Presentato in anteprima alle Giornate degli Autori, unico film italiano in concorso, Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman inizia laddove finiva Butterfly. Una continuità con il lavoro precedente che non preclude la via al cambiamento di cui Californie si fa portatore nel cinema dei due autori. Prodotto da Ang Film e da Rai Cinema , dal 21 Aprile al cinema con Fandango Cinema, Californie nella conversazione con Alessandro Cassigoli e Kasey Kauffman.
Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman legato a Butterfly
Volevo partire dalle prime immagini e, più precisamente, dalla scoperta che Californie inizia laddove finisce Butterfly. A parte la sorpresa di rivedere i personaggi dello scorso film, la visione di quei primi minuti ha un doppia valenza: quella di rimarcare una continuità narrativa tra le due storie. E poi di sottolineare come Jamila, alla pari di Irma, sia una combattente dentro e fuori dal ring. Dunque quei fotogrammi assumono un valore simbolico facendo di questi lavori due facce della stessa medaglia.
Alessandro Cassigoli: Hai riassunto bene le nostre intenzioni, nel senso che l’idea era quella di un doppio movimento: da una parte, come hai detto, c’era una continuità data non solo dalle similitudini fra i caratteri di Irma e Jamila, ma anche dai luoghi in cui entrambi i film prendono le mosse. Dall’altra, volevamo andare in una direzione diversa nell’intenzione di non riproporre un nuovo film sul pugilato perché comunque l’avevamo già fatto. Anche a livello di forma, per quanto in un certo senso siano simili, questa volta volevamo andare più decisamente verso la finzione. In Californie continuità e discontinuità vanno di pari passo.
Casey Kauffman: A proposito della continuità di cui avete detto, credo che un punto in comune tra i due film sia stato quello di credere nei personaggi, ritenendoli interessanti e capaci di catalizzare l’attenzione delle persone. In più, in entrambi i casi, non sapevamo esattamente dove andava a finire la storia. Filmare Jamila – che nella vita reale si chiama Khadija – implicava la stessa fede avuta per Irma, ovvero quella di credere nella forza del personaggio senza avere una storia predefinita. Quindi è giusto parlare di una continuità progettuale. Poi, come hai visto, il percorso che ha preso il film, così come la vita di Jamila, sono diversi. La continuità con Butterfly c’è stata nel modo di iniziare e nella scelta del soggetto.
Qui per il trailer di Butterfly e qui per un’altra conversazione con i registi a proposito di Butterfly
Per altro la prima sequenza è una sintesi del carattere di Jamila, la quale, ancora piccola, mostra già le caratteristiche della sua personalità, prima tra tutte la caparbietà di perseguire gli obiettivi. In questo schizzo iniziale c’è la capacità del vostro cinema di cogliere in pochi attimi l’essenza di chi sta davanti alla macchina da presa.
CK: A volte le cose ti vengono incontro senza che tu lo voglia. Nell’ultima inquadratura di Butterfly l’appeal di Khadija era tale che la gente, dopo averla vista, voleva sapere notizie di quella ragazza così tenace e combattente ma allo stesso tempo carina e dolce. Questo ha motivato ancora di più la nostra indagine su di lei. Andando avanti con il tempo, la brillantezza e la luce che aveva negli occhi da giovanissima, complice le piccole grandi crisi dell’adolescenza, si è un po’ indurita, mettendola in lotta contro il mondo. Trovarsi quel materiale di base e accostarlo a uno scarto emotivo così forte, per noi è stato veramente stimolante perché, nell’insieme, c’era già scritta la drammaturgia del film.
Alessandro Cassigoli su Californie
A proposito del rapporto tra continuità e discontinuità, da una parte la prima scena ci dice che il film prende forma a partire dalla stesso contesto sociale. Californie racconta, però, un doppio svantaggio rispetto a quello di Butterfly poiché la protagonista, oltre a vivere in un luogo sfavorevole, lo fa da in una condizione che la penalizza ancora di più, essendo lei, come il resto della sua famiglia, emigrata dal Marocco. Il fatto di provenire da un altro paese la rende doppiamente orfana.
