atto di sopravvivenza.
La Caja: alla ricerca di un padre in una terra desolata
La Caja di Lorenzo Vigas si configura come l’ultimo capitolo di una trilogia focalizzata sulla figura del padre nell’America Latina; la ricerca del regista su questa tematica nasce col corto Los elefantes nuncas olvidan e prosegue col lungometraggio d’esordio Ti guardo(Desde allà).
Nel 2016 Vigas presenta sempre a Venezia, El vendeador de orquideas, documentario dedicato al papà Oswaldo, noto pittore latinoamericano.
La trama di La Caja è semplice e lineare: Hatzin (Hatzin Navarrete) è un ragazzino di Città del Messico che compie un “viaggio della speranza” per recuperare, in una terra desolata, l’urna (“la caja”, la cassa che dà il titolo al film) contenente i resti del papà scomparso che a malapena ricorda.
Per lui, come per molti giovani dell’America Latina, il padre è una figura mitologica; i ragazzi del luogo crescono forgiati da questa assenza.
Ecco perché quando Hatzin intravede sul pullman un uomo robusto e barbuto, Mario (Hernan Mendoza), inizia a credere, contro ogni logica, che questi sia suo padre.
Il giovane rincorre lo sconosciuto e comincia a pedinarlo, nonostante quest’ultimo si dimostri infastidito dalla sua presenza.
Dopo vari tentativi di allontanamento da parte di Mario nei confronti di Hetzin, l’uomo, che lavora come selezionatore di manodopera locale a basso costo, decide di aiutare il ragazzo e assumerlo come suo braccio destro.
Vigas realizza un film essenziale ed esteticamente suggestivo: le lande deserte messicane, i cieli immensi da cui, come suggerisce una canzone nel film, le stelle sembrano cadere, gli enormi edifici in cui uomini e donne di tutte le età lavorano incessantemente, sfruttati da un sistema dilaniato dalla violenza.
Il rapporto con il padre è un perno centrale nella filmografia di Vigas e affonda le sue radici nell’esperienza personale del regista; l’assenza di una figura genitoriale crea un bisogno inappagato, una frattura insanabile nell’identità di un individuo.
Dimensione personale e politica si intrecciano: Vigas sostiene che la figura del leader, in paesi come il Venezuela, abbia finito per colmare quel vuoto psicologico inappagato scaturito dalla mancanza di un punto di riferimento imprescindibile nelle famiglie smembrate dell’America Latina.
La Caja: sotto il cielo sconfinato del Messico
Il regista si muove su due linee narrative, intrinsecamente connesse: da un lato un figlio che ricerca il papà (o quel che ne resta, fosse pure il miraggio di un fantasma), quindi la spinosa questione dei desparecidos; dall’altro, le condizioni disumane della produzione industriale, in concorrenza con quella cinese, come sottolineato più volte nel film.
Un’altra tematica rilevante in La Caja è la menzogna: ad un certo punto del film, Mario, che diventa una sorta di mentore per Hatzin, gli insegna a mentire.
La bugia assume il valore di uno scudo protettivo nei confronti di una realtà difficile da gestire, dominata da un sistema che schiaccia l’individuo e lo riduce a mero ingranaggio di una catena produttiva.
Se Sundown di Michel Franco si limita ad illustrare “l’altra faccia dell’America”, quella dura, amara, in cui si lotta per sopravvivere, La Caja (prodotta, tra l’altro, dallo stesso Franco) non si limita a delineare la situazione sociale messicana ma la penetra attraverso pochi essenziali dialoghi e campi lunghi carichi di poesia visiva.
La scena di Hatzin, quasi congelato, nella tormenta di neve, è di una potenza strabiliante; l’abilità di Vigas sta nel mettere in scena delle sequenze durissime con una grazia rara, sottese sempre da un senso di malinconia che accarezza lo spettatore, cullandolo nella visione.
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