La sirena di una volante attraversa la notte squarciando il buio gelido che avvolge i palazzoni tutti uguali della periferia. Da qualche finestra attraverso un timido solco tra le tende, si affacciano sguardi tremanti e curiosi di quanto stia accadendo laggiù, nella strada terra di nessuno ma subito si ritraggono, rannicchiandosi dentro la propria casa, ormai l’ultimo baluardo di protezione.
Roma, anni ’70. La patinata innocenza della Dolce Vita si è ormai definitivamente sbriciolata sotto la violenta ondata della lotta politica armata, della criminalità dilagante, del racket ai commercianti, la droga, la prostituzione.
Il fecondo germoglio della contestazione studentesca ha però anche spalancato le porte ad un mondo oscuro e ribollente di violenza. Se i giovani studenti contestatori, molto spesso provenienti da famiglie facoltose, lottavano per una maggiore visibilità e libertà dei costumi portando la rabbia edipica individuale ad un livello macro sociale, con lo scopo però di modificare l’impostazione patriarcale della società, le bande armate criminali avevano lo scopo di sostituirsi completamente alle istituzioni per affermare un proprio patriarcato sadico e violento in grado di assumere le sembianze di un anti-stato.
Il cinema da sempre osservatorio elettivo delle tensioni sociali assorbe come una spugna la sofferenza e il disorientamento di quegli anni producendo un effluvio di pellicole dove lo scontro tra polizia e criminalità diventa il tema dominante. La romantica atmosfera di complicità che impregnava film come Guardie e Ladri ( Steno, Monicelli, 1951) dove Totò ed Aldo Fabrizi si complicavano la vita reciprocamente, ma senza odiarsi, è ormai il retaggio lontano di un candore completamente smarrito. Ora nella vita come nella finzione si fronteggiano lo sbirro e il balordo ognuno con lo scopo di annientare l’odiato rivale.
Ma quando le forze del male incalzano minacciose attanagliando la comunità in un oscurantismo sociale e morale e quando le istituzioni disorientate da tanta ferocia stentano a dare una risposta, nel cuore degli uomini si alimenta un archetipo antico e immortale; l’Eroe impavido e senza macchia.
Se il campo di battaglia è la giungla urbana e il temibile nemico è il malavitoso estorsore e trafficante di droga, l’eroe non può essere che lui: il commissario.
Diversi furono i registi, da Fernando Di Leo a Stelvio Massi, da Umberto Lenzi a Sergio de Martino, che misero il proprio talento al servizio di storie di malavita dove il vecchio brigantaggio contadino si reincarnava nel tessuto urbano delle città ingigantite dal progresso industriale. Senza manifesti letterari né dichiarazioni programmatiche, lentamente prendeva vita un nuovo sottogenere cinematografico: il poliziesco all’italiana. L’attore emblema del periodo che nell’immaginario cinematografico dell’epoca incarnò l’intero movimento fu Maurizio Merli.
In Roma a mano armata (Umberto Lenzi 1976) veste i panni del Commissario Tanzi, volto angelico, biondo con gli occhi azzurri, faccia da “persona perbene”, ma inflessibile e talvolta brutale con i criminali. Funzionario solerte ed indomito lotta senza tregua contro due nemici, da un lato i temibili “marsigliesi” che vogliono estendere i propri interessi criminali a Roma e dall’altro superiori e magistrati troppo permissivi e garantisti nei confronti dei delinquenti.
Duro ed inflessibile predilige lo scontro frontale e non aspetta che sia l’altro ad estrarre la pistola per primo. Il suo punto debole sono i cittadini inermi abbandonati dalle istituzioni, imbrigliate come sono da una serie di leggi che tutelano i criminali e lasciano soli gli onesti. Genitori disperati perché i propri figli dipendenti dalla droga sono caduti nelle grinfie di spacciatori senza scrupoli, commercianti vessati dal racket e dall’usura chiedono aiuto a lui, il solo che può comprendere la loro disperazione. Animato da un furore quasi mistico il commissario Tanzi interiorizza le angosce degli altri e le fa proprie riconoscendo a se stesso la sacra investitura del crociato che difende il Santo Sepolcro dei deboli dagli attacchi degli infedeli. Il confine tra vita privata e vita professionale è completamente sfumato e il commissario non si tira mai indietro se qualcuno gli chiede aiuto. I rapporti con la sua fidanzata si deteriorano quando lei giudice minorile professa la rieducazione e il reinserimento dei giovani delinquenti. Lui non crede nella rieducazione ma solo nella repressione e nella punizione esemplare.