AC: È proprio così. Di Jamila ci piaceva lo status di ragazzina solitaria che, nonostante i pochissimi punti di riferimento, cerca di costruirsi la vita come lo si può fare a undici, dodici, tredici anni; quindi con tutti gli errori del caso, ma anche con il fascino di essere artefici del proprio destino. Da lì in poi, e cioè da quella frattura emotiva, è entrata in qualche modo la penna, la scrittura, e, proprio per andare in quella direzione, abbiamo comunque sfruttato il carattere di Khadija che nella vita reale ha una situazione diversa da quella del suo personaggio. Lei, infatti, continua a fare pugilato, è campionessa italiana e adesso vuole entrare in nazionale.
Con Californie avete sentito il bisogno di un cambiamento formale attraverso una modalità e un contesto più o meno simili a quello che ha spinto Leonardo di Costanzo a lasciare il documentario per dedicarsi al cinema di finzione. La sua era stata una resa nella consapevolezza che almeno per lui il cinema del reale non aveva più la forza di cogliere il vero senza tradire se stesso. Per voi quali sono state le ragioni?
CK: È stata una scelta a favore della libertà e della creatività. Per spiegare ancora di più quello che ha detto Alessandro dico che a noi interessava questa ragazza per la sua personalità e per il contesto in cui si svolgeva la sua vicenda. La seguivamo cercando di individuare che tipo di storia fare. Quando lei, nella vita reale, ha perso il suo unico punto di riferimento, cioè la palestra e il maestro di boxe, ci siamo chiesti cosa avrebbe fatto una ragazza nelle sue condizioni. Da qui la decisione di ricostruire queste ipotesi anche attraverso la scrittura, cercando di immaginare quale sarebbe stata la sua reazione a queste difficoltà. Siamo partiti da questo punto di rottura per scrivere e sviluppare il resto della storia. Come ha detto Alessandro, Khadijah è tornata in tempi brevi a fare pugilato e anche con successo, ma noi abbiamo continuato a scrivere indagando quello che poteva succedere a Jamila, ovvero a una ragazza che, invece, è costretta a trovare un’altra strada per sopravvivere.
Con Alessandro non sentivamo più il bisogno di seguire in modo documentaristico la sua vita, pressati dall’esigenza creativa di raccontare storie in questo territorio di doppio svantaggio, come tu lo hai definito. Abbiamo iniziato a scrivere in base alla sua vita, a quella di sua sorella ma anche secondo le idee che avevamo in mente e che ci venivano dall’aver osservato e conosciuto altri giovani di quel posto.
AC: Paradossalmente questo cambio ha dato più libertà anche a lei, perché comunque anche Khadija, nel momento in cui cessa di rappresentare se stessa, diventando Jamila, acquista maggiore indipendenza.
Il problema dell’autorappresentazione
Un altro problema che si poneva era quello dell’auto rappresentazione. La metropoli napoletana è da sempre abituata a creare un’immagine di se stessa. A questo si sommava il fatto che Khadija doveva interpretare un personaggio che, in qualche modo, prendeva molto dalla sua vita. Di solito chi fa un cinema come il vostro si confronta con problematiche di questo tipo e cioè di tenere a freno l’auto rappresentazione per non compromettere la natura reale del soggetto.
AC: Su questo abbiamo ragionato tantissimo. Come sai c’è un’esplosione di cinema a Napoli: appena andiamo a fare un casting ci accorgiamo che in città ci sono un sacco di film in lavorazione. Da questo punto di vista sono stati due fattori ad aiutarci: da una parte ci siamo focalizzati sull’universalità della storia e sulla formazione dell’identità della protagonista. Siamo rimasti molto sui suoi sentimenti, anche su quelli più piccoli, proprio perché volevamo staccarci da un certo tipo di sensazionalismo. Questo atteggiamento viene dalla nostra storia di documentaristi: Casey è stato un giornalista di guerra che ha tentato di raccontare quei luoghi non attraverso gli attentati e le uccisioni, ma mediante un minimalismo capace di intercettare l’anima di quei posti. Questo è stato l’atteggiamento che abbiamo coltivato nei nostri film, escludendo volutamente la cronaca, la droga, la camorra: non per censura ma perché ci interessava raccontare altro.
CK: In generale è difficile evitare la rappresentazione, tanto per chi si occupa di cinema quanto per le persone che si trovano a recitare in un film come il nostro. Anche per me, come americano, è difficile descrivere un altro paese senza sfuggire a un certo tipo di cliché. A proteggere me e Alessandro da questo rischio è il fatto che non siamo andati lì con una storia predefinita, già scritta, e con l’intenzione di cercare un’attrice tipo Kadhija e un personaggio come Dijamila.
Abbiamo avuto una mentalità aperta; poi, nel nostro background di giornalisti e documentaristi, siamo molto attaccati al realismo per cui ci facciamo continuamente delle domande sulla messa in scena: quest’ultima non è predefinita, ma nasce direttamente sul posto, dall’esperienza e dal rapporto che abbiamo con esso. Dunque da tantissime interviste e altrettante prove. Con Alessandro ci chiedevamo se, come documentario, cosa che Californie non è, certe reazioni sarebbero state reali. Mi viene da dire che usiamo il realismo un po’ come le sponde del biliardo, dunque quasi come deterrente verso deviazioni eccessive da esso. E questo succede anche se stiamo inserendo una drammaturgia e una determinata messa in scena.
Il tempo in Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman
In Californie il tempo, ovvero la volontà di restituire Jamila attraverso le diverse età della sua crescita, era una delle sfide del film. Per contro siete stati capaci di costruire un dispositivo in grado di raccontare il divenire dell’esistenza, che è uno degli obiettivi del grandi cinema.
AC: È verissimo: a livello creativo era una cosa bellissima, per contro dal punto di vista produttivo è stata una follia. È stata questa una parte molto affascinante del film e devo dire che, con Khadija, è stato stimolante farlo perché l’abbiamo colta in un momento di grande cambiamento fisico, in cui il tempo lavorava sul volto e sul corpo della ragazza. Ed è stato un lusso poterlo fare. Forse non ci potremmo più permettere di tornare a incontrare ogni volta una persona; di avere il tempo di analizzare le riprese fatte, di scrivere e poi di ripetere di nuovo lo stesso processo, per constatare sul campo la coerenza di quanto avevamo scritto e di verificare gli eventuali cambiamenti.
A noi piacevano questa sorta di vuoti all’interno del film, anche proprio a livello di narrazione. Non volevamo avere per forza un lungometraggio organizzato su tre atti ma ci piaceva disporre di questi salti temporali in cui non è necessariamente chiaro cosa sia successo, perché forse non è nemmeno importante saperlo. Dal punto di vista produttivo è stato un incubo perché iniziare delle riprese senza avere niente in mano è molto difficile. Devo dire che il produttore Damiano Ticconi in questo ci ha assecondato, così come Rai Cinema, fondamentale per la riuscita del film.
La tecnica
Torniamo a parlare della forma di Californie. In esso utilizzate codici che appartengono tanto al cinema del reale quanto a quello di finzione. In Californie c’è molta tecnica di pedinamento alla maniera in cui lo fanno i fratelli Dardenne. D’altra parte, come spettatore, rimango piacevolmente spiazzato quando vedo una scena come quella in cui Jamila va a fare i capelli alla signora senza dirlo alla sua datrice di lavoro. Lo stupore deriva dal trovarsi di fronte un campo e controcampo quando, fino a prima, l’approccio era di tipo documentaristico. La meraviglia prosegue constatando come le due tecniche riescano a integrarsi senza alcuna disarmonia.
CK: Ti devo dire che, a volte, avevo paura e non si mescolasse (ride, ndr)
AC: No, a parte gli scherzi, sei veramente attento nel notare queste cose. Non sai che dilemma abbiamo avuto dell’usare il campo controcampo.
Quel campo e controcampo per me equivale allo svelamento di una verità all’interno di un film giallo. Ha lo stesso impatto, la stessa forza.
AC. Con te lo possiamo dire, e cioè che tendevamo sempre nei dialoghi a realizzarli come fossero un documentario: nel riprenderli andavamo in panoramica da un punto all’altro senza fare il campo e controcampo. Poi, a un certo punto, dopo molte discussioni, fatte anche ad Emanuele Pasquet il direttore della fotografia, abbiamo deciso di utilizzare questa tecnica, cioè di disvelare la presenza di tale dispositivo contando sul fatto che se il resto dell’impianto reggeva, questa cosa non sarebbe stata avulsa dal contesto. La sequenza da te citata è stata scelta per svelare la presenza di una costruzione, di una finzione. Perché poi nel film ci sono anche altri codici di questo genere: per esempio la presenza della musica e poi la maniera di preparare le riprese. Nel film sembra che tutto accada in modo naturale; in realtà tutto è frutto di settimane di prove necessarie a dare seguito all’impianto di cui parlavi tu.