Quando scopre che Ferrender, un potente boss marsigliese ricercato dalle polizie di tutta Europa, ha l’intenzione di stabilire una sua rete criminale a Roma, la neutralizzazione di questo efferato malvivente diventa la sua priorità assoluta. Minuziose indagini lo portano ad individuare degli esponenti della malavita romana che offrono collaborazione al criminale transalpino; tra essi spiccano il Gobbo e il Monco, per via delle rispettive deformità fisiche.
Roma e i suoi quartieri fanno da sfondo all’affannosa ricerca del commissario Tanzi che instancabile attraversa i confini invisibili che separano la Roma bene dai degradati sobborghi privi di grazia e invasi da una tragica immobilità.
Il fervore con il quale il commissario reagisce quando viene colpita una inerme vittima, che molto spesso è una donna, rimanda ad una fantasia di riparazione inconscia simile a quelle che si riscontrano in persone che nell’infanzia hanno vissuto l’esperienza di vedere la propria madre aggredita o maltrattata dal padre, vivendo l’impotenza di non poterla salvare. Ogniqualvolta una vittima viene sottratta dalla minaccia di un attacco l’antica scena inconscia di maltrattamento viene rivissuta nella possibilità di attribuirgli un esito diverso. La precoce esperienza di impotenza si trasforma nella necessità onnipotente di salvare più persone possibile attraverso una autoinvestitura che riconosce a se stessi solo le funzioni di giustiziere asservito alla causa degli indifesi.
Che la sollecitudine con cui il commissario Tanzi persegue i malviventi non dipenda soltanto dal ruolo istituzionale che ricopre, ma risponda ad una sua esigenza più personale, è ancor più evidente in Il cinico, l’infame, il violento (Umberto Lenzi 1977) dove Tanzi deluso dalla polizia e dai suoi rappresentanti lascia il distintivo e si trasferisce a Milano dove lavora come correttore di bozze in una casa editrice specializzata in romanzi gialli. Intanto a Roma Luigi Maietto detto il Cinese è evaso di prigione sottraendosi ad una condanna all’ergastolo ottenuta grazie al contributo dell’ ex commissario Tanzi. Appena evaso il Cinese invia due sgherri ad uccidere Tanzi, il quale seppur ferito si salva. Il commissario di Milano però decide di divulgare la notizia che Tanzi è morto per metterlo al riparo da ulteriori rappresaglie e decide di inviarlo in Svizzera al sicuro almeno fino a quando non fosse riusciti a riacciuffare il Cinese.
Ma per Tanzi il ruolo della preda non è sopportabile e di nascosto prende un treno per tornare a Roma e regolare i conti di persona. In questo episodio Tanzi ottenebrato dalla foga di catturare il Cinese e di assicurarlo alla sua calibro 9 più che alla giustizia infrange la legge più di una volta a testimonianza del fatto che l’unica giustizia con la g maiuscola è la sua.
Il successo di pubblico di cui hanno goduto queste pellicole ci induce a riflettere sulle rappresentazioni collettive che in questi film hanno trovato un involucro contenitivo in grado di garantirne una mentalizzazione. L’abbattimento della cultura dei padri avvenuta con gli ideali del ’68 ha avuto come ombra inevitabile anche la nascita di una cultura del saccheggio dove i ricchi borghesi erano le prede da colpire e la violenza era considerata come uno strumento legittimo per lenire le ingiustizie sociali. In un clima di confusione dove gli antichi punti di riferimento erano smarriti il commissario Tanzi incarna l’immagine del padre vecchio stampo che protegge le famiglie dall’impatto deflagrante delle nuove realtà sociali, lì dove le istituzioni si stavano riorganizzando troppo lentamente di fronte a fenomeni come la droga, lo sfruttamento della prostituzione, il taglieggiamento, gli scippi, i rapimenti, la delinquenza organizzata.
Quando il buio morale deturpa la vita in tutti i suoi aspetti, l’uomo crea il mito nella speranza che lo aiuti a sostenere la realtà e a credere nel futuro, ed uno dei miti più antichi e longevi è il mito dell’eroe che sopravvive alla morte e sconfigge le terribili creature che dimorano nelle tenebre riportando la luce tra la sua gente.
Damiano Biondi