CK: Insieme ad Alessandro vogliamo utilizzare la nostra formazione per fare cinema. Poi non è che abbiamo un’idea precisa perché ogni progetto è diverso dall’altro. Non puoi programmare tutto e ogni film ha criteri differenti per quanto riguarda tecnica e impianto utilizzato. Da parte nostra avvicinarci al cinema di finzione, e cioè verso un lavoro più scritto e strutturato, è avvenuto con la volontà di non gettare l’esperienza che abbiamo avuto con il documentario. Stiamo ancora cercando di unire questi due aspetti per arrivare a qualcosa di ancora più forte. Comunque sono contento di sapere che, secondo te, quel mix ha funzionato.
È stato affascinante vedere fiorire quel campo e controcampo all’interno di un dispositivo che stava andando da un’altra parte. Non c’è scandalo in quella commistione.
Il formato dello schermo (4:3, ndr), più piccolo rispetto al normale, vi dà la possibilità di concentrarvi sul personaggio, evitando di farvi distrarre dagli elementi che vi stanno attorno.
AC: Sì, l’uso del 4/3 era anche relativo al discorso che facevi prima, e cioè alla volontà di levare dall’inquadratura i vicoli, le madonnine, per restare sul volto di Jamila. L’intenzione era di metterla al centro dell’immagine. Il 4/3 a livello geometrico si presta molto alla centralità della faccia e della persona.
Campi lunghi
Per introdurre i quadri corrispondenti alle varie età di Jamila utilizzate campi lunghi dominati dal mare antistante Torre Annunziata. Al di là della definizione del contesto ambientale mi pare che tali inquadrature svolgono due funzioni all’interno del film. La presenza dell’acqua rimanda al cambiamento, ma anche alla voglia di fuga del personaggio, come se quella vista diventasse un’apertura rispetto alla dimensione claustrofobica vissuta da Jamila.
CK: Come hai notato all’interno del film, quando si è trattato di passare da un luogo all’altro non abbiamo mai utilizzato aperture sull’ambiente. La scelta di usare il campo lungo e anche inquadrature molto profonde per dividere i capitoli del film era per dare un senso di respiro alla storia; anche perché in Californie ci sono molti dialoghi, dunque queste inquadrature servivano anche allo spettatore per fermarsi un attimo e per far lavorare la mente dello spettatore che deve immaginare cosa è successo nei vuoti del film. La dimensione del viaggio è molto presente, tanto che a un certo punto c’è l’inquadratura di un treno, mentre in un’altra scena si sente il suono del traghetto. Questo perché nella pre adolescenza ci chiediamo dove siamo, dove vogliamo andare, che cosa vogliamo fare. Da qui i riferimenti alle partenze e ai viaggi. In queste inquadrature larghe il mare si connette a quelle sensazioni, però direi che quella è un po’ la conseguenza. Il primo motivo era quello di dare questo spazio e questo respiro e per far lavorare l’ellissi temporale.
Il titolo
Il titolo Californie diventa metafora di un’imperfezione simile a quella presente nella vita della protagonista e degli altri personaggi, e che però, per come si vede nel film, diventa allo stesso tempo lo specchio del modo con cui Jamila riesce comunque a sopravvivere, adattandosi alle difficoltà. Anche se l’insegna del negozio è sbagliata (doveva essere California invece è Californie) i personaggi trovano comunque un modo per farsela andare bene. Al di là dei suoi riferimenti narrativi il titolo diventa metafora della storia e dei suoi personaggi
AC: Rispetto a questa domanda puoi fare il copia incolla di quello che hai detto perché è stato esattamente il nostro pensiero. È vero che questo titolo ha avuto una genesi rocambolesca, ma poi ha alla fine il senso di tutto lo puoi ritrovare nelle tue parole che sono uguali alle nostre. Quando chi ha fatto l’insegna dice alla proprietaria del negozio se non si possa trovare una via per utilizzarla comunque, senza doverla rifare, troviamo il senso del nostro titolo. Cioè, davanti a un’imperfezione ci si arrangia comunque. Non ci si blocca, anzi la si usa, la si mette in mostra. È questa la filosofia del mondo che abbiamo raccontato in Californie.
La recensione
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